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Interni

Quando vendere significa perdere

A Monteroni d’Arbia, in provincia di Siena, l’Agenzia nazionale dei beni confiscati mette all’asta una tra le più importanti tenute sottratte a Cosa Nostra. La mobilitazione dell’antimafia sociale _ _ _
 

Tratto da Altreconomia 153 — Ottobre 2013

Alla fine, quello che molti temevano si è verificato: i beni confiscati sono stati messi in vendita. È successo a fine agosto, quando il Consiglio direttivo dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati (ANBSC) ha scelto di mettere all’asta -per un valore di ventidue milioni di euro- la più estesa tra le proprietà sottratte alle mafie nell’Italia centrale: la tenuta agricola di Suvignano, frazione di Monteroni d’Arbia, in provincia di Siena.
Un “paradiso terrestre” che Giovanni Falcone sequestrò all’imprenditore Vincenzo Piazza, considerato un prestanome e riciclatore di Cosa Nostra. La tenuta si estende per 713 ettari, di cui 600 coltivati a cereali e prato, una villa circondata da oliveti e cipressi, 13 coloniche, una chiesa con la canonica, fienili, una fornace, due agriturismi, una riserva di caccia, 3 centri zootecnici dove si allevano 2mila ovini, 350 cinte senesi e si sperimenta la produzione di latte d’asina.
La confisca definitiva risale al 2007.
La tenuta è stata classificata come bene aziendale e, per questa ragione, è legittimo prevederne la vendita. Quello che ha lasciato perplessi in molti e ha suscitato le proteste di vari rappresentanti istituzionali, innanzitutto del sindaco di Monteroni d’Arbia, Jacopo Armini, è che alcuni mesi prima della decisione dell’Agenzia, al ministero dell’Interno era stato presentato un progetto per il riutilizzo socio-imprenditoriale della tenuta, sostenuto dalla Regione Toscana, dalla Provincia di Siena, dal Comune di Monteroni e dalle associazioni Arci e Libera. In quell’occasione i complimenti e gli apprezzamenti erano stati unanimi.

Alla notizia della messa all’asta della tenuta di Suvignano il mondo dell’antimafia sociale non è rimasto a guardare. Ha reagito prontamente e in modo unitario, lanciando un manifesto-appello in cui, -tra gli altri- Libera, Arci, Avviso Pubblico, Cgil hanno scritto: “Riteniamo che la scelta di vendere all’asta i beni confiscati sia un grave errore sia politico che culturale. Il riutilizzo dei beni è infatti il più importante strumento per sottrarre consenso alle organizzazioni criminali, riaffermare la legalità, creare opportunità di lavoro e sviluppo sociale. La vendita non garantisce tutto questo e, non si dimentichi, in essa è contenuto il rischio che i beni confiscati vengano di fatto restituiti ai mafiosi a cui sono stati sottratti”.
Domenica 8 settembre si è svolta una manifestazione (nella foto) che ha visto la partecipazione di più di mille persone, tra cui parlamentari, amministratori locali, rappresentanti istituzionali e di associazioni, sindacalisti e cittadini che hanno gridato con forza “Riprendiamoci Suvignano”. Quel grido così forte e corale non è passato indifferente.
L’11 settembre il viceministro dell’Interno, Filippo Bubbico, ha annunciato la modifica della normativa sui beni confiscati in modo da evitare la messa all’asta del bene di Suvignano.

Per ora, il primo tempo della partita sui beni confiscati pare destinata a chiudersi con la vittoria del fronte dell’antimafia sociale e di quel pezzo di politica che non ha smarrito il senso di responsabilità. Tuttavia, l’attenzione su questo tema non deve mai venire meno. Ad oggi vi sono 12.946 beni confiscati nel Paese, suddivisi in 1.708 aziende e 11.238 beni immobili (l’approfondimento su Ae 150). Un patrimonio immenso, destinato ad aumentare nei prossimi mesi con le confische ai danni dei mafiosi ormai radicatisi al Nord.
Un patrimonio che qualcuno vorrebbe mettere a reddito nella forma più rapida e meno complicata possibile: la vendita. L’esatto opposto di quello che prevede la legge 109 del 1996, voluta e sostenuta con forza da più di un milione di cittadini. —

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