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Quando Altreconomia intervistò Nicola Gratteri

La versione integrale dell’intervista al procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri pubblicata sul numero 107 di Altreconomia.

Tratto da Altreconomia 107 — Luglio/Agosto 2009

Da un investigatore esperto come Nicola Gratteri uno si aspetta la proposta di soluzioni sofisticate, di provvedimenti legislativi raffinati, di strumenti di indagine innovativi. Invece no, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria dice una cosa molto elementare: la ‘ndrangheta e le altre organizzazioni mafiose si combattono con il carcere e con la confisca dei beni. Punto. Servono pene più dure per i reati tipici del crimine organizzato, dall’associazione mafiosa al traffico di droga, senza la possibilità di ricorrere al rito abbreviato né benefici dopo la condanna. Bisogna disincentivare l’attività mafiosa, renderla “non più conveniente” dal punto di vista materiale: “Se vedo che i carabinieri portano via mio fratello e per vent’anni non lo rivedo più perché resta chiuso in cella, difficilmente sceglierò di seguirne la strada criminale”. E costerebbe meno per le casse dello Stato.
È una tesi politicamente scorretta da qualunque punto di vista la si guardi, da destra, da sinistra e dal centro, ma a enunciarla è uno dei massimi esperti della materia. “La ‘ndrangheta è sempre più forte, più ricca e più arrogante -affema Gratteri-. Più ricca perché il traffico di cocaina va alla grande; più arrogante perché dal punto di vista giudiziario, malgrado il lavoro di forze dell’ordine e magistratura, non riusciamo a contenerne la grande espansione, la pervasività nel tessuto sociale ed economico, in Italia e nel mondo”.
L’anno scorso il governo degli Stati Uniti ha inserito la ‘ndrangheta nella lista nera del narcotraffico mondiale. L’Italia fa abbastanza per contrastarla nella sua culla, in Calabria?
La scarsità di mezzi non è il problema principale. Il punto fondamentale è che uno ‘ndranghetista, un mafioso, un camorrista cessa di essere tale soltanto quando è morto. Non c’è ravvedimento e chi sceglie di collaborare con la giustizia spesso si tiene comunque qualcosa per ricattare altri. Allora dobbiamo uscire dall’ipocrisia e creare un sistema giudiziario tale che non sia più conveniente essere ‘ndranghetisti. Non parlo né di morale né di etica, parlo di convenienza.
Come si fa a rendere sconveniente l’affiliazione criminale?
Viviamo in una società consumistica, dove si conta in funzione del denaro e del potere che si gestisce, non dei valori. Se mi basta fare quattro o cinque viaggi a Milano trasportando cocaina per guadagnare somme che mi permettono la macchina di lusso, la villa, la vita del ricco, allora deve succedere che se vengo arrestato sto in carcere almeno vent’anni.
Gli anni più belli della mia vita, visto che in genere corrieri e trafficanti sono giovani. Nei paesi calabresi ad alta densità mafiosa la partecipazione dei giovani alle attività della ‘ndrangheta è molto diffusa. Soltanto di una minoranza si riesce a dimostrare la responsabilità penale, a prezzo di un lavoro investigativo molto serio. Se i giovanissimi, i 12-14enni pronti a entrare nel circuito criminale, vedessero che fratelli e cugini arrestati non tornano più a casa, penserebbero che è meglio trovarsi un lavoro onesto piuttosto che fare la stessa fine.
Basta quindi riscrivere qualche riga del codice penale?
No, bisogna creare certezza della pena in tutto il sistema giudiziario. Finiamola di cincischiare con il rito abbreviato, che è solo un regalo ai mafiosi: abbassa di un terzo la pena da scontare e non deflaziona l’arretrato dei tribunali. In secondo luogo, rimettiamo in funzione le carceri di Pianosa, Gorgonia, L’Asinara e Favignana (le carceri di massima sicurezza di cui anche il sostituto procuratore di Palermo Antonio Ingroia ha chiesto la riapertura, vedi l’intervista sul numero 100 di  Ae, ndr). Invece si è fatto l’indulto, che si è rivelato inutile, un insuccesso elettorale e i promotori di allora oggi fanno finta di niente, anzi alcuni, per giustificarsi dicono che l’hanno fatto perché lo ha chiesto, in Parlamento, il Santo Padre.
