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Esteri

Poche novità dal vertice G20 di Pittsburgh

Il vertice di Pittsburgh si è chiuso con progressi minimi sulla lotta alla crisi e una novità che a ben vedere tale non è: la definitiva affermazione del G20 a scapito del G8 -e delle Nazioni Unite-. I giochi sembrano…

Il vertice di Pittsburgh si è chiuso con progressi minimi sulla lotta alla crisi e una novità che a ben vedere tale non è: la definitiva affermazione del G20 a scapito del G8 -e delle Nazioni Unite-. I giochi sembrano fatti, anche se il “direttorio mondiale allargato” ha il compito di occuparsi delle questioni economiche e finanziarie e il G8 mantiene ancora la parte di decisore politico.
Niente da fare, invece, per un possibile ruolo delle Nazioni Unite, con tutte le complicazioni del caso ma con una reale impronta democratica nei possibili processi negoziali. I “vecchi” ricchi e i “nuovi” ricchi -in primis le economie emergenti, Cina, India, Brasile, Messico e Sud Africa- hanno già stabilito di rivedersi almeno due volte nel corso del 2010: in Canada a giugno e in Corea del Sud a novembre si continuerà a discutere del destino del mondo, con la speranza di mettere in piedi delle riforme radicali ormai ridotta al lumicino. Nel frattempo il prossimo dicembre a Copenaghen avrà luogo la fondamentale conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente. Visto l’esito del G20, in particolare sulla questione in oggetto, c’è veramente poco da essere ottimisti.
Nel frattempo alcune “vecchie facce” della globalizzazione si godono una stagione di inattesa riabilitazione. Soprattutto il Fondo monetario internazionale sta acquisendo sempre più importanza, tanto che, insieme al Financial Stability Board guidato dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, avrà il compito di verificare la bontà e l’efficacia dei provvedimenti in favore dell’economia presi dal G20. Ha del paradossale come un organismo che prima della crisi -che non ha saputo in alcun modo prevedere- era caduto in disgrazia e stava addirittura tagliando il personale, sia invece tornato così in auge. Sempre a proposito delle due istituzioni gemelle, Banca mondiale e Fondo monetario, ormai non si parla più di una nuova Bretton Woods, di una nuova costituente, bensì si concedono solo maggiori quote di potere alle potenze emergenti, pensando così di risolvere l’ennesimo deficit di democrazia della governance globale. E invece, anche in questo caso non si va oltre la mera cosmesi.      
Le buone notizie giunte dall’ex polo industriale della Pennsylvania si contano sulle dita di una mano. Molto strombazzata l’intesa su una limitazione -ma niente tetto- dei bonus che possono intascare i top manager delle banche. Un tema così dibattuto e pubblicizzato che sembra quasi l’origine di tutti i mali della finanza mondiale. Ma purtroppo non è così. Positivo lo stop ai sussidi e agli sgravi fiscali per i combustibili fossili, sebbene non si sia ancora arrivati all’auspicata cancellazione, come richiesto alla vigilia del meeting dalla presidenza americana.
Per il resto il summit ha confermato che non siamo ancora arrivati a una exit strategy dagli aiuti pubblici per stimolare le economie in crisi e si è perso in vaghe promesse e nella riproposizione di principi già espressi in passato. I soliti buoni propositi sulla lotta al protezionismo -che a parole disprezzano tutti, ma nei fatti è praticato eccome- fanno il paio con una generica “lotta alla disoccupazione” e uno “sviluppo sostenibile” a cui ambire. Di dettagli su come perseguire questi obiettivi il documento finale del G20 ne contiene ben pochi, ma tant’è, in occasioni del genere un po’ di sana retorica non guasta mai.
Poco o nulla si è deciso sugli strumenti altamente speculativi e rischiosi, quali hedge funds e fondi di private equity. Per i derivati contrattati fuori dai mercati o over the counter, additati come strumenti fortemente speculativi e poco trasparenti, il G20 si limita solo a chiedere l’avvio di una piattaforma elettronica entro il 2012, ma non si prodiga nel cercare nuove norme più stringenti che ne restringano l’utilizzo.
I paradisi fiscali sembrano quasi finiti nel dimenticatoio, tanto che sono rimasti ai margini della due giorni americana, così come la possibile introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, menzionata quasi di passaggio nel comunicato finale. La City di Londra e Wall Street hanno fatto la voce grossa e i rispettivi governi si sono uniformati al loro volere, contrastando la posizione innovativa di Francia e Germania. Segno che nella finanza globale l’ancien regime sta già facendo le prove per la restaurazione. 

