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Province, ecco il taglio

La Camera dei Deputati ha dato il via libera al provvedimento scritto e fortemente voluto dall’attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Graziano Delrio. Le Province costano l’1,3% della spesa pubblica. Nel cancellarle, il governo non tiene conto di un aggravio di costi per 2 miliardi —

Tratto da Altreconomia 155 — Dicembre 2013

Cancellare le Province ordinarie è diventato quasi un mantra politico e a Roma si fa sul serio, a costo di violare la Costituzione. Ora ci prova il governo guidato da Enrico Letta, con il ddl “Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di Comuni”, che mentre scriviamo è discusso in commissione Affari costituzionali della Camera (procedura d’urgenza ma rischio di un “fatale” rinvio, che porterebbe a nuove elezioni provinciali nella primavera del 2014). Gli abolizionisti vogliono passare a Comuni e Regioni competenze (e patrimoni) provinciali, per “razionalizzare” le funzioni amministrative locali e ridurre il personale politico: promettono per le prime due miliardi di euro di risparmi l’anno, per il secondo 110 milioni. Ma da tempo è guerra di cifre: c’è chi sostiene che in realtà una simile riforma moltiplicherebbe i costi, per il venir meno delle economie di scala nei servizi e perché il personale passerebbe a enti che applicano contratti più onerosi rispetto alle Province. Inoltre, uno su cinque dei 57 mila dipendenti probabilmente finirebbe ricollocato anche in termini di mansioni e luogo di lavoro, con la necessità di cambiare città.
Il mese scorso la Cgia di Mestre ha diffuso una stima, secondo la quale la soppressione delle 107 Province a statuto ordinario farebbe risparmiare solo il 3,9% (510 milioni di euro) del loro costo annuo complessivo di 13 miliardi di euro. Gran parte della spesa, infatti, va in servizi da preservare, quali la gestione di 125mila chilometri di strade (circa l’80% della rete nazionale), 5mila edifici scolastici (medie inferiori e superiori), 2.700 palestre, 600 centri per l’impiego, cui si aggiungono trasporto locale, difesa del suolo, ciclo dei rifiuti, pianificazione territoriale di area vasta, tutela ambientale. Quanto ai costi meramente politici, l’agguerrita Unione delle Province italiane (Upi) contesta i 110 milioni ipotizzati dal governo: era così prima della cura dimagrante del 2011, che ha ridotto anche il numero degli eletti. Oggi la cifra corretta si ferma a 32 milioni.
Il paladino della linea dura anti Province è il ministro renziano degli Affari regionali Graziano Delrio, già sindaco di Reggio Emilia e presidente dell’Anci (l’Associazione nazionale dei Comuni italiani). Neanche a dirlo, per lui lo snodo dell’autonomia territoriale sono i municipi, cui passerebbero per esempio tutte le competenze sulla scuola, mentre gli enti intermedi sono ritenuti superflui. Le Province atttuali sarebbero ridotte al rango di agenzie funzionali al servizio dei Comuni (per continuare a occuparsi della rete stradale) e, sul versante politico, a semplici assemblee di sindaci, per ragionare “a costo zero” di questioni marginali. Nei principali centri urbani sono previste invece dieci Città metropolitane che dovrebbero sostituirsi alle Province di Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Torino, Reggio Calabria, Roma e Venezia: ovviamente il ddl ne affida le chiavi agli attuali sindaci, senza prevedere elezioni dirette.
La soppressione del diritto di voto per i vertici delle Province è uno dei temi roventi della riforma, il cui iter peraltro si sta facendo via via più accidentato, con il diffondersi di analisi critiche che accusano il governo di superficialità e avventurismo istituzionale.
A novembre il disegno è stato bocciato anche da parlamentari di maggioranza, e fra i critici ci sono numerosi giuristi, come Piero Ciarlo (uno dei 35 saggi scelti dal governo per le riforme), che non esita a definire la legge “un incomprensibile pasticcio anticostituzionale, che anche se approvato probabilmente sarebbe cancellato dalla Consulta”.
Il nodo dell’elettività è lo specchio di un feroce decisionismo politico contro le Province, che spinge molti detrattori a parlare di restaurazione centralista e di un profilo autoritario, incurante della volontà dei territori coinvolti e dunque del principio di sussidiarietà. Lo stesso presidente dell’Upi e della Provincia di Torino, Antonio Saitta (Pd), contrapponendosi a Piero Fassino -suo compagno di partito e sindaco del capoluogo piemontese-, denuncia in un’intervista con Ae un “disegno incostituzionale che abbassa per legge il livello di democrazia nel Paese”.
Il sindaco metropolitano non eletto, come prevede Delrio, “di fatto è un podestà”, accusa Saitta in un appello sostenuto anche da 250 primi cittadini piemontesi. Si propone, piuttosto, di riprendere il cammino della riforma elaborata dal governo Monti e franata con la fine anticipata della legislatura. All’epoca erano pronti una serie di accorpamenti delle Province piccole, salvo le due interamente alpine di Belluno e Sondrio. La prospettiva individuata l’anno scorso, peraltro secondo criteri opinabili (almeno 350mila abitanti e 2.500 chilometri di estensione), avrebbe innescato un’inversione di tendenza toccando forse il casus belli di questa vicenda: la proliferazione che ha visto il numero delle province salire dalle 94 del 1970 alle 107 attuali. Con il ddl Delrio, invece, anziché ripensare gli enti intermedi cui si potrebbero trasferire maggiori funzioni in una logica di economie di scala (c’è anche chi suggerisce di accorparvi Camere di commercio e prefetture), si preparano 700 unioni comunali, “con una frammentazione gestionale -dice l’Upi- traducibile in perdite di efficienza e maggiori spese di 645 milioni nell’edilizia scolastica e in quasi un miliardo e mezzo negli altri settori”.
