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Puntuali come una carestia – Ae 34

Numero 34, dicembre 2002L'Etiopia finisce in prima pagina. Un'emergenza che si accanisce su tutto il Corno d'Africa e poi giù, verso Sud, fino in Mozambico. Ma, per agire, bisogna riconoscere che le cause sono strutturaliLa stagione delle piogge è finita….

Tratto da Altreconomia 34 — Dicembre 2002

Numero 34, dicembre 2002

L'Etiopia finisce in prima pagina. Un'emergenza che si accanisce su tutto il Corno d'Africa e poi giù, verso Sud, fino in Mozambico.
Ma, per agire, bisogna riconoscere che le cause sono strutturali

La stagione delle piogge è finita. Anzi, non è nemmeno iniziata. In Etiopia da giugno a settembre è piovuto pochissimo, meno ancora degli ultimi anni. Fino alla prossima estate non cadrà più una goccia d'acqua e le temperature iniziano a salire. Da mesi la Commissione federale etiopica per le emergenze ripete che la situazione volge al peggio. Il grido del premier Zenawi, lo scorso 11 novembre, ha squarciato il velo di incomunicabilità verso l'occidente: “Abbiamo bisogno di 1,3 milioni di tonnellate di aiuti alimentari. Subito. Per far fronte alle necessità di 6 milioni di persone che rischiano di morire di fame e sete”.

Ci risiamo. Puntuale, ogni due anni, la carestia si abbatte sul Paese, aggravando lo stato di malnutrizione e insicurezza alimentare. Un destino che si accanisce su tutto il Corno d'Africa e poi giù, verso Sud, fino in Mozambico. Colpa del cielo, ma anche della guerra, di conflitti etnici, di politiche inadeguate. L'Associazione economica etiope (Eaa), un'organizzazione non profit di ricerca economica, punta il dito contro tecnologie arretrate, strade e condotti idrici carenti, tensioni etniche tra le varie amministrazioni regionali. L'Etiopia è un Paese che basa la sua economia sull'agricoltura ma vive annualmente il dramma di milioni di persone che hanno bisogno di assistenza alimentare. Provvista principalmente dagli Stati Uniti e dal World Food Program.

Addis Abeba, come quasi tutte le capitali africane, non riesce fare a meno della dipendenza da aiuti internazionali, da flussi di finanziamento dall'estero per tentare di divincolarsi dalla morsa della povertà. Ottanta ong straniere hanno aperto uffici ad Addis Abeba, ognuna cerca di rattoppare una falla, ma contribuendo a cucire un patchwork un po' contradditorio.

La nuova emergenza riporta le lancette dei progetti indietro nel tempo. Con la carestia, i problemi endemici divengono più pressanti: nella sola Addis Abeba, i figli di una generazione mancante, falcidiata dall'Aids, sono oltre 100 mila. La città li rigurgita ad ogni angolo e piazza.

Un Paese tormentato. Terra antica, mistica. La bellezza del paesaggio, delle chiese, delle donne sconvolge anche i viaggiatori più errabondi. Grembo dell'antico regno axumita, impregnato di cultura yemenita, nel IV secolo il cristianesimo si è diffuso qui prima che in molti Stati europei.

Patria prescelta di 80 etnie. Gente fiera, orgogliosa, condannata a sprofondare nel baratro umiliante della guerra, della fame, della povertà.

È dal 1992 che il Paese mette in pratica quelle riforme economiche che sono richieste dall'occidente. Per questo motivo il governo di Addis Abeba è stato lodato come “primo della classe” dalle istituzioni finanziarie internazionali. Tranne poi figurare in quart'ultima posizione nel rapporto Undp sullo sviluppo umano. Dieci anni di terapia d'urto a base di cure delle istituzioni finanziarie internazionali e milioni di persone corrono ancora il rischio di morire di fame e di sete.

“La siccità, soprattutto quella ricorrente, non la si combatte con manovre macroeconomiche. Sarebbe stato necessario promuovere aggressivamente le infrastrutture per l'acqua e per i trasporti e dare impulso all'agricoltura: pozzi, sistemi di raccolta dell'acqua piovana, canali.

Microprogetti da realizzare in modo partecipativo con i contadini che conoscono ogni zolla e fenditura del terreno.

Per l'Eaa invece il problema sta nella mancata riforma agraria. La terra, proprietà dello Stato, dall'epoca feudale, è parcellizzata in minuscoli appezzamenti. Nel Tigray, regione al confine con l'Eritrea, tre contadini su quattro non hanno abbastanza terra nemmeno per sfamare la propria famiglia. I campi, grandi in media un ettaro, sono coltivati come in tempi antichi con il giogo e l'aratro.

“La strada da percorrere è verso un giusto equilibrio tra stato, aziende private e cooperative per massimizzare ed intensificare i raccolti”, si legge nel documento preparato dall'Eaa. Problemi atavici ai quali, quest'anno si è aggiunto il rovinoso crollo del prezzo del caffè sulle piazze internazionali. Un affondo mortale per un Paese, nel quale i chicchi verdi rappresentano il 54% sul totale delle esportazioni. Nelle casse dello Stato è entrata meno valuta pesante, necessaria per importare beni alimentari e fare fronte alla siccità.

