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Opinioni

Praticare la comunità

Le persone scendono in piazza e manifestano. Bloccano per mesi -anni- i lavori di un’infrastruttura inutile. Oppure raccolgono firme per un referendum. Seguono dibattiti e si informano, fanno volontariato. Che cosa le spinge?

Tratto da Altreconomia 143 — Novembre 2012

L’egoismo -ancorché “sano”, volto alla tutela dei propri interessi e con essi quelli di tutti- non è una risposta soddisfacente.
Nel suo putiferio di norme e regolazioni, la società moderna tende al contrario a immunizzare: ovvero a rendere le persone immuni, prive di obblighi, in senso etimologico. È una ossessione, le cui motivazioni sono nella parola stessa: il termine latino munus vuol dire “obbligo”, ma vuol dire anche “dono”. Il dono sovverte l’ordine costituito, secondo il quale a ogni prestazione deve corrispondere un prezzo.
Il dono è pericoloso: smaschera e trasforma il sistema. Ecco perché combatterlo.
Ma munus è anche il nucleo costitutivo della parola “comunità”, esatto opposto di immunità. Che cos’è dunque comunità?
Si è sempre stati propensi a definire le comunità attraverso un processo di ricerca di un elemento comune a un gruppo di individui. Un elemento che li faccia appartenere a uno stesso insieme. Ecco perché abbiamo sempre pensato alla comunità come a un bene, un valore, un’essenza. Che a volte si può perdere, e a volte ritrovare. Un senso di appartenenza, un possesso, soprattutto riferito al territorio. È una definizione adeguata? No, anche questa è un’argomentazione che in cuor nostro non ci soddisfa.
Ci facciamo allora aiutare da Roberto Esposito (Communitas, Einaudi 1998). Nel suo molteplice significato (obbligo/dono), spiega Esposito, dobbiamo chiederci in che senso il dono sarebbe anche un dovere. Il dono non dovrebbe essere un gesto spontaneo?
In realtà il munus è un dono particolare: è quello fatto, non quello ricevuto, ed è caratterizzato da una “inesorabile cogenza”. Ecco: il cuore della comunità è un dono obbligato, che sollecita disobbligazione. “La gratitudine che esige nuova donazione”, scrive Esposito, introducendo il tema della riconoscenza, tanto avulso e osteggiato nella nostra epoca.
Ecco prevalere quindi reciprocità e mutualità: quel consegnare -l’uno all’altro tra i membri della comunità- un impegno.

Non si può definire allora comunità solo con la contrapposizione “pubblico vs privato”. Che cos’hanno allora in comune i membri di una comunità? Non un’appartenenza, non un bene, non una sostanza, ma un dovere. Non una proprietà, “ma un debito”. L’essenza della comunità non è la somma dei suoi membri, ma il rapporto che intercorre tra di loro.
Un po’ come nella musica: melodia e armonia sono il risultato della relazione tra note, nella loro contemporaneità e nella loro sequenza. Le note sono sette ma quel che conta è come le si mette in relazione. Melodia e armonia scaturiscono dall’intervallo tra una nota e l’altra, nel rapporto tra la prima e la seconda: l’essenza della musica è -paradossalmente- il silenzio tra una nota e l’altra.
Il dono che la comunità condivide allora non è un’appartenenza, ma una mancanza: è comune non ciò che è di tutti, ma quel che è di nessuno.
Non sappiamo se chi scende in piazza condivida questa definizione. Sappiamo però che l’ideologia -perché le cose vanno chiamate col loro nome- imperante di questi decenni ha cercato in tutti i modi di imporre la sua forma di individualismo consumistico, e per farlo ha dovuto combattere l’esistenza stessa di quel vincolo dono/debito che è alla base costitutiva della comunità. Ha cercato in tutti i modi di enfatizzare quel “timore di essere toccati” di cui parla Elias Canetti in “Massa e potere” (1960): “Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. [..] Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati. Ci si chiude nelle case, in cui nessuno può entrare; solo là ci si sente relativamente al sicuro”.
Invece a noi -per usare ancora parole di Roberto Esposito- piace “il contagio della relazione”, quel legame, quell’assenza che ci porta in piazza, che ci fa impegnare gratuitamente.
Quel dovere-dono, quella riconoscenza che ci consola (e non ci lascia soli). —
 

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