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Diritti / Opinioni

Vent’anni dopo Genova, quel movimento siamo noi

Le idee e i movimenti nati a Seattle, Porto Alegre e Genova hanno continuato a fiorire in questi anni. Sono “comunità anticipative”, capaci di identificarsi con la condizione degli oppressi, di prendersi cura e di trasformare l’economia in organizzazione
della giustizia. Le “idee eretiche” di Roberto Mancini

Tratto da Altreconomia 239 — Luglio/Agosto 2021
"Un altro mondo è possibile". Un murale realizzato a Seattle con lo slogan del World social forum © Wikimedia commons

Quel movimento siamo noi. Intendo quello che agli inizi degli anni Duemila fu chiamato “no global”. A vent’anni dal Social forum di Genova, si è voluto ridurre la novità delle sue idee ai “fatti di Genova”: l’uccisione di Carlo Giuliani, le torture alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto, le menzogne del governo di destra di allora, la sospensione dei diritti costituzionali come se l’Italia fosse il Cile di Pinochet. Oggi quel ricordo sembra sbiadito in un Paese dove i sondaggi danno in ascesa Fratelli d’Italia e la Lega, due varianti di quel fascismo che ha radici in larghi strati della popolazione. Ma sarebbe miope giudicare il movimento emerso nella scena internazionale prima a Seattle nel 1999 e dal 2001 con il Forum sociale mondiale di Porto Alegre e con l’appuntamento di Genova come un relitto del passato.

In realtà il confronto è sempre aperto. Da noi in particolare perdura la lotta tra “l’ideologia italiana” e la cultura della democrazia. L’ideologia italiana è una miscela di questi ingredienti: ipocrita indignazione per come vanno l’Italia e il mondo, rivendicazione delle soluzioni “forti”, identificazione con un capo contrapposto alla “casta” e alla “politica”, denigrazione del Parlamento e della democrazia, disprezzo per gli stranieri, razzismo e maschilismo, nazionalismo e localismo, il tutto rivendicato con le pretese di una fiera ignoranza e senza mai disturbare gli interessi del capitalismo.

Nel resto del mondo gli ingredienti sono più o meno gli stessi, dalla Polonia alla Turchia, dall’Ungheria al Brasile, dal Myanmar all’India, con l’aggiunta del fanatismo religioso. Lo scontro si è radicalizzato: da un lato oligarchie rapaci e masse inclini al fascismo, dall’altro le forze etiche e vitali della società impegnate a costruire giustizia, tutela della natura, pace, democrazia vera. 

Il Genoa Social Forum del 2001, nel suo nucleo autentico e al di là delle infiltrazioni dei black bloc, fu espressione della maturazione del movimento corale che prefigurava quello che ora viene ambiguamente chiamato “transizione ecologica”. 

È lo stesso movimento che periodicamente riemerge in forme molteplici contestando i sistemi di potere, prefigurando una società fondata sul rispetto verso tutti i viventi e sulla liberazione delle vittime. Esso si caratterizza per l’impegno alla trasformazione nonviolenta e democratica applicata all’assetto dell’economia e della politica, ai rapporti interpersonali e tra i popoli, alle relazioni tra i generi e tra le generazioni, all’educazione e all’informazione, alla cultura e alla scienza, al rapporto con la natura. La sua forza sta nella capacità di aprire strade inedite.

Non si tratta di “resilienza”, una parola che dice l’attitudine di adattarsi a condizioni ostili. Si tratta di anticipazione. Le idee di Seattle, di Porto Alegre, di Genova e di tutto ciò che in questi anni ha continuato a fiorire ci spingono fuori dalla trappola mortale del tecnocapitalismo, del colonialismo, del maschilismo, del nazionalismo. Non solo perché ne svolgono la critica radicale, ma perché alimentano processi storici che realmente anticipano una società liberata. La forza di questo movimento no power sta nel riaprire la storia lì dove il potere sembra averla definitivamente compromessa. 

L’impegno dei singoli è indispensabile, ma deve esprimersi soprattutto nell’opera di comunità civili aperte e sorelle ovunque nel mondo. Comunità anticipative capaci di identificarsi con la condizione dei più oppressi, capaci di praticare la politica del prendersi cura anche dentro il circuito delle istituzioni, capaci di trasformare l’economia in organizzazione della giustizia. E capaci di rigenerare la fiducia nell’umanità sradicando quella credenza nell’irreversibilità del male che, mentendo, convince molti ad arrendersi alla menzogna e alla prepotenza. Oggi dobbiamo procedere sulla strada che nel 2001 fece tappa a Genova, essendo ciascuno meno geloso della propria differenza e più coinvolto nel popolo del mondo nascente.

Roberto Mancini, insegna Filosofia teoretica all’Università di Macerata; il suo libro più recente è “Gandhi. Al di là del principio di potere” (Feltrinelli, 2021)

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