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Petrolio, buono solo a tappare le orecchie – Ae 49

Numero 49, aprile 2004“Nessuno degli interventi finora effettuati nel settore minerario ha realmente contribuito a una riduzione della povertà”: la Banca mondiale non crede più agli oleodotti. Ma continua a finanziarliTra i grandi progetti più discussi in cui la Banca…

Tratto da Altreconomia 49 — Aprile 2004

Numero 49, aprile 2004

“Nessuno degli interventi finora effettuati nel settore minerario ha realmente contribuito a una riduzione della povertà”: la Banca mondiale non crede più agli oleodotti. Ma continua a finanziarli

T
ra i grandi progetti più discussi in cui la Banca mondiale si è impegnata negli ultimi anni figurano due imponenti oleodotti: il Chad-Cameroon e il Baku-Tbilisi-Ceyhan (Btc). Il primo, ormai terminato, porta l'oro nero dai campi petroliferi di Doba, nel Sud del Chad, a un terminale sull'Atlantico presso Kribi, in Cameroon, con un percorso di 1.070 km.

Il secondo, costruito quasi per metà, dovrà portare il petrolio di pozzi delle regione di Baku, in Azerbaijan, attraverso la Georgia e la Turchia, fino al porto mediterraneo di Ceyhan, con un percorso totale di 1768 km.

Due progetti fortemente avversati da ambientalisti e difensori dei diritti umani, ma che vengono presentati come strumenti indispensabili per favorire lo sviluppo dei Paesi interessati, che porteranno enormi benefici alle popolazioni sollevandole dalla povertà. L'oleodotto Chad-Cameroon viene anzi citato dai suoi promotori come un esempio del ruolo positivo della Banca mondiale in questi grandi progetti, supportato da piani dettagliati per garantire il rispetto dei diritti di tutte le popolazioni interessate, da impegni vincolanti sulle modalità di costruzione e di gestione degli introiti, e monitorato da commissioni e comitati più o meno indipendenti.

Ma la realtà è molto diversa, e a dirlo non sono solo i soliti new global, ma una commissione nominata proprio dalla Banca mondiale per valutare i progetti nel settore estrattivo e minerario.

La Extractive Industries Review (Eir), così si chiama la commissione, fu istituita da James Wolfensohn, presidente della Banca, nel settembre del 2000, e a presiederla fu chiamato Emil Salim, ex ministro dell'Ambiente indonesiano ed ex dirigente della più grande industria carbonifera di quel Paese. Il rapporto della commissione è stato reso pubblico l'11 dicembre dello scorso anno in un workshop a Lisbona, suscitando subito l'entusiasmo degli ambientalisti e delle ong, e pesanti critiche dei rappresentanti delle industrie petrolifere e minerarie, ma anche dello staff della stessa Banca mondiale, che pure lo aveva ordinato.

I tre anni di lavoro sono serviti per monitorare tutti i più importanti interventi della Banca mondiale nel settore minerario, ascoltando i rappresentanti dei Paesi e delle industrie coinvolti, ma anche quelli della società civile e delle comunità locali, e per consultare gli studi e i lavori accademici degli esperti. !!pagebreak!!

Il tutto è confluito in quattro grossi volumi, le cui conclusioni si possono riassumere in pochi punti:

1) La Banca mondiale può avere un ruolo nelle industrie estrattive e minerarie solo se queste contribuiscono ad alleviare la povertà attraverso uno sviluppo sostenibile, perché questo è il mandato istituzionale della Banca.

2) Nessuno degli interventi finora effettuati nel settore minerario ha realmente contribuito a una riduzione della povertà in modo sostenibile e su larga scala.

3) Se vuole adempiere al suo mandato di combattere la povertà, la Banca mondiale deve condizionare la concessione dei finanziamenti per questi interventi a condizioni di effettiva partecipazione democratica delle popolazioni coinvolte, sia nei processi di decisione relativi alla realizzazione delle opere previste che nell'accesso ai benefici economici da queste derivanti.

4) Le popolazioni coinvolte devono essere adeguatamente informate di tutti gli aspetti dei progetti e devono poter esprimere liberamente il loro assenso.

5) L'obiettivo deve esser uno sviluppo sostenibile, quindi nella produzione di combustibili fossili si deve tener conto del loro contributo all'emissione di gas serra e ai cambiamenti climatici che hanno effetti negativi soprattutto sui Paesi in via di sviluppo. Per questo la Banca mondiale deve evitare si sostenere progetti di estrazione del carbone e deve uscire dal settore petrolifero entro il 2008 (primo periodo degli accordi di Kyoto). Inoltre il contributo al settore delle energie rinnovabili dovrà passare, entro questo periodo, dall'attuale 6% degli investimenti della Banca nel settore energetico, al 20%.

