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Economia / Opinioni

Quattro proposte per rendere l’Europa più “attraente”

Un salario minimo garantito e un fondo comune europeo contro la disoccupazione, la rimozione del meccanismo dei “bail in” e una riforma condivisa dei trattati per superare il tetto del 3% nel rapporto da non superare tra deficit e Pil. Le proposte di Alessandro Volpi

Il parlamento europeo a Strasburgo © TeaMeister via Flickr

Per rendere più attraente l’appartenenza europea e migliorare le prospettive economiche italiane, avendo come obiettivo una maggiore giustizia sociale, è possibile fare ricorso ad alcune proposte che circolano da qualche tempo e che può essere utile riassumere in termini semplici.

In primo luogo, appaiono sempre più necessari un salario minimo garantito che valga per tutta l’Unione Europea e un fondo comune europeo contro la disoccupazione. Si tratterebbe di due misure in grado di ridurre i rischi sociali nei momenti di crisi più acuta delle varie economie nazionali che, se finanziate in maniera continuativa, eviterebbero il ricorso a più costosi provvedimenti presi in emergenza. Soprattutto rappresenterebbero un cardine a cui legare una solida nozione di cittadinanza europea che consentirebbe di allontanare ogni euroscetticismo, in particolare se la copertura del salario minimo e del fondo provenisse dall’emissione di titoli di debito europeo, efficaci sui mercati e simboli di un impegno realmente condiviso.  Sulla solidarietà si costruisce infatti l’appartenenza comune.

Occorre poi rimuovere l’inutile direttiva comunitaria che ha introdotto il cosiddetto bail in, il coinvolgimento di azionisti, obbligazionisti e correntisti delle banche fino a 100 mila euro in caso di fallimento bancario. Tale norma, di fatto mai applicata, nasce da un’idea molto rigida di libera concorrenza e del conseguente divieto di aiuti di Stato per cui non è possibile procedere a salvataggi bancari a carico dei contribuenti se non dopo aver chiamato al sacrificio i tre gruppi sopra ricordati.

Proprio questa rigidità ha spaventato molto i risparmiatori e li ha resi restii ad ogni forma di investimento finanziario, utile alla ripresa del sistema produttivo, a cui serve liquidità. Inoltre, la sola minaccia del bail in ha generato forti perdite per molti istituti di credito italiani, costretti a pesanti ricapitalizzazioni. Al di là degli aspetti tecnici ed economici, la prospettiva che l’Europa sia “nemica” dei risparmiatori costituisce un argomento fortissimo per gli euroscettici.

Serve un accordo tra i vari Stati membri per riformare i trattati nella parte che fissa al 3% il rapporto da non superare tra deficit e Pil, portandolo al 5% per i Paesi che hanno un avanzo primario e che non aumentano la spesa per interessi sul debito. Sarebbe possibile così liberare risorse pubbliche per investimenti, indispensabili per la ripresa economica. È chiaro che un allentamento delle maglie del rapporto deficit-Pil può avvenire, senza scossoni sui mercati finanziari, solo se condiviso a livello europeo e non tramite sforamenti unilaterali. Di nuovo quindi si tratta di una questione culturale.

Sul versante italiano varrebbe la pena pensare ad un’imposta patrimoniale che non abbia carattere di una tantum ma acquisisca i tratti della misura permanente, con evidenti finalità redistributive. Attualmente esiste nel sistema tributario italiano un prelievo sui patrimoni che non è banale: Imu e Tasi garantiscono un gettito annuo di quasi 22 miliardi di euro, a cui si aggiungono il bollo auto per 6,7 miliardi, l’imposta di bollo sulle attività finanziarie per 6,2, l’imposta di registro per 5,3, il canone Rai per 2, l’imposta ipotecaria per 1,7 e la tassa di successione per 815 milioni. In estrema sintesi i patrimoni degli italiani garantiscono ogni anno un prelievo di circa 45 miliardi di euro. Un gettito che ha conosciuto un balzo sensibile tra il 2011, quando era pari a poco meno di 32 miliardi, e il 2012, allorché arrivò a 44,6 miliardi di euro, per oscillare negli anni successivi fra i 48 e, appunto, i 45 miliardi del 2017.

Il vero problema di questo prelievo, tuttavia, è costituito dal fatto che risulta poco progressivo e dunque non svolge una funzione redistributiva. Occorrerebbe, allora, rimodularlo partendo da un presupposto diverso: si potrebbe alleggerire la pressione di tali imposte per alcune fasce di reddito più basse e appesantirla per quelle più alte. Se è vero, infatti, che la polarizzazione delle fortune è così marcata che, in Italia, l’1% più ricco della popolazione possiede il 25% della ricchezza, pari a circa 2.500 miliardi di euro, non sarebbe troppo gravoso chiedere, ogni anno, per un decennio, un “contributo di solidarietà” dell’1,5% di tale cifra applicato ai patrimoni che rientrano in tale fascia. Si ricaverebbero così 37,5 miliardi, da aggiungere ad un gettito sulle voci sopra ricordate pari a circa 35 miliardi, dopo la già ricordata decurtazione progressiva. Se, poi, grazie alla riduzione degli spread, dettata da un diverso clima europeo, fosse possibile contrarre la spesa in conto interessi sul debito di una decina di miliardi, le risorse per migliorare la distribuzione della ricchezza e dei redditi e per rilanciare i consumi non sarebbero affatto trascurabili. Certo, prima di tutto, bisogna invertire una tendenza che va, ora, in un’altra direzione tanto da aver già fatto salire il costo degli interessi da pagare nel 2020 di quasi 9 miliardi rispetto al 2019.

Università di Pisa

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