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Piccoli e obesi per uno spot – Ae 74

L’industria alimentare punta su chi ha meno di 12 anni: aumento dell’obesità infantile e marketing del “cibo spazzatura” con zuccheri e grassi in eccesso sono legati a filo doppio, come confermano gli studi più autorevoli. E intanto la legislazione arranca…

Tratto da Altreconomia 74 — Luglio/Agosto 2006

L’industria alimentare punta su chi ha meno di 12 anni: aumento dell’obesità infantile e marketing del “cibo spazzatura” con zuccheri e grassi in eccesso sono legati a filo doppio, come confermano gli studi più autorevoli. E intanto la legislazione arranca


I padri del “cibo spazzatura” vi risponderanno di no: non esiste alcun legame tra il marketing degli alimenti per bambini -e soprattutto del junk food ricco di zuccheri e grassi- e l’attuale epidemia di obesità. E ancora: non è vero che piazzare il junk food ad altezza bimbo sugli scaffali di un supermercato, o pagare profumatamente calciatori famosi perché pubblicizzino una bibita gassata, ne fa aumentare il consumo. Obiezione: ma allora perché produttori e distributori di cibo spazzatura investono tanti soldi nella loro promozione? Basti pensare che, soltanto negli Usa, si stima che l’industria alimentare spenda in pubblicità oltre 10 miliardi di dollari l’anno, e la maggior parte di questa spesa è concentrata su cibi non salutari. Ora fate le stesse domande a chi si occupa di salute pubblica, e le risposte saranno l’esatto contrario.

Ormai lo confermano voci più che autorevoli, come quella del prestigioso e indipendente Institute of Medicine statunitense, il cui ultimo rapporto (vedi box qui sotto) analizza i risultati di 123 studi sugli effetti del marketing degli alimenti per bambini concludendo che, bombardati dai messaggi pubblicitari, a partire dai 2 anni di età i bambini americani ricordano il nome dei prodotti, preferiscono gli spot del junk food, non danno requie ai genitori finché non acquistano i loro prodotti preferiti, e consumano junk food in proporzione all’intensità della pubblicità.

Tant’è che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha di recente convocato a Oslo una riunione di esperti da tutto il mondo per iniziare ad affrontare il problema e proporre soluzioni.

Le cause dell’obesità infantile sono molteplici, ma due sono davvero fondamentali: ci si muove poco e si mangia troppo e male. E per quanto riguarda l’alimentazione in particolare bisogna considerare anche la questione dei prezzi: 100 kilocalorie di biscotti ricchi di zuccheri e grassi costano da 8 a 10 centesimi di euro (e sfruttano grosse campagne pubblicitarie), al contrario 100 kilocalorie di mele e di pomodori ne costano in media 35 e 120 (e non godono di grande pubblicità). Poi c’è il problema dell’accessibilità: ricerche condotte in diversi Paesi mostrano che i negozi con una vasta scelta di cibi sani sono più concentrati nei quartieri più ricchi, mentre in quelli poveri i negozi sono strapieni di junk food, tanto che è stato coniato il termine di “aree urbane obesogeniche”.

In questa situazione complessiva si inserisce la promozione commerciale. Il marketing poggia su quattro pilastri, noti come le “quattro P”: prodotto, prezzo, piazzamento e pubblicità.

Al prodotto e al prezzo abbiamo già accennato. Per quanto riguarda il piazzamento, tutti i genitori che frequentano supermercati con i propri figli sanno che il junk food è sistemato alla portata dei bambini o vicino alle casse. La Società italiana di pediatria nel 2004 ha commissionato una ricerca da cui risulta che un bambino che guarda per due ore al giorno Italia 1 nella fascia oraria compresa tra le 15 e le 18 vede in un anno 31.500 spot pubblicitari.

Su Rai 3 ne vede 12-15 volte di meno, ma si tratta pur sempre di 2.000-2.500 spot all’anno. Almeno il 20% di questi spot riguarda il junk food. In Inghilterra, nella stessa fascia oraria, un bambino vede sei spot di alimenti ogni 30 minuti; a 18 anni avrà visto quasi 80 mila spot, l’80% dei quali per cibi con eccesso di zucchero, grassi e sale. E non c’è solo la televisione. Se fino a una decina d’anni fa il 90% della spesa pubblicitaria per il junk food era orientata verso questo canale, ora è diminuita al 75% circa e la tendenza è a un calo ulteriore. Sono altre le forme di pubblicità che stanno prendendo sempre più piede: sulla stampa, a scuola, nello sport, su internet, nascosta nei video giochi, con gli sms, o attraverso gruppi di coetanei pagati dalle aziende per diffondere informazioni sui prodotti senza che gli interlocutori capiscano che si tratta di pubblicità (il “marketing virale”).

