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Inquinamento da Pfas: lo stato dell’arte delle analisi in Veneto

Nell’area di Vicenza, Verona e Padova, esposta alle sostanze chimiche della Miteni, vivono oltre 800mila persone. La Regione ha avviato un monitoraggio del sangue, ristretto a una “zona rossa”. Alcuni cittadini si sono organizzati in autonomia

Tratto da Altreconomia 206 — Luglio/Agosto 2018
Un’esposizione fuori dalla sede della Miteni spa a Trissino (VI) durante la manifestazione organizzata dal movimento No Pfas © Marta Covolato

Sulla valigia di Claudio c’è un adesivo giallo: “Stop Pfas”. E mentre siamo in attesa d’imbarcarci per Bruxelles, destinazione il Parlamento europeo, una signora si avvicina: “Posso chiederle cosa sono i Pfas?”. I composti chimici perfluoroalchilici -prodotti dal 1964 a Trissino (VI) dalla Miteni spa del gruppo International Chemical Investors– sono responsabili del viaggio del movimento No Pfas nel cuore delle istituzioni europee. L’obiettivo dei cittadini è il limite “zero Pfas” nell’acqua e nel sangue, in un momento cruciale per l’Ue da un punto di vista delle politiche idriche: la Commissione europea sta infatti discutendo la proposta di revisione della direttiva sulle acque potabili che, per la prima volta, potrebbe regolare i Pfas.

Delle 800mila persone che vivono nell’area inquinata tra le province di Vicenza, Verona e Padova, Claudio, che è un medico odontoiatra, risiede a Trissino (VI), uno dei 12 Comuni della così detta “zona arancio”, dove “sono stati rilevati superamenti di Pfas nelle captazioni autonome” a uso potabile -come scrive la Regione Veneto nella Dgr 691 del maggio 2018-. Questa deliberazione ha modificato il “Piano di sorveglianza sulla popolazione esposta alle sostanze perfluoroalchiliche” del dicembre 2016 (Dgr 2133/2016) ed esteso la “zona rossa”: l’area di massima esposizione sanitaria, che copre oggi 30 Comuni (prima erano 21), di cui 13 nella zona A -dove “è maggiore la concentrazione di sostanze perfluoroalchiliche nell’acqua potabile e nelle acque superficiali e sotterranee”- e 17 nella zona B -dove “la contaminazione delle acque superficiali e sotterranee è minore”-. “Per la prevenzione, diagnosi precoce e presa in carico delle patologie cronico-degenerative potenzialmente associate a Pfas”, la Regione ha avviato uno screening gratuito del sangue per gli abitanti nati tra il 1951 e il 2002, residenti nella zona rossa. Sono 84.852 persone e oggi, a un anno dall’inizio del monitoraggio, ne sono state analizzate 9.757 fino alla classe 1978, a partire dai più giovani. Gli ultimi dati diffusi dalla Regione, nel marzo 2018, dicono che “la concentrazione mediana di Pfoa nelle femmine è 38,2 ng/ml, mentre nei maschi è di 68,2 ng/ml”: superiori ai valori limite di riferimento che variano tra 1,5 e 8 ng/ml (a seconda del peso corporeo).

Allegato A della DGR 691 del 21 maggio 2018 – Regione Veneto

Ma chi non è residente nella zona rossa è escluso dal monitoraggio. Per questo Claudio ha scelto -con altri 100 cittadini “arancio”- di fare degli esami privati, pagando 200 euro per sapere la concentrazione di Pfas nel sangue suo e della figlia dodicenne. 17,6 ng di Pfoa per ml è il risultato: “Un dato alto per una zona che è definita ‘sicura’ dalle istituzioni”, osserva Claudio, che evidenzia i limiti del monitoraggio regionale, a partire dalle sostanze misurate dalle analisi. “Oggi la ricerca rileva 12 tipi di Pfas, sui 4.000 conosciuti, e si sta concentrando in particolare su due: Pfoa e Pfos, i più studiati dalla letteratura internazionale”. E che dal 2011 non sono più prodotti da Miteni. In questi decenni, infatti, le molecole sono state modificate e “quelli che oggi chiamiamo Pfas -strutture chimiche composte da atomi di carbonio e fluoro- sono stati sostituiti da nuove molecole più complesse, che contengono anche atomi di ossigeno”, spiega Laura del comitato “Zero Pfas Montagnana”, laureata in Chimica e tecnologia farmaceutica. Sono chiamati “Pfas emergenti” e nel nostro Paese non sono misurati. “Ci sono voluti due anni per definire i limiti di Pfoa e Pfos e nel frattempo l’industria ha prodotto nuove molecole che non sono ancora normate”. I numeri e i nomi riportati sulle magliette delle mamme No Pfas hanno fatto il giro del mondo: “Alexandra 94”, “Lorenzo 136,7”, “Maria 86,9”, “Francesca 328”. Sono i ng/ml di Pfoa dei loro figli, ma “su queste magliette leggiamo il dato di una singola sostanza, quando in realtà nel sangue abbiamo una sommatoria di sostanze con effetti dannosi per la salute”, osserva Laura che abita a Montagnana (PD, nella zona rossa A) da otto anni e ha sempre bevuto acqua in bottiglia. Forse per questo ha “solo” 7 ng/ml di Pfas nel sangue. “E ho avuto tre figli”, specifica. Le concentrazioni più alte di Pfas si riscontrano infatti negli uomini o nelle giovani donne senza figli, poiché le donne “eliminano una parte dei Pfas tramite il ciclo mestruale e li trasmettono ai figli attraverso la placenta”.

