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ProActiva, la vera notizia è che l’Italia coordina i libici

Tra le righe del provvedimento del tribunale di Catania che ha confermato il sequestro dell’imbarcazione dell’Ong spagnola, emerge il ruolo della Marina militare italiana nel guidare le azioni della Guardia costiera libica. “Siamo tornati alla stagione dei respingimenti?”, si domanda Gianfranco Schiavone di ASGI

© marina militare italiana

“Il coordinamento è sostanzialmente affidato alle forze della Marina Militare Italiana, con i propri mezzi navali e con quelli forniti ai libici”. La frase è tratta da un passaggio finale delle 24 pagine del decreto con il quale il giudice per le indagini preliminari di Catania -Nunzio Sarpietro- ha confermato il sequestro della nave dell’Ong spagnola ProActiva Open Arms, il 27 marzo scorso, accusata di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina dopo aver tratto in salvo 218 migranti a metà marzo. A una lettura veloce può sembrare una frase neutrale, in realtà è una “bomba”.

Come noto, il 15 marzo scorso “Open Arms” ha soccorso in due distinte operazioni di salvataggio 218 migranti al largo delle coste libiche. In un primo momento, le autorità italiane hanno chiesto all’Ong che fosse il governo spagnolo a chiedere l’autorizzazione allo sbarco in Italia: una procedura inedita e mai seguita prima nei confronti delle imbarcazioni che battono bandiera diversa da quella italiana. Il giorno seguente, “Open Arms” ottiene dalle autorità di Malta la disponibilità a sbarcare un neonato di appena tre mesi in gravi condizioni di salute e la madre. Solo alle 19.38 Roma autorizza la nave della ong spagnola -che nel frattempo aveva lasciato le acque maltesi, dirigendosi verso la Sicilia- a sbarcare a Pozzallo. Dove lo sbarco avviene la mattina di sabato 17.

Secondo Gianfranco Schiavone -vice presidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI)- quelle parole del Gip “scoperchiano clamorosamente il vero problema”, aprendo uno scenario ben più allargato della singola (e discussa) inchiesta a carico di Open Arms (giovedì 29 marzo alle 12 l’Ong terrà una conferenza stampa congiunta a Pozzallo e a Barcellona). E cioè che le operazioni condotte dalle imbarcazioni libiche di “recupero” dei migranti in mare e della loro successiva riconsegna al Paese africano, siano state e siano tutt’ora condotte, come riconosce il Gip, “sotto l’egida italiana con le navi militari di stanza a Tripoli”.

Se così fosse, questa vicenda riscriverebbe la dinamica delle operazioni nel Mediterraneo: l’Italia, stando alla ricostruzione del giudice di Catania, avrebbe delegato ai libici l’esecuzione dei “recuperi” -o “salvataggi”, per il Gip- ma non il coordinamento. La commistione tra autorità italiane e libiche che emerge dal provvedimento del tribunale di Catania è totale. È italiano il personale della nave militare Capri a Tripoli che avrebbe avvisato la centrale operativa di Roma della partenza di una motovedetta della Guardia costiera libica diretta verso il primo gommone di migranti. E sarebbe stata italiana la richiesta di “far allontanare l’unità della Ong per evitare criticità”. O per dirla con i libici: far in modo che la Ong “rimanesse fuori dalla portata ottica dei migranti”. È italiano anche l’addetto alla Difesa a Tripoli che avrebbe chiamato Roma “lamentando il comportamento della Open Arms”.

“Se il centro delle operazioni, fin dall’inizio, è l’Italia -spiega Schiavone-, allora è l’Italia che deve spiegare per quale motivo ha inviato sul posto i libici, un modus operandi che fa sì che quelle persone vengano restituite alla Libia”. Quel “posto” sono acque che non appartengono alla zona SAR (Search and Rescue) della Libia, per il semplice fatto -riconosciuto dal Gip di Catania- che quella zona, semplicemente, non esiste. C’è di più: la Convenzione europea sui diritti dell’uomo impegna gli Stati a garantire alle persone che ricadono sotto la loro giurisdizione quei diritti e quelle libertà previsti dalla stessa convenzione. “Normalmente -spiega Schiavone- la giurisdizione si esercita nel proprio territorio ma per chiara giurisprudenza della Corte EDU, anche le azioni commesse fuori dal territorio ricadono nella giurisdizione di uno degli Stati aderenti alla Convenzione qualora si tratti di azioni i cui effetti sono chiaramente riconducibili allo Stato che le mette in atto. È il caso della presenza dell’Italia in Libia e del coordinamento delle azioni di soccorso. Ciò che va verificato è quindi se l’Italia nell’avere inequivocabilmente agito in modo  di tentare di rinviare i migranti dal Paese dal quale fuggivano, ovvero la Libia abbia rispettato o meno la CEDU e in particolare l’articolo 3, ovvero il divieto di rinviare una persona verso un territorio nel quale c’è un rischio concreto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti. Anche se si trattasse di un solo un concorso tra Italia e Libia avremmo piena responsabilità da parte dell’Italia. Inoltre dal provvedimento del Gip sembrerebbe che il coordinamento sia stato integralmente italiano”