Anche questo è “piazzamento”. Difficile trovare una soluzione buona per tutti. Le multinazionali del junk food e del marketing riconoscono il problema e propongono di risolverlo con l’autoregolamentazione, convogliando l’attenzione più sulla qualità che sulla quantità dei messaggi pubblicitari. Anche alcuni governi (gli Stati Uniti e Paesi dell’Unione Europea) favoriscono questa soluzione. Un tipo di approccio che però non funziona, come ha dimostrato una recente mappatura delle normative a livello mondiale: in nessuno dei Paesi dove l’industria ha favorito un codice di autoregolamentazione della pubblicità si sono avuti effetti positivi sull’alimentazione dei bambini. Vi sono state invece diminuzioni del consumo di junk food nei Paesi, tra quella cinquantina che ha delle leggi, con norme più rigorose: in Australia (proibita qualsiasi pubblicità di alimenti per i minoridi 14 anni), Olanda (bandita la pubblicità dei dolci per i minori di 12), Svezia (non è permesso usare personaggi dei cartoni animati per la pubblicità) e Norvegia (proibita qualsiasi forma di pubblicità rivolta ai bambini).

Purtroppo, la tendenza a imporre regole si diffonde soprattutto nei Paesi ricchi ed è lontana dal decollare in quelli poveri, alcuni dei quali (come Cina, India, Brasile e altri con un’economia di mercato in forte crescita) non solo rappresentano il far west per le multinazionali del junk food e del marketing, ma presentano anche le più alte velocità di crescita dell’epidemia di obesità. Ma dato che la pubblicità non ha frontiere, le leggi nazionali dovrebbero essere armonizzate a livello sovranazionale, com’è accaduto con il Codice internazionale sulla commercializzazione dei sostituti del latte materno, emanato nel 1981 da Organizzazione mondiale della sanità e Unicef per regolare il settore dei latti in polvere e alimenti er neonati (e che vieta, tra l’altro, ogni tipo di pubblicità e promozione commerciale al pubblico, la distribuzione di campioni gratuiti agli ospedali e agli operatori sanitari, omaggi alle donne in attesa, alle madri e a medici e infermieri). La legislazione dovrebbe essere accompagnata da accurati sistemi di monitoraggio, indipendenti da interessi commerciali, e da misure severe nei confronti delle industrie degli alimenti e del marketing colte in flagrante violazione della legge, nonché dei mezzi di comunicazione che si prestano al gioco. Sarà dura. Le potenti lobby delle multinazionali sono già al lavoro per evitare che tutto questo accada. Spetta ai cittadini esercitare la dovuta pressione perché i loro governi approvino leggi adeguate a proteggere la loro salute, e soprattutto quella dei bambini.

L’autore è membro di Ibfan Italia (International Baby Food Action Network)



E la pubblicità diventa un virus

Secondo l’ultimo rapporto dell’Institute of Medicine (Iom, www.iom.edu) il marketing degli alimenti per i bambini si rivolge intenzionalmente ai bambini più piccoli, sapendo che questi, fino a 12 anni circa, non riescono a distinguere la pubblicità dalla realtà. Alla fine, almeno il 30% della dieta di un bambino è costituita da junk food. Le bibite gassate e dolcificate possono arrivare al 10% dell’introito calorico, e ci sono bambini che arrivano ad ingerirne per 2.000 calorie al giorno. La loro spesa alimentare è valutata in circa 30 miliardi di dollari l’anno. Una torta a cui puntano in molti. Tra gli altri Kellogg’s, che nel 2004 ha speso 22,2 milioni di dollari per promuovere vendite per 139,8 milioni dei suoi nuovi crackers al formaggio, mentre McDonald’s ne ha spesi 528,8 per aumentare le sue vendite a 24,4 miliardi. La pubblicità televisiva si prende circa la metà del malloppo, ma è in calo. Le nuove strategie privilegiano il piazzamento dei prodotti in giochi, giocattoli, canzoni, cartoni animati, film e materiale educativo e attraverso il  “marketing virale”, che si diffonde come un virus una volta immesso in una comunità, senza ulteriori spese da parte dei produttori. Oltre i 12 anni, quando i ragazzi hanno già sviluppato la capacità di discriminare i contenuti commerciali e iniziano a considerare criticamente gli input che ricevono, le strategie pubblicitarie diventano molto più sofisticate. In generale tendono a legare gli adolescenti al “brand”, attraverso la promozione di stili di vita, mostrando personaggi famosi che usano quella marca.



Europa, cinque milioni sono gravi

Un terzo dei bambini italiani sono sovrappeso e un terzo di questi sono obesi, cioè il 10-12% del totale. E sono cifre destinate a crescere rapidamente. I più importanti ricercatori del settore stimano in oltre cinque milioni il numero di bambini europei con gravi forme di obesità, con problemi al cuore, al fegato, alle articolazioni e ad altri organi ed apparati, oltre naturalmente alle conseguenze psicologiche e sociali. Al tasso attuale, si prevede che possano crescere di oltre 300 mila ogni anno. I bambini in sovrappeso sono probabilmente oltre 20 milioni, e crescono di oltre un milione all’anno. Ma non basta. Come i malati di cuore, di mente o di qualsiasi altra infermità, come i fumatori e gli alcolisti, anche i bambini in sovrappeso non sono distribuiti equamente: in Italia e in Europa ci sono più obesi al Sud che al Nord, nelle famiglie con genitori poco istruiti, nelle classi sociali più povere.



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