Anche il quartiere dove abito nella zona Ovest della città di Vicenza rientra nei confini della “zona arancio” e lo scorso aprile ho potuto fare delle analisi private, ma gratuite poiché promosse dal comitato Zero Pfas Agno Chiampo. Così altri 400 cittadini, tra i 20 e i 49 anni, residenti da almeno 5 anni nella zona arancio hanno avuto accesso al biomonitoraggio condotto dai Laboratori Giusto di Oderzo (TV) in sinergia con l’Istituto zooprofilattico sperimentale del Mezzogiorno, l’Istituto nazionale tumori “IRCCS – Fondazione Pascale” e l’Istituto nazionale malattie infettive “Lazzaro Spallanzani”, nell’ambito di uno studio nazionale più ampio sull’epatite E.

Michela, mamma No Pfas, durante la conferenza stampa sui Pfas al Parlamento europeo, il 19 giugno 2018 © Gruppo GUE/NGL

Mentre scrivo non ho ancora i risultati delle analisi, allora, per entrare in Parlamento europeo, Giancarlo mi presta la maglietta di suo nipote: “Massimo 154,3 ng/ml”, un diciottenne di Lonigo (VI) che studia al liceo scientifico. Anche Giancarlo, che ha 67 anni e da otto è diventato vegano per motivi di salute, abita in questo paese della zona rossa A: “Ho un pozzo privato e avevo fatto un grande investimento per fare un orto familiare con il metodo Organic Forest”, un tipo di agricoltura naturale ideato dal francese Michel Barbaud per produrre “vegetali ricchi di forze vitali” e il cui marchio è detenuto dalla Sorifav sas, che ha sede a Brendola (VI), nella zona rossa A. E a Lonigo ha sede Agri Lux, la società agricola dove Barbaud ha vissuto gli ultimi anni per sperimentare la sua tecnica. “Dopo aver predisposto l’impianto per l’irrigazione goccia a goccia, nel 2014 ho saputo che l’acqua del mio pozzo era gravemente inquinata dai Pfas”, racconta. Giancarlo, infatti, aveva aderito allora -a titolo volontario e dovendo pagare 90 euro- al monitoraggio promosso dal Comune sui pozzi privati. Suo figlio ha 42 anni e, anche se vive da ormai 20 fuori Regione per motivi di lavoro, è ancora residente a Lonigo ed è stato chiamato per lo screening gratuito. Le sue analisi del sangue -che devono ancora arrivare- faranno media con i valori di chi invece è residente. “Le analisi dovrebbero essere accompagnate da domande precise -dice Giancarlo-. Prima di tutto: abiti in questo Comune? Da quanto tempo? Hai abitato in un altro Comune?”. Lui, che si aspettava dei valori bassi di Pfas nel sangue, ha pagato per avere le analisi private: 160 ng/ml di Pfoa e 180 di Pfos il risultato. Ma, alla fine della pagina delle analisi, una scritta dice che il margine d’errore oscilla tra il +20% e il -20%. Non c’è certezza quando si parla di Pfas e, anche quando si hanno i dati in mano, “non ci sono terapie”, come sottolinea Michela, mamma No Pfas che ha una figlia di 16 anni, Maria, con i valori di 11 volte superiori alla norma. Anche per questo molte persone rifiutano l’invito a fare le analisi: “Preferiscono non sapere nulla, visto che comunque non gli sarà proposta alcuna soluzione”, dice Michela.

Oggi, uno degli obiettivi del movimento No Pfas è acquisire maggiori dati sulla concentrazione di Pfas nella filiera agricola. Sono ancora pochi i dati diffusi sugli alimenti inquinati: “Nel novembre 2017 la Regione Veneto ha reso pubbliche alcune criticità, in particolare nelle specie ittiche, nel fegato di suino e nelle uova di produzione familiare”, dice Marzia della ReteGas vicentina. Una porzione da 200 gr di pesce può contenere fino a 228 ng di Pfos, 200 gr di carne 586 ng, ma mancano ancora i dati georeferenziati. In altre parole: “Non sappiamo quale sia il contenuto di Pfas di un’insalata coltivata, per esempio, a Vicenza, piuttosto che a Lonigo. Il dato che abbiamo è una mediana di queste due analisi -spiega Michela-. Vogliamo dati precisi, per orientare i nostri acquisti verso una scelta salutare e chiedere tutele per gli agricoltori e le loro famiglie, che stanno subendo gravi danni”. Nel frattempo, in questa “piccola patria”, si sente l’eco del coro dei Crodaioli, guidati da Bepi De Marzi: “l’aqua zé morta disperà” e “tuti lo saveva”.


Pfas: salute e utilizzi
La letteratura epidemiologica riporta un’associazione tra esposizione alle sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) e alterazioni di tipo metabolico ed endocrino. In particolare, nei bambini e negli adolescenti è stato osservato un legame con l’aumento della colesterolemia, con gli indici di adiposità e con i disturbi della tiroide. Inoltre sembra correlato un aumento dei tumori al testicolo, al rene e al pancreas e l’insorgenza di problemi neurologici nei neonati.

In ambito industriale, i Pfas vengono utilizzati per la concia delle pelli, nel trattamento dei tappeti, nella produzione della carta e del cartone per uso alimentare, per rivestire le padelle antiaderenti, per realizzare tessuto tecnico idrorepellente e nella produzione di altri oggetti impermeabili.

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