Non teme l’accusa di essere troppo “forcaiolo”?
Molti hanno paura di dire queste cose, che sembrano eccessive, ma bisogna cominciare a parlarne. In venti anni un mafioso entra in carcere tre o quattro volte, con altrettanti processi e costi spaventosi per lo Stato.
Però intorno alla ‘ndrangheta sembra esserci una vasta area grigia di collusione: i colletti bianchi, le logge massoniche, i politici, quell’insieme di interessi trasversali tra affiliati e mondo esterno che qualcuno definisce “La Santa”. Non è riduttivo parlare soltanto di pene più dure?
La cosiddetta zona grigia non è molto ampia. Non vogliamo capire che il figlio di uno ‘ndranghetista che è andato a scuola, diventando ingegnere o avvocato, è anche lui uno ‘ndranghetista. E che la pubblica amministrazione è piena di ‘ndranghetisti a tutti gli effetti, altro che area grigia. A ogni convegno a cui partecipo, alla fine c’è qualcuno che ricorda la frase di Giovanni Falcone secondo la quale la mafia finirà perché è un fatto umano e tutti i fatti umani finiscono. Rispondo che con questo sistema giudiziario la ‘ndrangheta finirà quando finirà l’uomo sulla terra.
Tra l’altro appare molto vasta l’area “nera”, cioè il numero di persone effettivamente affiliate alle cosche. Nel suo libro Fratelli di sangue sono citati dati impressionanti.
Stimiamo che gli affiliati siano almeno diecimila nella sola provincia di Reggio Calabria. Oggi però la ‘ndrangheta è presente in tutte le regioni italiane, soprattutto nel Centro-Nord. In ogni cittadina c’è un “locale” di ‘ndrangheta, cioè un’organizzazione clone di quella originale calabrese. Il fatturato globale dell’organizzazione, esclusi i proventi del denaro riciclato, è stimato in 44 miliardi di dollari.
Anche al Nord la ‘ndrangheta è in una fase di espansione?
Sì, è più presente e più forte di prima. Con la grande disponibilità di soldi derivata dal traffico di droga, gli uomini delle cosche hanno acquistato imprese, al punto che, in alcune aree, la presenza dell’economia mafiosa è così forte da far saltare le regole del mercato. Se un’azienda non ha bisogno di ricorrere al credito bancario per ottenere liquidità è nettamente avvantaggiata rispetto alle concorrenti. Negli appalti pubblici ci sono imprese di ‘ndrangheta che si occupano di movimento terra, trasporti, fornitura di calcestruzzo, fornitura di manodopera, ma almeno è un settore dove ci sono dei controlli. Nel terziario, in particolare nelle attività commerciali, i controlli sono minori. La ‘ndrangheta rileva per esempio il negozio di un imprenditore sotto usura, ci mette un giovane prestanome, una bella commessa, una vetrina luccicante e lì ricicla i profitti della droga.
Con la crisi, l’attacco all’economia pulita è più facile?
Il fenomeno è di lunga data, ma è ovvio che in periodi di crisi la ‘ndrangheta abbia buon gioco a proporsi per comprare attività o investire in società pulite e consolidate sul mercato.
Poi ci sono i grandi eventi che comportano l’afflusso di denaro pubblico in settori dove le aziende mafiose sono forti, in particolare l’edilizia. Sono giustificati, secondo lei, gli allarmi relativi all’Expo2015 di Milano e alla ricostruzione in Abruzzo?
La ‘ndrangheta non starà a guardare. Parlando di Expo, in Lombardia la sua presenza nell’edilizia risale agli anni Sessanta ed è ormai consolidata. Se arrivano soldi, se si costruiscono grandi opere, palazzi e infrastrutture, è ovvio che ‘ndrangheta, camorra e Cosa nostra ci entrano.
Lo Stato che fa stanziamenti miliardari in grandi opere ha anche gli strumenti per tenere lontano le imprese criminali?