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Il terzo vertice dei G20 in poco meno di un anno si è aperto oggi a Pittsburgh, negli Stati Uniti d’America. Simbolo di una possibile rinascita post-industriale, la città della Pennsylvania ospiterà una due giorni di negoziati che ben difficilmente cambieranno le sorti del nostro Pianeta.
Come a Londra lo scorso aprile, probabilmente anche a Pittsburgh si compierà solo qualche timido progresso. I temi in agenda sono sempre gli stessi, in questi lunghi mesi di crisi e recessione globale: la ricerca di risorse economiche per rilanciare le economie nazionali, e in particolare quelle dei Paesi più poveri, la scrittura di nuove regole da imporre alla finanza internazionale per scongiurare il ripetersi di una crisi di tale ampiezza e infine la revisione dell’assetto di organismi sovranazionali come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale.  
Convitato nemmeno troppo di pietra è l’emergenza ambientale. Usa e Cina, responsabili del 40 per cento delle emissioni globali, sono i due Paesi sotto i riflettori, nella speranza che si inizi a raggiungere qualche intesa di rilievo in vista del fondamentale appuntamento del summit delle Nazioni Unite sul post-Kyoto di Copenaghen, in programma a dicembre. Un flop in quell’occasione sarebbe, per dirla con le parole del segretario dell’Onu Ban-Ki-Moon, “moralmente senza scuse, economicamente miope e politicamente folle”.
Sviscerando i temi del G20, in particolare tenendo d’occhio quanto deciso e messo in atto all’incontro londinese, c’è poco da stare allegri. I tanti fondi, oltre un trilione di dollari, promessi nella capitale inglese per sconfiggere la crisi si sono rivelati composti da impegni già presi in precedenza e legati a condizioni non proprio favorevoli. La Banca mondiale ci rammenta che sono gli oltre 60 Paesi a basso reddito quelli che stanno pagando il conto più salato dell’emergenza economica-finanziaria attuale. Ebbene, si calcola che essi abbiano ricevuto solo il 4,5 per cento del famoso trilione, ovvero 50 miliardi, mentre tutto il resto è destinato al Nord ricco.
Per la verità il 50 per cento di questo ammontare non è ancora stato elargito, mentre una buona parte del denaro trasferito è sotto forma di prestiti, con il rischio di aumentare il già consistente debito estero delle realtà più sfortunate del Pianeta.
L’istituzione più generosa con gli Stati a basso reddito è il Fondo monetario internazionale. Sono 21 i miliardi di dollari esigibili tramite gli special drawing rights (diritti speciali di prelievo), ai quali non sono attaccate condizionalità ma che prevedono tempi (e soprattutto interessi) ben specificati per la restituzione. Degli special drawing rights beneficiano tutti i Paesi, tanto che i 250 miliardi distribuiti in totale sono andati in buona parte a membri del G20. Insomma, al di là della solita retorica “buonista”, al Nord preme soprattutto curare il proprio tornaconto. Non a caso la partita della governance e degli assetti delle istituzioni finanziarie internazionali, come il Fondo e la Banca mondiale, si trascina ormai da lungo tempo senza che si veda la fine. I Paesi ricchi continuano a contare tanto, forse troppo, quelli poveri si accontentano di briciole di potere.   
Anche sulla questione dei paradisi fiscali, ai proclami dei mesi scorsi su una lotta senza quartiere sono seguiti risultati piuttosto deludenti: il G20 ha affidato all’Ocse il compito di compilare una nuova “lista nera” di giurisdizioni non cooperative. La lista è attualmente vuota, ma il problema dell’evasione fiscale e dei flussi illeciti di capitali è tutt’altro che risolto. Servirebbe una piattaforma veramente multilaterale per chiudere per sempre tutti i tax havens, ma per adesso non se ne parla.
Così come non sembrano esserci margini per l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie che non si discosti troppo dalla cosiddetta Tobin Tax, che quei “folli” della società civile internazionale sbandierano da anni come una soluzione concreta ed efficace per curare -almeno in parte- gli eccessi speculativi del capitalismo globale. Adesso anche Nicolas Sarkozy e Angela Merkel hanno capito che un provvedimento del genere non solo è necessario, ma conviene. Le lobby della finanza a stelle e strisce e non solo la pensano ovviamente in altro modo. Alla fine è quasi scontato che vinceranno ancora una volta loro. (24 settembre)

* Campagna per la riforma della Banca mondiale/Mani Tese

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