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Economia / Approfondimento

Plastica usa e getta: l’ambiente e i bilanci ne risentono ancora

Vaschette, vassoi, pellicole e flaconi opacizzati abbondano sugli scaffali ma riciclarli è molto difficile. E nella maggior parte dei casi finiscono negli inceneritori o in discarica. Tocca all’industria riconvertirsi

Tratto da Altreconomia 208 — Ottobre 2018

Iniziata in Italia negli anni Novanta, tra il 1998 e il 2017 la raccolta differenziata della plastica è passata da 2 a 18 chilogrammi per abitante e ha permesso di ridare nuova vita a milioni di tonnellate di imballaggi. Oggi cresce con percentuali a due cifre, ma senza il contributo decisivo dell’industria che quei contenitori li produce e li mette sul mercato, le pratiche virtuose dei singoli rischiano di rimanere armi spuntate. Su quasi 2,3 milioni di tonnellate immesse sul mercato nel 2017, infatti, solo il 43,5% è stato avviato al riciclo, mentre il resto è finito negli inceneritori o nelle discariche. In parte perché sfuggito alla raccolta differenziata, in parte semplicemente perché difficile o impossibile da riciclare. Una montagna di imballaggi composti da strati di polimeri o materiali diversi, flaconi contenenti opacizzanti, pellicole di dimensioni troppo ridotte.

In gergo si chiama “plasmix”. Se si guardano solo i rifiuti della differenziata urbana, quelli gestiti dal consorzio per la raccolta e l’avvio al riciclo degli imballaggi plastici, Corepla, oggi i misti valgono oltre 324mila tonnellate su un totale di circa 1 milione di tonnellate raccolte, e sono in continuo aumento: nel 2017 sono cresciuti del 7% (nel 2016 del 15%). Bruciare il plasmix fa scomparire il problema, ma non lo risolve. Nei supermercati, è un tripudio di vaschette, vassoi, pellicole: secondo il “Monitor Ortofrutta” della società di ricerca Agroter, nella grande distribuzione le vendite di frutta e verdura confezionate, senza considerare la quarta e quinta gamma, sono aumentate negli ultimi due anni di sei punti, a fronte di una riduzione di 10 punti degli acquisti di prodotti sfusi. In nome della conservazione si lascia indietro la riciclabilità, stemperando le richieste stringenti all’industria. “Le grandi aziende che continuano a fare profitti con la plastica usa e getta sanno benissimo che è impossibile riciclarla tutta ma continuano a produrne sempre di più. È necessario che i grandi marchi si assumano le proprie responsabilità partendo proprio dalla riduzione dei quantitativi di plastica monouso immessi sul mercato”, dice Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia.

L’incenerimento, però, ha un prezzo. Secondo uno studio della fondazione Ellen MacArthur, impegnata nella promozione dell’economia circolare, gli imballaggi non riciclabili che entrano nel flusso della raccolta differenziata comportano costi aggiuntivi tra i 300 e i 350 dollari a tonnellata, rispetto a confezioni facili da riciclare. Un fattore economico non trascurabile che sta appesantendo anche i conti di Corepla. Il bilancio 2017 ha registrato perdite per 22 milioni di euro. Il consorzio oggi perde più di 380 euro per ogni tonnellata di raccolta differenziata gestita, una cifra che solo nel 2011 era sotto i 260 euro. Il punto quindi è che i ricavi delle vendite del materiale che Corepla prepara per il riciclo e poi mette sul mercato non bastano a coprire i costi di trattamento, tanto meno quelli per bruciare o smaltire in discarica gli imballaggi non riciclabili.