A suffragare questo j’accuse è arrivato, il mese scorso, uno studio del Censis (disponibile sul sito www.censis.it), che difende su tutta la linea la dimensione territoriale provinciale e suggerisce di rafforzarla per rispondere alle esigenze dei territori. L’indagine conferma i fallimenti anche economici cui nel Paese dei campanili sarebbe destinato un sistema iper parcellizzato: 1.484 Comuni dovrebbero gestire mediamente cinque scuole ciascuno in più, coordinandosi con quelli vicini per ripartire gli oneri. Anche dall’analisi dei distretti produttivi e degli ambiti occupazionali emerge una coerenza con gli attuali confini provinciali, nel 75% dei casi per esempio vi è connessione tra residenza e attività lavorativa. Insomma, vien da pensare che non sia un caso se questi enti nascono in gran parte già con l’unità d’Italia: “Le attuali circoscrizioni provinciali contengono all’interno dei propri perimetri tutti i principali processi socio-economici di area vasta. Gli enti che le governano sono dunque il livello istituzionale più adeguato per questo scopo”, osserva il presidente del Censis, Giuseppe De Rita. Come a dire che fra qualche anno un nuovo ministro potrebbe spiegarci che bisogna fare retromarcia e ripristinare urgentemente le Province per riordinare il caos gestionale atomizzato nella dimensione municipale.
Sul ruolo strategico e democratico di quest’ente intermedio il noto urbanista Edoardo Salzano, sul suo blog Eddyburg (www.eddyburg.it), ha ricordato che lo strumento di pianificazione territoriale di area vasta colma un vuoto e storicamente rappresenta il tentativo di dare risposta all’evoluzione reale vissuta dal Paese nel secondo Novecento. Lo studioso -che è stato preside della Facoltà di Pianificazione del territorio dell’IUAV di Venezia- indica fra le materie in cui è essenziale il ruolo delle Province (elette dai cittadini) il contenimento del consumo di suolo, la politica della casa, la promozione dei trasporti collettivi, la tutela del paesaggio e dell’ambiente.
Lo stesso Saitta menziona casi in cui è stata proprio la Provincia a tutelare i territori ostacolando progetti di cementificazione speculativa assecondati dalle Regioni o dai Comuni. E proprio a questi due enti il presidente dell’Upi attribuisce la volontà di sbarazzarsi del brutto anatroccolo provinciale anche per appropriarsi del suo ingente patrimonio (immobiliare e non) da utilizzare magari per aggiustare bilanci in profondo rosso. Un altro capitolo da approfondire sono i servizi locali: con il venir meno delle Province potrebbero più facilmente aprirsi spiragli per nuove forme di privatizzazione.
Quanto alla spesa pubblica, Saitta spiega un’ovvietà: che i veri snodi in cui intervenire sono lo Stato e le Regioni: “Negli ultimi dodici anni -osserva- le uscite dell’amministrazione centrale sono cresciute di cento miliardi, quelle regionali di quaranta. Mentre Province e Comuni subivano tagli anche sui servizi essenziali, le Regioni (responsabili del 20% della spesa pubblica nazionale) creavano una miriade di enti e agenzie strumentali: oggi sono circa 7.800 e costano 15 miliardi di euro di personale e due miliardi e mezzo per i cda. Altro che la propaganda sulle Province, che rappresentano appena l’1,3% del totale delle uscite”.
Contro la riforma Delrio si sono mobilitati anche 44 costituzionalisti, fra i quali Valerio Onida, che in un appello diffuso a fine ottobre (lo trovate su www.upinet.it) ne denunciano i contenuti “confusi” e il metodo scorretto: il governo Letta vuole modificare la Costituzione con legge ordinaria, malgrado nel luglio scorso la Consulta abbia già bocciato l’analogo tentativo dell’esecutivo guidato da Mario Monti, che cancellava per decreto l’elezione diretta dei consigli provinciali. Dopo quella sentenza si dovevano mandare i cittadini alle urne, invece il governo ha prorogato i commissariamenti e reiterato, nel ddl Delrio, la sospensione del voto in attesa di sopprimere l’ente trasformandolo in dependance dei Comuni.
Nelle ultime settimane, vista la crescente ostilità, il ministro ha ripetuto con toni ultimativi che se la legge non sarà approvata entro gennaio si “rischia” il ritorno al voto popolare per rinnovare 72 consigli provinciali (52 per scadenza naturale e 20 commissariati). Interpellato da chi scrive per avere chiarimenti sui profili di incostituzionalità, Delrio tre mesi fa annunciava una imminente risposta (“dalla mia segreteria”) che non è mai arrivata.
Intanto che tenere in vita le Province sia deprecabile lo ha ribadito anche Matteo Renzi, il 27 ottobre, parlando alla Leopolda, seduto accanto all’amico Delrio. In quell’occasione il sindaco toscano, interpellato dai media sull’appello dei costituzionalisti, ha tagliato corto: “Non so che farmene”. Nel frattempo dovrà però meditare su che cosa fare della futura città metropolitana, dato che dal 2004 al 2009 è stato presidente della Provincia di Firenze e ora la legge Delrio, se approvata, gli riconsegnerà anche quella poltrona. —
 

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