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Altre Economie

Potere d’acquisto – Ae 87 –

I consumatori chiedono alle aziende il rispetto dei lavoratori e dell’ambiente, orientando le proprie spese. E così, mentre le multinazionali si rifanno il trucco ma non cambiano la sostanza, crescono le alternative. Dal commercio equo ai gruppi di acquisto solidali…

Tratto da Altreconomia 87 — Ottobre 2007

I consumatori chiedono alle aziende il rispetto dei lavoratori e dell’ambiente, orientando le proprie spese. E così, mentre le multinazionali si rifanno il trucco ma non cambiano la sostanza, crescono le alternative. Dal commercio equo ai gruppi di acquisto solidali


Le multinazionali cavalcano il mito della sostenibilità. Chiquita ha certificato la responsabilità sociale e ambientale di tutte le sue piantagioni di banane in America Latina, e speso la campagna stampa 2007 per comunicare che le proprie banane “non sono solo buone. Fanno bene davvero”.

La certificazione, volontaria, è la SA8000, che si basa su nove requisiti (dai diritti dei lavoratori alla sicurezza e salubrità dei luoghi di lavoro). Quest’azione si chiama greenwashing: ripulire, attraverso la pubblicità, la propria immagine: pochi mesi fa la stessa Chiquita è stata condannata in Colombia per il legame con le bande paramilitari che insanguinano il Paese, e costretta a pagare una multa di 25 milioni di dollari. Chiquita non è l’unica a sfruttare il greenwashing: da anni le più grandi aziende del settore petrolifero promuovono le energie rinnovabili: Chevron, Shell, BP fanno a gara per dichiararsi paladine dell’ambiente.

Succede anche da noi: la più grande campagna sul risparmio energetico, in Italia, l’ha lanciata Eni all’inizio dell’estate 2007. Sembra un paradosso.  

Due anni fa Nestlé ha rotto il tabù del commercio equo e solidale: in Inghilterra vende caffè certificato Transfair. Trent’anni di boicottaggio (www.ribn.it) non hanno intaccato i profitti dell’azienda svizzera, ma senz’altro hanno contribuito a modificare le scelte di consumo di milioni di persone. Per molti acquistare caffè (o cioccolato) è diventato un gesto politico. Nestlé ha scelto di darsi una bella mano di bianco. Dieci anni fa una cosa del genere sarebbe stata inimmaginabile.  

Nel 2005 Nike ha pubblicato la lista dei suoi fornitori. Salvo poi confermare (vedi Ae n. 62) di non aver idea di quanti fosse i subfornitori, né svelare i meccanismi degli ordini (spesso alla base dello sfruttamento dei lavoratori).

I media diedero ampio spazio alla “svolta etica” di Nike, ma pochi si presero la briga di leggere ciò che mancava in quel rapporto.

Altreconomia è nata raccontando pratiche di consumo critico. La nostra prima copertina raccontava la campagna di pressione contro la Del Monte (poi vinta), colpevole di violare i diritti dei lavoratori nelle piantagioni di ananas in Kenya. Era promossa dal Centro nuovo modello di sviluppo di Francesco Gesualdi, che nel 1996 ha pubblicato la prima edizione della Guida al consumo critico (130 mila copie vendute fino ad oggi) e aiutato i cittadini a orientarsi tra gli scaffali del supermercato. Dalla protesta alla proposta il passo è breve.

Il commercio equo e solidale italiano ha quasi vent’anni. Le “botteghe” (quelle che garantiscono anche la distribuzione di Altreconomia) sono diffuse in tutto il Paese e oggi i prodotti del commercio equo e solidale fanno parte della dieta di migliaia di giovani, dopo essere entrati nelle mense scolastiche. Caffè, zucchero, tè e cioccolato sono nelle case di milioni di italiani, anche perché i prodotti certificati Transfair e quelli di Ctm altromercato sono entrati nella grande distribuzione.

Oggi il consumo critico ha contaminato anche la pubblica amministrazione: alcuni enti locali, con il green public procurement, hanno inserito criteri “verdi” nei bandi di gara per la fornitura di beni e servizi. L’esperienza è ancora limitata, ma gli appalti pubblici in Europa valgono 1.500 miliardi di euro. Altri hanno scelto di agire sugli stili di vita, come il Comune di Venezia, che ha promosso Cambieresti? (Ae n. 58). Mille famiglie hanno monitorato i propri consumi per dieci mesi, con l’obiettivo di ridurli. L’iniziativa -a cui abbiamo dedicato un libro- è già stata replicata in decine di Comuni.

Ci sono infine i gruppi d’acquisto solidale (Gas), che promuovono l’acquisto collettivo e consapevole di beni di consumo e un commercio basato sul rapporto diretto tra consumatore e produttore. Ai Gas abbiamo dedicato una copertina nel primo anno di Altreconomia: nel 2000 erano 39 quelli conosciuti, oggi sono oltre trecento. Numeri ancora piccoli, ma non importa: i Gas (www.retegas.org) riflettono sull’acquisto collettivo di energia, creano un mercato per l’economia locale (a Lucca e Pescara, addirittura, hanno dato vita a due empori), con la propria domanda hanno aiutato a sviluppare filiere eque e solidali (quella del tessile per la casa, ad esempio: lenzuola, federe, asciugamani).



Il commento

Un nuovo stile

di Francesco Gesualdi

Quando lanciammo l’idea del consumo critico, una decina di anni fa, l’attenzione era concentrata sulle imprese. L’intento era di modificare i loro comportamenti su temi che all’epoca erano ritenuti urgenti: squilibri Nord-Sud, diritti dei lavoratori, corsa agli armamenti. Oggi il ventaglio delle emergenze si è allargato ad altri temi e comprende la crisi delle risorse, l’eccesso di rifiuti, l’esproprio dei beni comuni.

L’atteggiamento critico deve essere esteso fino a mettere in discussione l’intero stile di vita. Bisogna passare dal consumo critico al consumo responsabile, dove la sobrietà fa da sfondo a ogni scelta. Non disinnescheremo mai la bomba sociale e ambientale su cui il pianeta sta seduto, finché noi, gli opulenti, non accetteremo di consumare meno auto, meno luce, meno gas, meno acqua, meno cibo, meno vestiario, meno carta. Consumare meno è indispensabile per lasciare ai nostri figli un pianeta vivibile, non solo per consentire agli esclusi di avere parte al banchetto della vita. È ora che il concetto di sostenibilità smetta di essere uno slogan vuoto e assuma una forma concreta. Parallelamente dovremo fare la scelta del consumo locale, perché una delle vie del risparmio energetico è l’avvicinamento della produzione al consumo. Anche per questo attribuiamo ai gruppi di acquisto solidale una particolare valenza politica. Filiera corta, fino al fai da te, per consumare meno energia, ma anche per produrre meno anidride carbonica, simbolo dei rifiuti che stanno strangolando il pianeta. Rifiuti zero è la nostra parola d’ordine, ma non crediamo che la soluzione sia il riciclaggio.

Il riciclaggio è solo l’ultima stazione di un percorso a zig-zag che cerca di scansare i rifiuti tramite il consumo locale sobrio e leggero. Consumare leggero significa ridurre al minimo gli imballaggi ed ecco l’importanza di piccole scelte come il rifornimento alla spina, l’acquisto al banco e l’esclusione dei prodotti inutili che spesso sono il pretesto per venderci una montagna di plastica. Consumo responsabile, non come strategia esclusiva, ma come ulteriore strumento di partecipazione, che aggiunto agli altri cerca di far cambiare il comportamento delle imprese e la mentalità della gente. Per un pianeta equo e sostenibile.

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