Durante i lavori di Lisbona il dottor Salim è stato accusato di aver redatto un rapporto che rappresenta solo le sue opinioni personali, e non le posizioni degli azionisti della Banca, e di non aver cercato di raggiungere il consenso di tutti i soggetti consultati.

La risposta è stata che l'obiettivo del rapporto non era di mettere tutti d'accordo, ma di dire le cose come stanno. Ognuno poi trarrà le sue conclusioni e si prenderà le sue responsabilità.

Un documento dello staff dirigente della Banca pubblicato di recente cerca di contestare punto per punto le conclusioni del rapporto, in particolare per quanto riguarda l'abbandono dei finanziamenti nel settore petrolifero entro il 2008. L'argomento principale, utilizzato anche dai rappresentanti della grandi compagnie petrolifere, è che senza l'impegno della Banca mondiale i grandi progetti petroliferi continuerebbero lo stesso, ma con minori garanzie per il rispetto dei diritti umani e dell'ambiente, soprattutto nei Paesi più poveri. Un argomento che sa di ricatto, al quale si accompagna la constatazione che petrolio e carbone continueranno comunque ad essere le principali fonti energetiche ancora per molti anni. In questa visione le energie alternative non sono in grado di competere con le tradizionali fonti fossili e non possono fornire l'energia a basso costo di cui il mondo ha bisogno, e sarebbe controproducente utilizzare gli investimenti della Banca mondiale come leva per sostenerli.!!pagebreak!!

Per ora sembra che il rapporto sia stato messo in frigorifero, in attesa che il direttivo della Banca decida cosa farne, ma la decisione sembra scontata. Lo stanziamento di 250 milioni di dollari per finanziare l'oleodotto Btc, deciso alla fine dello scorso anno, indica chiaramente che non c'è nessuna intenzione di cambiare, ma l'ambizioso progetto di coinvolgere ambientalisti e ong in decisioni condivise è evidentemente fallito.

 

Il caso dell'oleodotto Chad-cameroon
La ricchezza che scivola via
L'Extractive Industries Review ha dedicato all'oleodotto Chad-Cameroon una attenzione particolare, visitando i cantieri e incontrando, oltre ai rappresentanti delle compagnie e ai funzionari della Banca mondiale, molti rappresentati della società civile dei due Paesi. I resoconti di questi incontri occupano molte pagine del rapporto e il quadro che emerge è scoraggiante.

Durante il processo di consultazione dei villaggi gli incontri con la popolazione sono spesso avvenuti alla presenza della polizia, che intimidiva chi sollevava obiezioni, e chi aveva in precedenza espresso opinioni contrarie è stato allontanato o arrestato.

Le promesse di posti di lavoro legati alla costruzione dell'oleodotto si sono tradotte in lavori occasionali, spesso senza contratti e senza assicurazioni sociali. I salari medi erano inferiori a quelli pagati normalmente nel settore petrolifero, e gli accordi stabiliti con le organizzazioni sindacali non sono stati rispettati. I subappalti sono stati per la maggior parte affidati a ditte straniere, senza ricadute quindi sulla piccola imprenditoria locale e per di più con contratti esenti da tasse.

Lungo tutto il percorso dell'oleodotto si è registrata una crescita della prostituzione e dei casi di Aids, con villaggi in cui l'incidenza della malattia ha raggiunto il 50% della popolazione adulta. Un rischio facilmente prevedibile ma contro i quale nulla è stato fatto, nonostante la Banca mondiale gestisca direttamente un progetto contro l'Aids nella regione.

In alcuni villaggi dove la gente ha protestato per i danni causati ai pozzi per l'acqua o ai campi, i sostenitori della protesta sono stati arrestati, accusati di essere dei ribelli e multati.

La momentanea disponibilità di denaro per chi lavorava all'oleodotto e la riduzione dei raccolti hanno prodotto una inflazione dei prezzi dei cereali che ha peggiorato le condizioni di vita della maggior parte della popolazione.

L'elenco potrebbe continuare, ma a tutte queste osservazioni gli uomini delle Banca mondiale rispondono dicendo che sono solo difficoltà momentanee che si sta cercando di affrontare, e scaricando la responsabilità sul governo inefficiente o sul Consorzio che ha costruito l'oleodotto per i ritardi e le manchevolezze. La promessa è che con l'arrivo delle entrate petrolifere ci saranno risorse per avviare programmi di sviluppo, per i quali il governo del Chad si è espressamente impegnato.

Ma anche su questo fronte i dubbi sono legittimi.

La Banca mondiale, forte del fatto che senza il suo contributo l'intero progetto non avrebbe potuto partire, ha imposto al governo del Chad di promulgare una legge sulla gestione delle entrate petrolifere. La legge, approvata nel 1998, viene continuamente citata dalla Banca come la prova che il suo impegno nel progetto era indispensabile per garantire un buon uso della ricchezza petrolifera del Chad, e un esempio da seguire in futuro.