Che succederà? “I costi più importanti sono difficilmente contraibili, soprattutto alla luce del continuo aumento delle raccolte differenziate e non sono sotto il diretto controllo del consorzio”, fanno notare da Corepla, confermando il lavoro in corso su “cinque nuovi progetti di riciclo con notevole impegno del nostro settore R&D” per ridurre il problema del plasmix. Il deficit al momento però rimane. Il ministero dell’Ambiente, da parte sua, in questi anni non ha attuato nessuna azione concreta di riduzione. Nel 2013, l’allora ministro Andrea Orlando ha presentato un Piano di prevenzione, con l’obiettivo di ridurre i rifiuti urbani del 5% per unità di Pil entro il 2020, ma i dati, ha rilevato l’Ispra nel suo rapporto sui rifiuti urbani 2017, “indicano una sostanziale accoppiamento tra trend della produzione dei rifiuti e andamento degli indicatori socio-economici”. A oggi, spiegano dagli uffici del ministro dell’Ambiente Sergio Costa, “si sta lavorando alla scrittura di una legge che avrà come focus proprio la riduzione del consumo della plastica, in particolare usa e getta: piatti, bicchieri, cannucce. Specificamente per gli imballaggi, stiamo studiando un sistema legato alla leva fiscale, perché riteniamo che debba essere conveniente per il consumatore scegliere un prodotto con meno imballaggio, e allo stesso modo dovrà esserlo anche per le imprese”.

Il ministero però non era l’unico a dover mettere in campo azioni di riduzione. La legge italiana affida proprio al sistema dei consorzi Conai (conai.org), lo stesso che oggi soffre per la zavorra del plasmix, compiti di prevenzione dei rifiuti. Va ricordato che i consorzi, Corepla compreso, sono composti dagli stessi produttori degli imballaggi (che guadagnano sulla vendita di imballi in polimero vergine). “Negli anni ci sono state notevoli iniziative da parte di Conai, in particolare per cittadini e scolaresche, insieme a pubblicità televisiva, formazione e convegni. Tutte cose utili, ma è sempre mancata una strategia per incoraggiare le imprese produttrici di imballaggi a orientarsi verso soluzioni riutilizzabili o riciclabili. Il marketing e la sicurezza alimentare sono stati considerati prioritari rispetto alla componente ambientale”, riflette il presidente dell’associazione dei riciclatori della plastica (Assorimap), Walter Regis. “Il fine vita è solo uno degli elementi che un imballaggio è chiamato a soddisfare”, replicano dal consorzio della plastica, aggiungendo che “Corepla in verità non può imporre alle aziende le caratteristiche di produzione degli imballaggi. Siamo uno degli attori, possiamo informare, aiutare le aziende a fare scelte di sostenibilità, ma non possiamo imporre”.

“Le grandi aziende che continuano a fare profitti con plastica usa e getta sanno benissimo che è impossibile riciclarla tutta, ma continuano a produrne” – Greenpeace

Tra le principali iniziative messe in campo dal sistema Conai ci sono uno strumento online per valutare l’efficienza ambientale degli imballaggi, linee guida volontarie per imballaggi più facili da riciclare e un servizio di assistenza alla progettazione. “Rileviamo una crescente attenzione delle imprese verso la progettazione sostenibile del packaging. Ad esempio, dal 2006 al 2018 il peso medio della bottiglia in plastica è passato dai 31,5 grammi del 2000 ai 25 grammi di oggi, con una riduzione di circa il 20%”, spiegano da Conai. C’è anche un concorso per aziende virtuose sul fronte della prevenzione, in cui però nel 2016, fa notare un report dell’osservatorio indipendente europeo Ieep (Institute for Europen Environmental Policy), per la categoria del packaging in plastica è stato premiato “un imballaggio monouso che ha vinto perché richiudibile, piuttosto che riutilizzabile o riciclabile”. Solo il 5% delle azioni di prevenzione mappate da Conai tra il 2014 e il 2016 ha riguardato la facilitazione del riciclo. Per la Commissione europea, che lo scorso gennaio ha pubblicato la sua Strategia sulla plastica con l’obiettivo di azzerare entro il 2030 gli imballaggi non riciclabili, il nodo sta nel fatto che “allo stato attuale i produttori di articoli e imballaggi di plastica sono scarsamente incentivati, o non lo sono affatto, a tener conto delle esigenze di riciclaggio o di riutilizzo nella progettazione dei loro prodotti”. Aspetti che, se considerati, potrebbero invece “dimezzare il costo del riciclaggio degli imballaggi di plastica”.

