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Diritti / Reportage

Quel che resta di Moria. A Lesbo per i rifugiati inizia un’altra detenzione

Reportage dall’isola dopo l’incendio che ha devastato il campo e sfollato 12mila persone. Il confinamento dei migranti e richiedenti asilo continua in una nuova tendopoli senz’acqua e circondata da filo spinato. MSF chiede l’evacuazione immediata

Quel che resta del campo di Moria, a Lesbo, dopo l'incendio del settembre 2020 - © Valerio Nicolosi

“Freedom Movement” è la scritta che spicca su un container in mezzo a quel che resta del campo di Moria, che oggi ha più l’aspetto di un set cinematografico post-apocalittico.
Il silenzio viene infranto dal rumore dei passi delle decine di persone che cercano qualcosa che si è salvato dall’incendio del 9 settembre. Tra loro c’è un signore seduto vicino a dei sacchi di plastica che la sua famiglia è riuscita a riempire con degli oggetti, si guarda attorno e piange mentre un gatto gli fa le fusa. “Sono molto legati, veniva sempre alla nostra tenda e gli davamo da mangiare, oggi però non abbiamo cibo nemmeno per noi”, racconta Reza, il figlio del signore che piange e che continua a guardarsi attorno incredulo.

Quella che fino a pochi giorni fa era una prigione e un posto infernale oggi è diventato uno scenario spettrale, la desolazione ha preso il posto del caos e dei mercati improvvisati lungo i vicoli interni ed esterni al campo.

Solo qualche centinaia di persone si sono accampate nelle colline adiacenti a Moria, le altre dopo l’incendio si sono dirette verso la litoranea, dove hanno creato un accampamento informale che la polizia ha reso “restricted area”, zona delimitata da dove i richiedenti asilo non possono uscire e dove gli attivisti e giornalisti hanno difficoltà ad entrare.

Ma come in ogni sistema chiuso un bug per entrare si trova sempre e così dei sentieri lungo le colline sono divenuti le vie d’accesso e d’uscita informali per far entrare la spesa e far uscire le persone.
“Usciamo per comprare pollo, acqua e pane perché il cibo non basta per tutti”, dice Ahmed, un uomo siriano che torna dal sentiero con due buste piene. La spesa è per sua moglie e le sue due figlie, la prima di tre anni e la seconda di venti giorni, nata due settimane prima dell’incendio. “Siamo riusciti a scappare ma siamo stati fortunati”.
Ahmed con tutte le altre 12.000 persone sfollate alla fine si sono arresi al governo e hanno accettato di entrare nel nuovo campo che nelle ore successive al rogo di Moria è stato costruito su di una spianata di terra che con le prime piogge diventerà fango. “Ci hanno detto che se non entriamo non possiamo essere trasferiti ma sappiamo anche che se entriamo non potremo uscire”, racconta Mozhedeh, una ragazza afghana di 19 anni che sogna di tornare a studiare. Lei e la sua famiglia sono in viaggio da quattro anni e la mamma racconta: “A Moria vivevamo come bestie, siamo scappati dall’Afghanistan perché non potevamo più vivere sicuri, siamo sciiti e i Talebani ci uccidono ma ad oggi penso che tornerei indietro, non posso far fare questa vita ai miei figli”.

Gli attivisti che nei giorni scorsi hanno garantito il cibo nella restricted area, unica attività concessa dalla polizia in modo che non toccasse a loro organizzarla, oggi vengono multati se portano le buste all’ingresso del cancello. “Il nuovo campo ha un solo blocco di bagni chimici, è senza elettricità e la parte abitativa è un agglomerato di plastica” denunciano molti di loro e la polizia sta facendo raid nelle abitazioni che ospitano i richiedenti asilo.
Le tende sono state fornite dall’UNHCR mentre altri Paesi europei hanno donato coperte, sacchi a pelo e materiali che sicuramente saranno utili non appena scenderanno le temperature, visto che le tende non hanno nessun tipo di sistema di isolamento termico.