Il testo prevede che il 10% delle entrate venga tenuto da parte per le generazioni future, da usare quando il petrolio quando sarà finito. L'80% del rimanente dovrà servire per specifici progetti di sviluppo nei settori della salute, dell'istruzione, delle infrastrutture e dell'agricoltura; un 5 per cento andrà alla regione di produzione del petrolio e il resto servirà per le spese amministrative e di supporto del progetto.

Sembra un buon punto di partenza, ma il problema è l'affidabilità del governo e la sua capacità di gestire un programma del genere. Secondo le previsioni, fatte su un prezzo del petrolio di 15 dollari al barile, Il governo del Chad incasserà, nei 25 anni di durata prevista del progetto, circa 2,5 miliardi di dollari. Una cifra indubbiamente notevole, e tanto più rilevante se si pensa che equivale in pratica a un raddoppio delle entrate statali rispetto ad oggi, ma che suddivisa per gli abitanti del Paese corrisponde a una dozzina di dollari all'anno ciascuno.

Se si vuole che questo soldi servano davvero per combattere la povertà occorre quindi usarli bene. !!pagebreak!!

Ma l'inizio non è promettente. Il governo del Chad è uno dei più corrotti del mondo, e già una parte del primo anticipo di 25 milioni di dollari sulle future entrate, ricevuto nel 2000, è stata spesa per l'acquisto di armi da impiegare contro i ribelli nel Nord del Paese.

Senza adeguati controlli democratici, che il governo non sembra in grado di garantire, è difficile pensare che il fiume di soldi in arrivo servirà davvero a combattere la povertà. Tanto più che la stessa legge approvata è ambigua su molti punti essenziali. Intanto si riferisce solo a royalties e dividendi, escludendo tutte le entrate che proverranno da tasse e dazi, e poi si limita al petrolio che verrà estratto dai tre campi nella zona di Doba, escludendo ogni altra ulteriore scoperta, mentre le ricerche sono già attive in una vasta area circostante, e coperte da segreto.

Le previsioni fatte su un prezzo del petrolio di 15 dollari al barile appaiono poi del tutto inadeguate visti i corsi attuali, ma nulla è previsto per gestire il maggior flusso di denaro, che potrebbe arrivare a oltre 8 miliardi di dollari, né è chiaro cosa si deve fare dei soldi che dovessero rimanere come residui non spesi dei programmi previsti, che per altro non sono ancora definiti con precisione.

Infine la legge è stata approvata, come dicevamo, prima dell'inizio dei lavori, nel 1998, e contiene la clausola che potrà essere rivista dopo cinque anni, cioè esattamente ora che il petrolio comincia a scorrere e i soldi stanno davvero arrivando.

Senza arrivare pensare che tutta la faccenda sia una enorme presa in giro, resta il fatto che, mentre i tempi di realizzazione dell'oleodotto sono stati rispettati alla lettera, ben poco è stato portato a termine degli ambiziosi programmi pensati per stabilire le condizioni di controllo, di partecipazione e di governance indispensabili a garantire che i suoi proventi servano davvero al popolo del Chad.!!pagebreak!!

La più grande infrastruttura energetica in Africa
L'oleodotto Chad-Cameroon (nella cartina) è la più grande infrastruttura energetica mai realizzata in Africa. Il Consorzio che lo gestisce è formato dalla ExxonMobil (40%), dalla società petrolifera della Malesia Petronas (35%) e dalla ChevronTexaco (25%), che hanno finanziato direttamente circa il 60% dei 3,7 miliardi di dollari di costi, mentre i due Paesi hanno contribuito per un 3%, accedendo a finanziamenti della Banca europea per lo sviluppo e della Banca mondiale oltre a vari altri finanziatori. Il restante 37 % è costituito da prestiti forniti da un consorzio internazionale di banche, guidato dalla Banca mondiale attraverso la International Finance Corporation, il braccio della Banca che si occupa di finanziamenti alle industrie private. La scoperta del petrolio in Chad risale agli anni '70, ma al guerra civile scoppiata nel Paese nel 1979 ne ha impedito lo sfruttamento fino alla fine degli anni '80, quando è stata firmata la convenzione che concedeva, per 30 anni, i diritti di sfruttamento dei capi petroliferi di Doba al Consorzio. Nel 1996 è stato firmato il trattato con il Cameroon per la costruzione dell'oleodotto e i lavori, iniziati nel 2000 sono terminati lo scorso anno con l'inaugurazione dell'oleodotto il 24 ottobre.

