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Quella politica dei social network che sostituisce il Parlamento

Siamo entrati in una nuova fase della storia repubblicana in cui non serve governare ma saper “raccontare” cosa si vorrebbe fare governando. Dove il dibattito si è spostato in un universo virtuale e le votazioni avvengono a colpi di “like”. Il commento di Alessandro Volpi

Esiste un recente e curioso costume politico che consiste nel presentare proposte di politica economica di assoluto rilievo con più o meno succinti post sui social network. L’aspetto ancora più singolare di questa abitudine è rintracciabile nel fatto che gli autori di tali folgoranti idee programmatiche sono, spesso, esponenti di spicco di forze deputate a governare il Paese.

Potrebbe apparire una vicenda banale, ma in realtà sottende alcuni aspetti che coinvolgono direttamente i caratteri della nostra democrazia parlamentare. Mentre si allungano i tempi di formazione del governo, rimandata sine die, il luogo della definizione dei contenuti del dibattito politico si è spostato, quotidianamente, sulle reti dei social media, con conseguenze significative nei confronti delle dinamiche istituzionali.

Come accennato, i social stanno sostituendo lo spazio politico storicamente svolto dal Parlamento. Non si tratta soltanto del superamento delle più tradizionali forme di informazione ma della vera e propria mutazione dei luoghi della discussione pubblica. In altre parole, se le più importanti proposte legislative sono prima di tutto – prima ancora di qualsiasi passaggio parlamentare – oggetto di post lanciati in rete, è evidente che il Parlamento tenderà a svolgere gli uffici della mera presa d’atto di deliberazioni adottate e discusse altrove, a colpi di “mi piace” più o meno autentici.

Il rapporto tra mezzi di informazione e poteri politici verrà così intimamente stravolto e ricondotto all’interno di uno spazio che anticipa, condiziona fin quasi a determinare il successivo, e per molti aspetti assai poco rilevante, dibattito parlamentare. L’opinione politica si forma ben prima della fase parlamentare e si radica su un consenso “social” che finisce per trasferirla nelle aule delle Camere senza troppi spazi di modificazione. L’insito antiparlamentarismo dei social, che ha caratterizzato questi ultimi anni, si trasforma nel superamento, di fatto, del Parlamento, declassato ad inutile e costoso orpello di una defunta democrazia rappresentativa in nome di una non troppo chiara democrazia diretta delle sensazioni e delle pulsioni tradotte nelle forme plebiscitarie del “mi piace”, tipiche dei giudizi estetici.

Anche l’idea, ormai molto forte di introdurre il vincolo di mandato per i parlamentari e di riportare in auge rigide discipline di partito, sancite persino in sede notarile, rafforza la visione secondo cui non sia il Parlamento la sede in cui coltivare l’esercizio della discussione e della libertà politica. In questo senso stiamo davvero entrando in una nuova fase della vita repubblicana, in cui le istituzioni parlamentari sono state smontate, pezzo per pezzo, e non sono più riconoscibili rispetto al dettato costituzionale, al di là delle dichiarazioni neppure troppo convinte dei nuovi vertici delle Camere. In questo quadro appare possibile anche la permanenza in carica di un esecutivo dimissionario, sonoramente sconfitto alle elezioni, e la composizione di un Parlamento senza maggioranza perché nessuno ambisce realmente a governare e le proposte “legislative” che fanno opinione sono definite altrove, sui “social” appunto, come se il paese vivesse in una infinita campagna elettorale mediatizzata.

Nella “nuova” repubblica, non serve governare ma saper raccontare cosa si vorrebbe fare governando, in un modello in cui le vincenti pulsioni antisistema si legano al rifiuto della responsabilità politica dal momento che governare significa, ipso facto, diventare parte del potere e dunque perdere le quotidiane elezioni definite sui social.

La nuova democrazia diretta della rete, dove si immagina il governo del futuro che non diviene mai presente e che si esplica attraverso le folgorazioni dei post, sta producendo poi la conseguenza palese dello stravolgimento del linguaggio della politica. Le poche frasi ammesse dai post non consentono certo elaborazioni articolate ed organiche, ma impongono una semplicità sloganistica, al limite della banalizzazione. Anche i temi più grandi, come quello della “natalità” o della riforma fiscale, vengono riassunti in un numero limitato di caratteri che naturalmente trascurano aspetti centrali come le coperture finanziarie, i margini concreti di attuazione delle misure proposte, persino la coerenza con l’impianto normativo esistente, per non citare i vincoli europei. In estrema sintesi, in nome della mera ed immediata comprensibilità delle proposte, obbligatoriamente sintetiche, si sacrifica ogni valutazione sulla sostanza reale delle proposte stesse. Ancora una volta, dunque, i lessici della propaganda continuano ad essere preminenti anche dopo il voto; la nuova democrazia diretta della rete pare avere una sola dimensione possibile che consiste nel reiterare all’infinito i toni delle campagne elettorali nella consapevolezza che ormai chi governa rischia seriamente di essere battuto nelle urne.

Università di Pisa
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