Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Ambiente / Attualità

Il processo per reati ambientali della Valle del Sacco arriva al suo primo epilogo

A undici anni dall’inizio del procedimento è stato individuato in primo grado un solo colpevole per gli sversamenti di un sottoprodotto del pesticida lindano nelle acque del fiume Sacco, tra Roma e Frosinone: l’ex direttore dello stabilimento industriale Caffaro di Colleferro. Anche la popolazione ha subito danni alla salute

© Retuvasa

Dopo undici anni è arrivato a un primo epilogo il processo per reati ambientali della Valle del Sacco, area compresa tra la provincia di Frosinone e Roma, oggi Sito di interesse nazionale (Sin). Il 16 luglio scorso il giudice Luigi Tirone ha letto la sentenza di primo grado nel Tribunale di Velletri: Carlo Gentile, già direttore dello stabilimento industriale Caffaro Srl di Colleferro dal 2001 al 2005, è stato condannato a due anni di reclusione per il reato di disastro ambientale innominato (pena sospesa), al risarcimento dei danni alle parti civili e al pagamento delle spese processuali. Il processo ha riguardato lo sversamento del betaesaclorocicloesano (β-HCH, un sottoprodotto del pesticida lindano che, usato in agricoltura, è stato definitivamente vietato in Italia nel 2001. Per cinquant’anni, il lindano è stato prodotto negli stabilimenti della Caffaro, ndr) nel Fosso Cupo, piccolo affluente a Nord di Colleferro. Da qui il β-HCH è passato nel fiume Sacco causando la contaminazione dei terreni e, attraverso la catena alimentare, delle persone di cui ha danneggiato la salute. In particolare, secondo l’accusa, la Caffaro non avrebbe predisposto le adeguate misure di sicurezza e gli adeguati sistemi di controllo volti a evitare che i residui dei processi di lavorazione chimica effettuati nello stabilimento, attraverso i collettori interrati della struttura, contaminassero le acque superficiali. “La sentenza ci lascia soddisfatti: è importante che sia stato individuato un responsabile”, racconta ad Altreconomia Alberto Valleriani, presidente della Rete per la tutela della Valle del Sacco (Retuvasa), associazione nata nel 2008 da un gruppo di cittadini, con alle spalle esperienze di associazionismo, per studiare le conseguenze dell’inquinamento industriale sul territorio e capire come organizzarsi. Retuvasa e Valleriani si sono costituiti parte civile.

Sono stati invece assolti per non avere commesso il fatto Giovanni Paravani e Renzo Crosiarol, rappresentante legale e direttore tecnico del Consorzio Servizi Colleferro (Csc), l’azienda che gestiva lo scarico finale del collettore generale delle acque industriali da cui, secondo l’accusa, sarebbe derivata la contaminazione. È stato assolto perché il fatto non sussiste Giuseppe Zulli, l’ex direttore della Centrale del Latte di Roma, che secondo la Procura di Roma sarebbe stato a conoscenza della presenza del lindano nelle mucche degli allevamenti della zona compresa tra Colleferro e Anagni prima della dichiarazione dello stato di emergenza socio-ambientale nel 2005.

L’attenzione sulle campagne a Sud-Est della Capitale, centro dello sviluppo industriale della Regione dagli anni Venti del Novecento, inizia proprio nel 2005 quando 25 mucche sono state ritrovate morte vicino alle rive di un ruscello ad Anagni, avvelenate dal cianuro scaricato abusivamente nel rio Santa Maria, affluente del Sacco, vicino Sgurgola. Un caso isolato ma con l’effetto di concentrare l’attenzione sull’inquinamento decennale del fiume che attraversa un paesaggio ricoperto da discariche, siti contaminati e capannoni industriali. Pochi mesi prima, un controllo aveva rilevato che il latte prodotto in una fattoria vicino Gavignano conteneva residui tossici, tra cui il betaesaclorocicloesano, trovato anche nei residui di formaggio e latte in altre 36 aziende agricole della zona. I controlli a campione e le indagini successive, avviate dalla Regione Lazio, hanno portato fino al Fosso Cupo dove è stato trovato il betaesaclorocicloesano. Sversato illegalmente, aveva contaminato il fiume, le falde idriche superficiali e i pozzi usati dai cittadini, i terreni. Insolubile e di difficile espulsione, la sostanza si era accumulata nella frutta, nella verdura e nel bestiame. Poi negli esseri umani. “A maggio dello stesso anno il governo ha dichiarato lo stato di emergenza socio-ambientale, e ha istituto il Sito di interesse nazionale, il terzo più esteso in Italia”, ripercorre Valleriani. A marzo 2019 il ministro dell’Ambiente Sergio Costa e il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti hanno firmato un accordo per la bonifica del Sin con un finanziamento di 53,6 milioni di euro. A ottobre dello stesso anno sono iniziate le prime bonifiche nella zona di Colleferro denominata Arpa 2 che risaneranno un ettaro e mezzo di territorio inquinato.