I contadini sono in ginocchio: con il loro caffè, una delle qualità più pregiate del mondo, non sono riusciti a guadagnare abbastanza neppure per coprire i costi e ripagare i debiti per l'acquisto di sementi e attrezzi. Eppure era stato loro garantito che coltivando caffè invece di tef (il cereale per preparare l'injera, specie di pane spugnoso dal gusto leggermente acidulo, piatto principale della cucina etiopica) avrebbero potuto garantire una vita dignitosa alle proprie famiglie.

L'esodo verso Addis Abeba si è intensificato, nonostante il divieto della municipalità di costruire nuove baracche.

La città, infatti, è in fase di restyling, da mesi le bandiere sventolano davanti al nuovo aeroporto internazionale, simbolo degli sforzi del governo di rilanciare l'immagine di un Paese. Un'architettura futuristica in acciaio e cristallo, progettata per accogliere uomini d'affari, esperti degli organismi internazionali e sceicchi che, a due anni dalla fine della guerra con l'Eritrea, tornano a sciamare sul “nuovo fiore” (Addis Abeba, in amarico).

Per restituirle l'aura di capitale del Corno d'Africa, di cui godeva negli anni '30 ai tempi dell'imperatore Haille Selassie e conferirle lo status di metropoli internazionale, sede della Commissione africana delle Nazioni Unite, Addis Abeba è un cantiere a cielo aperto. Giornalmente le baracche abusive vengono demolite (quelle degli ultimi arrivati in fuga dalle campagne affamate) e i campi profughi smantellati, per creare nuovi spazi edificabili. Sulle impalcature di legno, intrecciate con rami di eucalipto, gli operai rivestono alberghi, banche e università private con i marmi provenienti dalla Cina.

Le gru si innalzano tra le casupole di fango e lamiere: qui non ci sono quartieri ricchi e quartieri poveri, nababbi e poveracci sono vicini di casa, le mercedes e i piedi nudi percorrono le stesse strade sconnesse.

Anche in questo Paese in via di sviluppo, la forbice si sta allargando spaventosamente: la carestia non minaccia i ricchi che vivono nello Sheraton più bello d'Africa, ma i poveri che si indebitano per acquistare un biglietto della lotteria e vincere una green card per gli States.!!pagebreak!!

La polemica di Stiglitz nasce qui
La polemica di Joseph Stiglitz, ex presidente della Banca mondiale, verso il Fondo monetario internazionale nasce in Etiopia, quando nel 1997, durante una visita ufficiale, scopre che il programma di prestiti era stato sospeso. Motivo? I funzionari del Fondo non ritenevano soddisfacente l'equilibrio di bilancio e contestavano l'uso degli aiuti internazionali per costruire scuole e ospedali. Una posizione non condivisa da Stiglitz, secondo il quale gli aiuti sono più affidabili del gettito fiscale. Tradotto: se un Paese povero non riceve i fondi per costruire una scuola in più, lo Stato farà a meno di costruirla. Altro aspetto che aveva lasciato Stiglitz sgomento era la controversia tra Fmi e governo etiope sulla liberalizzazione dei mercati finanziari del Paese. Il Fondo aveva chiesto all'Etiopia di liberalizzare il proprio mercato finanziario per dar modo alle forze di mercato di determinare liberamente i tassi d'interesse: un'azione penalizzante per i contadini poveri bisognosi di crediti a tassi ragionevoli per acquistare sementi e fertilizzanti.

L'acqua? Non si può toccare
L'Etiopia è a secco, ma l'acqua non manca. Il più grande affluente del Nilo, il Nilo Blu, sgorga del lago Tana, nel cuore del Paese.
Il suo corso però non può essere controllato per via di un trattato del 1929, che dà a Sudan e Egitto il controllo assoluto sull'uso delle acque del Nilo. Quando nel 1978 l'Etiopia manifestò l'intenzione di costruire delle dighe, il progetto fu bloccato per opposizione dell'Egitto. Il Cairo non è disposto a rinunciare ai suoi “diritti storici”, nonostante l'85% delle acque del Nilo Bianco, che attraversano l'Egitto, provengano dal Nilo Blu. Intanto sono partiti i lavori della mega diga finanziata dalla Banca Mondiale sul fiume Tekeze più Nord, al confine con l'Eritrea. Avrà il duplice compito di produrre energia e servire da bacino d'acqua per irrigare le aride terre del Tigray. Un vanto per il governo (alta 185 metri, fornirà 300 megawatt di energia) indifferente al risentimeno dei contadini che sono stati fatti sgombrare dai villaggi. L'appalto per la costruzione se l'è aggiudicato la stessa società che sta costruendo la famigerata diga delle “Tre Gole” in Cina. Si tratta dell'ennesimo incarico che aziende cinesi stanno realizzando in Etiopia e il loro più grande progetto su terra africana

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