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Cultura e scienza / Opinioni

Il pungiglione di Andrea Camilleri

Andrea Camilleri a Barcellona nel febbraio 2014, dove ha ricevuto il premio “Pepe Carvalho” dedicato al genere poliziesco © Xavier Trias via Flickr

Il metro con cui si misura il successo dello scrittore va cercato nella sua capacità di mettere in crisi chi lo ascolta. La rubrica di Tomaso Montanari

Tratto da Altreconomia 218 — Settembre 2019

Soprattutto nei Paesi dominati dal conformismo, come l’Italia, la morte degli uomini illustri scatena vere e proprie tempeste di ipocrisia. Il caso di Andrea Camilleri è singolare: certamente l’universale cordoglio era autentico, perché Montalbano (e soprattutto quelle televisivo) ha saputo abitare come pochi altri personaggi il nostro immaginario collettivo. Ma cosa ha capito l’Italia del radicale, rivoluzionario, anticonformista Camilleri?

Il metro con cui misurare il successo di Camilleri va cercato nella capacità di mettere in crisi la coscienza di chi lo ascolta, come spiega benissimo questo passo, scritto pensando a Martin Buber, del magnifico saggio di Michael Walzer sull’intellettuale militante: “Il successo così come viene misurato dal mondo non è il metro adatto a valutare la critica sociale. Il critico si misura dalle tracce che recano coloro che lo ascoltano e leggono le sue opere, dai conflitti che egli li costringe a sperimentare, non solo nel presente, ma anche nel futuro, e dai ricordi che quei conflitti lasciano. Egli non riscuote successo convincendo la gente -poiché a volte ciò è semplicemente impossibile- quanto mantenendo viva la discussione critica”. Buber si sentì abbastanza spesso come un profeta nel deserto, ma la reazione giusta a questa sensazione, egli scrisse, non “è ritirarsi nel ruolo dello spettatore silenzioso, come fece Platone”. Il profeta deve continuare a parlare “deve trasmettere il suo messaggio. Verrà frainteso, mal interpretato, usato in maniera impropria, o potrà persino rafforzare e indurire la gente nella sua mancanza di fede. Ma il suo pungiglione brucerà dentro di loro per tutto il tempo”.

Ecco, il pungiglione che Camilleri lascia nelle menti e nei cuori di chi lo legge e lo ascolta, è di quelli che non smettono di bruciare. Si pensi per esempio alla, appunto bruciante, attualità delle parole -cristalline, ma pesantissime- che egli ha pronunciato nell’ottobre 2017, e che in queste settimane non cessano di tornarmi in mente: “Noi italiani siamo razzisti, perché non lo vogliamo dire? -dice lo scrittore-. Negli anni Sessanta ho visto a Torino cartelli sui quali era scritto ‘Non si affitta a meridionali’. Ora accade con gli extracomunitari. Altro che italiani brava gente”.

In quella occasione Camilleri si riferiva all’atto parlamentare (o meglio al non-atto) che ha anche formalmente legittimato l’egemonia del pensiero che oggi il “ministro della paura” Matteo Salvini traduce in retorica martellante e in atti eversivi della Costituzione: la mancata approvazione dello “Ius soli”. In quella funesta e degradante alleanza di fatto tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle contro i diritti dei nuovi italiani era possibile leggere la comune incapacità di andare incontro al futuro, oltre che di costruire giustizia ed eguaglianza. Da qui la lucidissima, duplice scomunica che Camilleri aveva fulminato già a giugno, parlando a un gruppo di studenti del Liceo Empedocle di Agrigento: “Non credete ai Renzi o ai Cinque Stelle: sono già cadaveri, già fuori dalla vostra storia e dal vostro avvenire. Teneteli lontani dal vostro avvenire. Voglio darvi un consiglio: rifate la politica, che è diventata quasi sinonimo di disonestà. Ricordatevi Pericle, il discorso che fa sulla democrazia. Applicatelo: voi giovani siete in condizioni di farlo”. Ecco la vera eredità di Camilleri: che forse non cambierà l’Italia, ma continuerà a bruciarci dentro.

Tomaso Montanari è professore ordinario presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra.

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