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Esteri / Opinioni

La politica estera, grande assente nel dibattito sul nuovo governo

Il rischio di un’escalation del conflitto siriano, le tensioni in Medioriente e nel Pacifico, oltre alle possibili ricadute economiche delle tante crisi mondiali richiedono un’accelerazione nella formazione del nuovo esecutivo. “Non serve una politica estera da campagna elettorale mentre piovono le bombe”, scrive Alessandro Volpi

L'incontro tra il presidente russo, Vladimir Putin, e il presidente USA, Donald Trump, in occasione del G20 ad Amburgo (Germania) del luglio 2017

Si registra un’imbarazzante assenza nel dibattito pubblico che sta accompagnando le grandi manovre per la formazione del nuovo governo italiano. Si tratta della politica estera, che pare vissuta con un distacco infastidito e ridotta al terreno delle scelte di campo decisamente generiche, quasi mai in grado di andare oltre la semplice “simpatia” per l’uno o l’altro leader mondiale. Il surriscaldato clima internazionale, reso ancora più incandescente dal recente attacco “alleato” alla Siria, dovrebbe imporre invece un’attenzione ben diversa alle questioni di politica estera perché tali temi risultano e risulteranno cruciali da molteplici punti di vista

Sta rapidamente prendendo corpo il rischio di un vasto conflitto regionale che potrebbe innescare nuovi venti da Guerra fredda. La Siria è ormai un tragico scenario dove si perpetrano crimini orribili e dove i bombardamenti, preannunciati dalla triviale retorica di Donald Trump, possono causare uno scontro pericolosissimo con la Russia di Vladimir Putin. Simili tensioni hanno un riverbero sull’intera area coinvolgendo l’Iran -filo russo, colpito dalle sanzioni Usa- e Israele, preoccupato dall’azione iraniana e dalla sempre più avvertita minaccia di accerchiamento. In questo contesto giocano un ruolo non banale i riflessi che l’incendio siriano può causare in altre zone del Nord Africa, in Iraq e persino nell’Africa subsahariana e in quella orientale.

Rimangono accesi da tempo, inoltre, i focolai coreani nel Pacifico, che coinvolgono Cina e Giappone. Di fronte a uno scacchiere così complesso, che inciderà sui movimenti dei richiedenti asilo, diventa indispensabile per l’Italia disporre dunque di un “governo di guerra” pienamente legittimato dalle Camere e dotato di una coerente e comprensibile politica estera. Una caratteristica che non può possedere il “governo tecnico” di Paolo Gentiloni, battuto alle urne.

La politica estera appare ancora più rilevante in un panorama internazionale in cui le grandi potenze sembrano sempre più intenzionate a caratterizzarsi proprio per il loro peso e la loro forza planetaria. Gli Stati Uniti dell’isolazionista Trump hanno scelto di seguire la strada del Segretario alla difesa James Mattis di alzare il livello dello scontro mondiale, a cominciare dalla micidiale retorica delle dichiarazioni, per far dimenticare il Russiagate e per sconfiggere le paure verso l’impero cinese.
Come per il primo Reagan, anche per Trump l’individuazione degli “Imperi del male” serve a rafforzare il consenso interno raccolto alle ultime elezioni sulla base di durissime condanne nei confronti delle debolezze delle presidenze democratiche. Il motto “America first” sta così trasformandosi da slogan eminentemente economico in una ambizione di leadership mondiale.
La Russia di Putin ha un bisogno altrettanto marcato di prestigio internazionale nel momento in cui sta scontando una serie di significative difficoltà economiche interne. Il forte consenso personale di Putin rischia infatti di essere rapidamente incrinato dalle reiterate crisi borsistiche, dall’impennata dei tassi d’ interesse sul debito pubblico, dalla concreta minaccia d’inflazione e dal crollo del rublo. Per queste ragioni il presidente russo deve poter presentarsi come il garante degli equilibri mediorientali e come il principale player nella definizione dei prezzi dell’energia.
Anche la Cina, che conosce la delicata fase del consolidamento delle proprie posizioni di locomotiva mondiale, non può subire smacchi nei confronti della Corea o in scenari assai delicati come quello africano. In tale ottica l’Italia deve poter trovare una precisa collocazione all’interno dell’Europa che, nella dialettica tra i tre colossi mondiali, può assolvere una funzione decisiva.

Il teso clima bellico ha inevitabili ricadute sul versante delle politiche economiche. I protezionismi trionfanti e le guerre monetarie saranno inaspriti dal deteriorarsi delle relazioni internazionali in un Pianeta che, peraltro, ha abbandonato da tempo le sedi multilaterali di negoziato e ha scelto di regolarsi utilizzando accordi bilaterali tra Stati. In altre parole si consoliderà un sistema di alleanze attorno ai tre pivot già ricordati, decisivi dello scacchiere globale. Un sistema che avrà effetti economici rilevanti in termini di aperture e chiusure dei mercati attraverso i dazi, di acquisti, più o meno privilegiati, di titoli dei vari debiti pubblici nazionali e di direttrici dei flussi dei capitali. Questo sistema inciderà anche sugli andamenti dei prezzi del petrolio, già in rapido rialzo, e dei prodotti energetici, di cui l’Italia è grande importatrice.

Risulta evidente, per l’insieme di questi fattori, che non è più sufficiente dichiararsi simpatizzanti di Trump o di Putin e neppure manifestare un indistinto afflato europeo o gridati antieuropeismi. Non serve una politica estera da campagna elettorale mentre piovono le bombe.

Università di Pisa

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