Gli strumenti ci sono, però ci vorrebbero anche gli uomini per andare a fare i controlli, le macchine per i sopralluoghi e i soldi per la benzina. A furia di stringere, di tagliare i fondi per polizia e carabinieri, si sta raschiando il barile. Ricordo un ministro che qualche anno fa diceva: in Italia abbiamo il doppio di uomini delle forze dell’ordine per abitante rispetto alla Svezia, quindi dobbiamo diminuirli. Questa è ipocrisia, anzi follia. Gli uomini vanno messi in base alla situazione che hai, dal punto di vista criminale non puoi paragonare il Nord Europa all’Italia. Caso mai è il resto dell’Europa che non è attrezzato per combattere le mafie presenti -in Germania, Olanda, Belgio, Spagna-, di cui non ci si accorge fino a che non c’è il morto a terra, come insegna la strage di Duisburg.
Tornando in Italia, secondo lei l’attuale dirigenza politica mostra una volontà di intervenire?
Negli ultimi quindici anni abbiamo avuto due governi di centrodestra e due di centrosinistra. Negli ultimi due governi, uno di centrosinistra e uno di centrodestra, non ho visto il giro di boa. Non ho visto una volontà seria di arginare il fenomeno mafioso. La lotta alla mafia è una cosa molto seria, dura, difficile, non indolore. Non si può andare avanti con un decreto più o meno efficiente ogni cinque o sei mesi. Bisogna avere il coraggio, la volontà e la libertà di cominciare a modificare il codice penale, il codice di procedura penale e l’ordinamento penitenziario. Questa è la base, poi si va nel dettaglio.
Torniamo dunque al discorso delle pene.
Quand’anche riesci a dimostrare la colpevolezza di un imputato in dibattimento, accade che la pena sia ridicola rispetto al danno inflitto alla vita civile del Paese. Inoltre ogni detenuto riceve uno sconto di tre mesi ogni anno se tiene una buona condotta. Solo gli stupidi non ne approfittano, e infatti i mafiosi sono sempre detenuti modello. E non è tutto. Non appena la sentenza è definitiva, il detenuto può ricorrere al giudice di sorveglianza per chiedere dei benefici. In Francia prima bisogna scontare almeno metà della pena. Per rendere forte il nostro sistema giudiziario ci vuole una cura “da febbre da cavallo”.
Eppure l’Italia è il Paese europeo dove l’emergenza criminale è più forte.
Non ci si rende conto del grado di pervasività raggiunto dalle mafie sul territorio. La democrazia non è solo la libertà di andare in piazza e fare un comizio, è anche la libertà di fare scelte economiche. Se voglio costruirmi una casa e arriva il mafioso del luogo a dirmi che agli scavi ci pensa lui, che per gli infissi c’è un amico suo bravissimo, so perfettamente che se non obbedisco mi trovo la macchina bruciata o peggio. Se non sono libero neppure di fare queste piccole scelte, non vivo in una democrazia.

Vent’anni in trincea
Nicola Gratteri, calabrese di Gerace, procurature aggiunto a Reggio Calabria, è uno dei massimi conoscitori della ‘ndrangheta, l’organizzazione mafiosa più forte d’Italia e tra le più potenti al mondo, protagonista del traffico globale di droga e di armi. La combatte da oltre di vent’anni e ha guidato le indagini contro le cosche più potenti: i Morabito di Africo, i Pelle e i Nirta di San Luca, i Cordì di Locri. L’ultimo a finire nella sua rete, il 12 giugno, è stato il latitante di lungo corso Antonio Pelle, la primula rossa della ‘ndrangheta, uno dei capi più temuti e rispettati. Per mettere in condizioni di non nuocere questo magistrato scomodo, i boss avevano messo da parte un chilo di plastico e un detonatore, ma i carabinieri sono arrivati prima.
Il libro Fratelli di sangue, scritto da Gratteri insieme al giornalista e storico Antonio Nicaso (prima edizione Pellegrini 2006, ora Mondadori 2009), in 400 pagine ricche di informazioni e povere di fronzoli rispecchia perfettamente la sua concezione “asciutta” della criminalità organizzata e dei metodi per contrastarla.

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