Il nuovo campo governativo – © Aegean Boat Report

“Dobbiamo continuare a lavorare sul rafforzamento dei controlli delle frontiere europee ma dobbiamo anche coinvolgere i Paesi esterni” ha detto Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, sulla collina più alta del nuovo campo governativo. Gli accordi con Turchia e Libia quindi saranno il modello da seguire. Michel ha poi aggiunto: “Dobbiamo rafforzare la collaborazione tra gli Stati membri” ma questa cooperazione è ancora tutta sulla carta perché tra i 27 Stati Ue solo la Germania si è proposta per accogliere 1.500 persone, mentre nelle ore successive all’incendio di Moria 10 Paesi hanno dato la disponibilità ad accogliere i 500 minori non accompagnati. Numeri bassi che dimostrano che anche la volontà della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, di cancellare il “Regolamento di Dublino” sarà tutta una strada in salita.

Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, a Lesbo. Sullo sfondo il nuovo campo governativo – © Valerio Nicolosi

Indiscrezioni che arrivano da Bruxelles sembrano confermare le parole di Michel a Lesbo ma mentre sul rafforzamento del pattugliamento delle frontiere sarà facile trovare un accordo, sulla cooperazione e redistribuzione sarà più complesso. Il “Gruppo di Visegrad”, composto da Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, così come altri Paesi come l’Austria, la Croazia, la Slovenia o la Finlandia difficilmente accetteranno quote obbligatorie per la redistribuzione dei rifugiati. Nel 2015 ci fu un altro tentativo di introduzione delle quote obbligatorie che fallì perché l’accordo fu siglato per le ripartizioni non obbligatorie e dopo pochi mesi i governi smisero di accogliere le persone arrivate in Italia, Grecia, Spagna e Malta. Quello che in questi giorni è stato chiamato “Il modello Moria”, ovvero una gestione congiunta del campo profughi da parte del governo locale insieme all’Unione europea, è ancora tutto da stabilire. Quello che è certo è che per i richiedenti asilo di Lesbo è iniziata un’altra detenzione amministrativa: dopo cinque mesi di lockdown a Moria infatti non potranno uscire dal nuovo campo, ufficialmente per questioni di sicurezza legate al Covid-19. Sono 174 i positivi al momento ma quello che preoccupa Medici Senza Frontiere e altre organizzazioni di medici presenti sull’isola è quello di poter continuare il proprio lavoro. “Stiamo cercando di rintracciare tutti i nostri pazienti ma non è facile farlo in mezzo a 12.000 persone. Donne incinte, malati psichiatrici o chi era affetto da infezioni, tutti hanno bisogno di proseguire le cure” racconta Giovanna Scaccabarozzi, dottoressa di che lavora nella clinica di Moria di MSF.

Il nuovo campo a Lesbo ha un solo blocco di bagni chimici – © Aegean Boat Report
La piccola spiaggia nei pressi del nuovo campo circondata dal filo spinato – © Aegean Boat Report

Nel campo governativo l’unica distrazione possibile per bambini e adulti è la possibilità di farsi il bagno nella piccola spiaggia circondata dal filo spinato apposto dalle autorità per evitare le fughe.
Usciti dell’acqua però i problemi sono lì ad aspettarli: alcune mamme riescono a lavare i figli ma l’acqua è insufficiente per tutti e così molti hanno delle infezioni alle mani e ai piedi. “Era una patologia diffusa già a Moria e pur dando gli antibiotici non può guarire se non c’è possibilità di lavarsi spesso”, prosegue Scaccabarozzi.
Medici Senza Frontiere e tutte le altre organizzazioni continuano a chiedere l’evacuazione immediata mentre dal governo ripetono che 6.000 saranno spostati sulla terra ferma entro Natale e altri 6.000 entro Pasqua.

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