Quindi è un respingimento? “Rilevo delle similitudini preoccupanti con il caso ‘Hirsi Jamaa’, quando Italia fu condannata nel febbraio 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per il respingimento di 24 persone, prima recuperate in mare, poi trasferite sulle navi militari italiane e infine ricondotte a Tripoli in spregio alla Convenzione. Era il maggio 2009. Oggi mi pare di poter concludere che, come allora, l’Italia agisce direttamente con propri uomini e mezzi nel determinare la sorte delle persone, pur nascondendosi dietro le autorità libiche”, riflette Schiavone.

“La Corte -si legge in quella sentenza drammaticamente attuale- osserva che l’Italia non può liberarsi della sua responsabilità invocando gli obblighi derivanti dagli accordi bilaterali con la Libia”. La differenza rispetto al 2009 è stata la presenza ostinata di ProActiva, che ha recuperato quelle persone e le ha portate a Pozzallo.

“La domanda che mi faccio è questa -ragiona a voce alta Schiavone-: quante volte è già avvenuto? Quante volte i libici si sono ripresi persone sotto il coordinamento delle operazioni italiano? Fino ad oggi si è sempre detto ‘È competenza dei libici’. Da ieri abbiamo scoperto che l’Italia rispondeva per conto di altri che in realtà stava coordinando. Se ciò fosse confermato, allora il nostro Paese deve risponderne direttamente delle sue azioni, ai sensi del diritto interno e delle leggi e convenzioni internazionali”.

Aggiornamento del 29 marzo 2018: 

Contattato da Altreconomia, l’ufficio stampa dello Stato Maggiore della Difesa spiega che l’attività di coordinamento svolta dalle unità italiane presenti in Libia avviene “nell’ambito delle attività previste dal Decreto missioni approvato dal Parlamento italiano il 17 gennaio 2018”. Nello specifico, la “Missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia” prevede in effetti tra i suoi obiettivi quello di “assicurare assistenza e supporto addestrativi e di mentoring alle forze di sicurezza libiche per le attività di controllo e contrasto all’immigrazione illegali, dei traffici illegali e delle minacce alle sicurezza della Libia”. Nel testo, però, non si parla esplicitamente di coordinamento.

Inoltre, lo Stato Maggiore della Difesa spiega che Nave Capri è -di fatto- una “nave officina” il cui compito è il ripristino e la messa in efficienza del naviglio della Guardia Costiera e della marina libica. “Il personale di bordo interviene direttamente nella riparazione e nella manutenzione del naviglio libico –spiegano dallo Stato Maggiore della Difesa-, ma al tempo stesso effettua attività di addestramento e mentoring a favore dei meccanici libici. Nave Capri non ha nessun ruolo di coordinamento dei salvataggi”.

Secondo quanto ricostruito dal Gip Sarpietro: “Alle ore 5,37 il personale di bordo della nave militare italiana Capri (…) comunicava a Roma che una motovedetta della Guardia Costiera libica di lì a poco avrebbe mollato gli ormeggi per dirigersi verso l’obiettivo, e specificava che la detta Guardia Costiera avrebbe assunto la responsabilità del soccorso”. Successivamente “il personale di Nave Capri (…) richiedeva di far allontanare l’unità della Ong per evitare criticità durante il soccorso”. Resta da capire perché la Guardia Costiera libica non abbia risposto direttamente alle sollecitazioni dell’IMRCC di Roma: “Probabilmente –ipotizzano dallo Stato Maggiore- è più facile per Nave Capri comunicare con Roma che per loro [la Guardia Costiera libica, ndr].

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