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Altre Economie

Pura lana vergine, e brianzola

Una filiera delle fibre naturali, per chi non si accontenta dell’etichetta poco trasparente di un maglione

Tratto da Altreconomia 123 — Gennaio 2011

L’etichetta del maglione che indosso recita “Pura lana vergine”, e mi lascia a bocca asciutta. Cosa significa? Non mi dice nulla sulla provenienza del capo, né su quella della lana. Un gregge di pecore pascola nella mia mente mentre provo invano a ricostruire la filiera del capo che indosso.

È questo uno degli obiettivi del progetto Raffin-Rete artigiana per la filiera delle fibre naturali, ideato nel 2009 da Bic La Fucina e Agrimercati (un’azienda della Camera di Commercio di Milano) per sperimentare una filiera corta della fibra naturale mettendo in rete le imprese artigiane, i consumatori e gli allevatori. Il progetto -finanziato da un bando di Unioncamere Lombardia e Regione Lombardia, e ormai giunto alla fine- è stato realizzato con il supporto della cooperativa Scret, che ha curato la relazione con la rete dei consumatori critici, e della cooperativa Rea, che da anni lavora con l’Associazione pecora brianzola per il recupero di questa antica razza. Durante il progetto, infatti, si è lavorata la lana di questa pecora autoctona che 15 anni fa rischiava l’estinzione, come racconta Claudio Febelli della cooperativa Rea: “Allora ne erano rimasti solo 20 capi, ma oggi ce ne sono circa un migliaio. Ciò è il frutto del lavoro dell’Associazione pecora brianzola, con la Comunità montana del Lario Orientale, a partire da un progetto del 2003 per il reinserimento della pecora nel Parco delle Groane”.

Storicamente la pecora brianzola è sempre stata usata per la carne, ma la sua lana di buona qualità era una risorsa preziosa per le famiglie contadine della Brianza. “Il progetto Raffin nasce proprio da questa considerazione: oggi la lana non è più considerata una risorsa, ma un rifiuto speciale da smaltire a caro prezzo”, spiegano da Bic La Fucina. La lana, infatti, se non è usata va smaltita come rifiuto speciale: “È un materiale che non brucia, né marcisce: dev’essere usato. E la pecora va tosata almeno una volta l’anno perché non soffra”, aggiunge Claudio. Se un tempo la filiera della lana era molto importante per questi territori, oggi è stata abbandonata: il problema principale, spiega Claudio, sono i quantitativi: “Stiamo parlando di quantità minime di lana ed è difficile trovare soggetti disposti a lavorarla. Per le grandi ditte, abituate a importare la lana dall’estero, i nostri sono quantitativi ‘da campionario’; con una ricaduta sui costi che di conseguenza sono molto alti”. Inoltre, in molti casi ai grandi produttori non importa che si tratti di una lana monorazza da capi autoctoni, una rarità in Italia: “La lana è considerata una mera categoria merceologica. Quel che conta sono gli standard tecnici da rispettare, non importa la provenienza”.

Una pecora produce circa 1 chilo e mezzo di lana all’anno, ma solo il 70% viene recuperato per la lavorazione; agli allevatori la lana viene pagata tra i 20 e i 50 centesimi al chilo, un prezzo insignificante, che aumenta di oltre 60 volte durante la lavorazione: basti pensare che un panno di 1 metro per 1,5 -ottenuto da circa 800 grammi di lana trattata, pari a 1 chilo e mezzo di lana sudicia, quella appena tosata- arriva a costare 50 euro al metro.

I costi aumentano ancora di più nel caso del prodotto confezionato: per questo l’Associazione pecora brianzola sta lavorando “alla definizione di un protocollo per la fornitura della lana, che garantisca una migliore qualità a fronte di una retribuzione dignitosa agli allevatori”, come spiega Claudio.

Oggi sono 55 gli allevamenti di pecore brianzole: ma solo una decina di queste sono aziende agricole, negli altri casi si tratta di “appassionati, persone per le quali l’allevamento è un’attività complementare, o pensionati”; le grandi aziende con 150-300 capi sono solo tre, gli altri sono piccoli greggi, che contano fino a 30 capi.

La lana raccolta viene lavorata dalle 14 imprese artigiane partecipanti al progetto, quasi tutti laboratori di piccole dimensioni, come raccontano da Bic La Fucina: “La partecipazione è aperta e ci piacerebbe iniziare nuove collaborazioni, facendo lavorare insieme persone di diverse provenienze e allargando il progetto: ci siamo accorti che i risvolti sociali potrebbero essere molto interessanti. Alcune tessitrici che fanno questo lavoro per passione, ad esempio, potrebbero costituirsi in impresa e lavorare in collaborazione con i designer per creare nuovi modelli”.

I prodotti sono stati pensati per incontrare i bisogni dei gruppi d’acquisto solidali delle provincie di Varese, Como, Lecco e Monza, consultati durante la scorsa estate attraverso un questionario appositamente ideato: “Abbiamo usato questo strumento per fare un’analisi dei bisogni e delle preferenze sui prodotti preparati con la lana -racconta Laura Fontana di Scret-. A partire dai 170 questionari raccolti abbiamo iniziato a lavorare con gli artigiani per pensare dei prodotti che incontrassero le aspettative dei consumatori. Non sono emerse particolari preferenze: la richiesta maggiore è stata per i maglioni, ma c’è molto interesse anche per altre tipologie, dagli accessori agli oggetti per la casa”. Questo primo contatto con i consumatori è tornato utile anche in una fase successiva, quando sono stati presentati i prototipi, come alla fiera del consumo critico “l’Isola che c’è” di Como, dove “è stato interessante avere un riscontro diretto sulla qualità dei prodotti realizzati”, dice Laura.

Grazie al progetto Raffin è nata anche una nuova relazione tra la cooperativa Rea, i consumatori organizzati nei Gas e le piccole imprese artigiane locali. La cooperativa da un paio d’anni ha ideato il marchio “Vivilana”, che contraddistingue i prodotti fatti con la lana della pecora brianzola, dai tappeti in corda di lana ai cappelli in feltro, dalle giacche agli abiti tradizionali.

“La nostra produzione è iniziata nel 2004, con 500 pecore brianzole -racconta Claudio-, in collaborazione con una grande manifattura tessile di Pollone (Bi), la Piacenza Cashmere. Da allora ci rivolgiamo a due principali filiere di lavorazione: oltre ai fratelli Piacenza, nel biellese c’è il consorzio ‘The wool company’ che produce filati e tessuti. In Val Seriana, nella bergamasca, c’è un altro gruppo di ditte che si occupano del lavaggio, come la manifattura Ariete di Gandino, della filatura -la Martinelli Ginetto di Casnigo- e delle confezioni, presso alcuni cappellifici o altre aziende come Taglio Avion, a Sovere, che produce capi tradizionali”.

Quest’ultima è un’azienda più piccola, a conduzione familiare, e partecipa anche al progetto Raffin, che ha contribuito a dar visibilità a questa e ad altre piccole realtà artigiane che tessono ancora a mano e realizzano prodotti particolari, come le borse e le calze, e tradizionali, come i tabarri. Capi di qualità la cui etichetta spiega chiaramente l’origine della lana: i greggi di pecore possono finire di vagare per tornare, finalmente, a casa.

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