 

Le strategie dello sbocco mediterraneo
L'ambiente corrotto in riva al caspio
La costruzione dell'oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan è iniziata lo scorso anno, prima ancora che i piani di finanziamento fossero definiti, a sottolineare l'importanza politica prima ancora che economica, dell'opera. A motivarne la costruzione è infatti, innanzi tutto, l'interesse americano ed europeo per il petrolio del Caspio, e la volontà di gestire queste riserve senza dipendere da Russia e Iran. La costruzione di un oleodotto che eviti i territori di questi Stati portando il petrolio sul Mediterraneo è considerata strategica per garantire la sicurezza energetica dei Paesi occidentali, anche in vista della crescita dei consumi della Cina, ovviamente interessata ad accedere alle riserve di questa regione. Il consorzio dei costruttori è guidato dalla Bp, che detiene una quota del 30,1% e vede la partecipazione di una decina di compagnie, tra cui la nostra Eni con una quota del 5%.

I lavori stanno procedendo a tambur battente e dovrebbero terminare entro il 2005. Nel frattempo i piani di finanziamento sono stati definiti e sono state firmate le ultime convenzioni con Azerbaijan, Georgia e Turchia. Anche i finanziamenti che contribuiranno a coprire i costi previsti di circa 3 miliardi di dollari stanno arrivando: 250 milioni dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo e 310 milioni dalla Banca mondiale, oltre ad altri prestiti da un consorzio di banche di cui fanno parte i più grossi istituti di credito mondiale, compresa l'italiana Banca Intesa.

Come al solito la concessione dei prestiti è condizionata alla stesura di valutazioni di impatto ambientale e sociale esaurienti e impegnative, ma destinate a restare sulla carta.

In questo caso poi la situazione è ancora peggiore che in Chad. La corruzione in Azerbaijan è valutata dalla stessa Banca mondiale ancora più alta e la Georgia non sta molto meglio. Il coinvolgimento delle popolazioni interessate è stato praticamente nullo e anzi la Bp si è vista riconoscere una sorta di sovranità sulla fascia di territorio che circonda l'oleodotto, mentre le violazioni dei diritti umani nella regione sono stati ampiamente documentate da un rapporto di Amnesty International.

L'attraversamento di fiumi, montagne, zone desertiche e regioni considerate ad alto rischio sismico pone gravi problemi ambientali, e la vicinanza con zone di conflitto, come l'Alto Karabakh e l'Ossezia del Sud, mette l'oleodotto a rischio di attentati. Ma le obiezioni sollevate da molte parti non sono servite a fermare il progetto.

Eppure in questo caso le precedenti esperienze della Banca mondiale nella regione del Caspio avrebbero dovuto suggerire una certa prudenza.

Nel rapporto dell'Eir i casi dell'Azerbaijan e del vicino Kazakistan sono ampiamente citati come esempi di investimenti che non hanno portato alcun contributo utile a combattere la povertà, mentre hanno contribuito al degrado dell'ambiente e dei diritti umani nella regione nonostante i denari profusi in piani espressamente dedicati a questi scopi. Un caso eclatante è quello dei campi petroliferi di Sazan-Kurak, in Kazakistan, dove i degrado ambientale è ai massimi livelli e dove il responsabile degli impianti non sapeva nemmeno che la Banca aveva stanziato 20 milioni proprio per interventi volti ad evitare questo degrado.

Ma il problema più grave è che della ricchezza sottratta definitivamente dal sottosuolo nulla resta alle popolazioni locali.

L'Azerbaijan sarà presto attraversato da tre oleodotti che pomperanno ogni giorno oltre un milione di barili di petrolio, ma resta un paese in perenne crisi energetica, dove nei villaggi rurali non arriva nemmeno il gas, che le compagnie petrolifere preferiscono bruciare sulla cima dei pozzi, e dove per gli usi domestici si disboscano le foreste, tanto che il Paese è uno di quelli considerati a maggior rischio di desertificazione.!!pagebreak!!

Per approfondire
L'estrazione di petrolio, gas e minerali produce un flusso enorme di denaro che le compagnie estrattive versano ai governi di alcuni dei Paesi più poveri al mondo. Ma quasi sempre questa ricchezza alimenta la corruzione. Il 24 marzo l'ong Global Witness (che nel 2003 era stata segnalata per il Nobel per la pace per i suoi lavori sui “diamanti di sangue”) ha presentato un rapporto approfondito su 5 Paesi che documenta tutto ciò (
www.globalwitness.org). Una soluzione, anche abbastanza semplice, ci sarebbe: obbligare le compagnie, per legge, a pubblicare le voci di quanto pagano per le estrazioni. Che si tratti di una buona idea lo dimostra il fatto che il governo britannico aveva già lanciato un'iniziativa di questo genere, su base volontaria (www.dfid.gov.uk). Global Witness è uno dei 190 membri della campagna “Pubblicate ciò che pagate” (www.publishwhatyoupay.org) tesa ad ottenere trasparenza su tutti questi temi.

Il rapporto dell' Extractive Industries Review di cui si parla in queste pagine è invece su www.eirview.org.

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