Insieme a Retuvasa, Valleriani ha seguito tutte le fasi del processo per inquinamento nella Valle del Sacco: un lungo iter giuridico avviato nel 2009 e scampato alla prescrizione grazie alla Corte Costituzionale. “Sono stati anni di stop burocratici, rinvii e lungaggini per la fissazione delle udienze”, commenta. “Alla lettura della sentenza di primo grado, ci siamo sentiti quasi sollevati”. Il processo, infatti, ha più volte corso il rischio di fermarsi. Durante la prima udienza del dibattimento nel 2012, il Tribunale di Velletri aveva restituito i fascicoli alla Procura dopo avere constatato alcuni errori di notifica alla chiusura dell’inchiesta: così il processo era ripartito da zero. A novembre 2015 la difesa degli imputati aveva sollevato la questione dell’illegittimità costituzionale sulla modifica dei termini di prescrizione in caso di disastro colposo, prevista dalla riforma del 2005 della “legge Cirielli” (la riforma ha modificato i termini della prescrizione, aumentandoli e equiparando la prescrizione per disastro colposo e doloso a 15 anni, ndr), avanzando la richiesta di prescrizione, non accolta nel 2017 dalla Corte Costituzionale. “La sentenza di primo grado è un risultato importante ma i lunghi tempi del processo, interrotto a più riprese, danno da riflettere”, spiega ad Altreconomia Vittorina Teofilatto, avvocata della parte civile. “Le leggi a tutela dell’ambiente ci sono, il problema è alla base: sono a volte le stesse amministrazioni che non le applicano e i controlli sono deficitari. È necessario intervenire con efficacia da subito, prima della magistratura che ha tempi lunghi di per sé”, prosegue. “Soprattutto quando si tratta di casi, come la Valle del Sacco, che riguardano interi territori e la salute di chi li abita”.

Uno dei problemi principali, infatti, sono state le conseguenze del betaesaclorocicloesano sulla salute degli abitanti della valle. Il primo monitoraggio epidemiologico sulla popolazione è  stato realizzato nel 2006, quando la Regione Lazio ha avviato il progetto “Salute della popolazione nell’area della Valle del Sacco” coordinato dal Dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario Regionale. L’obiettivo era valutare lo stato della salute della popolazione in rapporto alle esposizioni ambientali e le indagini hanno evidenziato un aumento della concentrazione di β-HCH all’aumentare dell’età per i residenti entro un chilometro dal fiume Sacco.

Nel 2009 la Regione ha avviato il programma “Sorveglianza sanitaria ed epidemiologica della popolazione residente in prossimità del fiume Sacco” nell’area identificata a rischio. In due rapporti tecnici successivi al 2012, il Dep ha sottolineato il bioaccumulo della sostanza, ovvero livelli di persistenza che rimanevano alti nel tempo, per la popolazione presa in esame e l’aumento dei casi di tumore alla pleura, ai polmoni, allo stomaco, oltre a un incremento di patologie legate alla tiroide e di casi di diabete. Ora un gruppo di ricercatori dell’Università di Roma “La Sapienza”, coordinati dalla professoressa Margherita Eufemi del Dipartimento di Scienze Biochimiche del polo universitario, sta studiando gli effetti sulle cellule provocati dal betaesaclorocicloesano. Secondo quanto dimostrato dai primi studi, la sostanza tossica attiva meccanismi molecolari che portano alla formazione di patologie tumorali. Inoltre la ricerca indica che il betaesaclorocicloesano velocizza i meccanismi cellulari che rendono il tumore più aggressivo e resistente ai farmaci biologici e meno invasivi rispetto, per esempio, alla chemioterapia.

Dopo la lettura delle sentenza di primo grado, Retuvasa valuterà di procedere in sede civile per il risarcimento del danno biologico “anche se pensiamo che non sia quantificabile in termini economici e poca cosa rispetto al disagio provocato, in particolare rispetto al timore di contrarre malattie legate alla presenza nel sangue del betaesaclorocicloesano”, commenta Alberto Valleriani. “Adesso per il territorio servono politiche adatte a una riconversione ecologica che non dimentichi quanto accaduto”.

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.