Un esempio di incentivo efficace è il sistema di contribuzione a carico dei produttori e utilizzatori di imballaggi messo in piedi oltralpe da Citeo. L’equivalente francese di Conai applica penali del 100% per materiali impossibili da riciclare, uno tra tutti il Pet opaco. Anche Conai, come Citeo, finanzia le proprie attività con contributi a carico dei produttori e degli utilizzatori di imballaggi, ma solo quest’anno sono stati introdotti importi distinti in base al peso ambientale, con qualche dubbio sulla loro efficacia. La “piccola differenza tra le tariffe -sottolinea il rapporto Ieep- non è sufficiente a portare a un cambio significativo nelle pratiche industriali legate al packaging”, a cui si aggiunge il fatto che certi imballaggi da evitare vengono comunque incentivati: per fare un esempio, la bottiglia opaca scoraggiata in Francia nel nostro Paese è equiparata a quella in Pet trasparente riciclabile.

A complicare ulteriormente il quadro è il fattore mercato: “La domanda di plastica riciclata oggi rappresenta solo il 6% circa della domanda di plastica in Europa. Negli ultimi anni il settore del riciclaggio della plastica dell’Ue ha risentito dei prezzi bassi delle materie prime e delle incertezze in merito agli sbocchi di mercato”, scrive la Commissione nella sua strategia, riferendosi da una parte al prezzo basso del petrolio che in questi anni ha reso poco appetibile i polimeri rigenerati, e dall’altra alla mossa della Cina, che da inizio 2018 ha chiuso le frontiere a molte tipologie di scarti del resto del mondo. “Questo ha causato un improvviso eccesso di offerta di rifiuti in Europa e generato un effetto a cascata”, conferma Corepla. Sviluppi che, insiste l’esecutivo di Bruxelles, “rendono più urgente la necessità di sviluppare un mercato europeo della plastica riciclata”. Un discorso che vale ancora di più per il plasmix: “Al momento i pochi usi nel settore del riciclo sono di nicchia, e invece le quantità in gioco impongono l’individuazione di soluzioni strutturali. Da poco siamo stati invitati a partecipare a un tavolo tecnico-scientifico per trovare applicazioni, a cui cercheremo di dare il nostro contributo”, aggiunge il direttore dell’associazione di impianti di selezione rifiuti plastici (Assosele), Michele Rizzello. Il deputato Stefano Vignaroli ha proposto nella scorsa legislatura di introdurre incentivi per le aziende che volessero riciclare il plasmix e per gli acquisti di beni derivati da plastiche miste: alla fine, nella legge di Bilancio 2018 è stato previsto un credito d’imposta del 36% solo per queste ultime, ma l’agevolazione non è mai partita a causa di un decreto ministeriale mancante. In tema di plastiche biodegradabili e compostabili la situazione è complicata.

La loro adozione, evidenziava già l’Unep (il programma ambientale delle Nazioni Unite) nel 2015, “non porterà una diminuzione significativa né nella quantità di plastica che entra negli oceani né per quanto riguarda i rischi di impatti fisici e chimici sull’ambiente marino, sulle base delle attuali evidenze scientifiche”. Ricerche successive dell’università di Pisa hanno evidenziato come la degradazione nel mare di sacchetti in bioplastica duri più di sei mesi e alteri i sedimenti. Come sottolinea la stessa Commissione europea, “la maggior parte della plastica etichettata come biodegradabile generalmente si degrada in presenza di condizioni specifiche, che non sempre si presentano nell’ambiente naturale, e quindi può in ogni caso danneggiare gli ecosistemi”. Così, mentre la rete delle Agenzie europee per l’ambiente invita alla cautela e a una valutazione caso per caso prima di sostituire i polimeri fossili con plastiche a base vegetale, anche Bruxelles frena: “Potrebbe determinare un aumento della dispersione di materie plastiche e creare problemi per il riciclaggio meccanico”. Il rischio da evitare, insomma, è adottare un nuovo materiale ripetendo gli stessi errori del passato. Il bilancio di questi anni è magro. Misure che sostituiscono i sacchetti in plastica fossile con quelli biodegradabili pur in mancanza di dati chiari sugli effetti per l’ambiente naturale, e nessuna iniziativa di prevenzione dove c’era evidenza dei benefici. Lo stesso vuoto a rendere, in Italia, rimane un progetto sperimentale.

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