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Economia / Attualità

Gli effetti dei cambiamenti climatici sull’indebitamento degli Stati. Il caso delle “piccole isole”

I danni provocati dal passaggio dell'uragano Tomas a Port-au-Prince, Haiti @ Photo/UNICEF/Marco Dormino

I micro-Stati insulari si trovano in una situazione paradossale: il loro stile di vita ha un impatto trascurabile sulle emissioni responsabili del climate change. Eppure, non solo ne pagano le conseguenze dirette, ma sono costretti a indebitarsi ulteriormente per ripagarne i danni. La denuncia di Jubilee Debt Campaign in occasione della Cop24

I piccoli Stati insulari (come Grenada, Haiti, Dominica o l’arcipelago di Vanuatu) sono tra quelli maggiormente esposti agli effetti disastrosi dei cambiamenti climatici sebbene contribuiscano in misura estremamente limitata alle emissioni di gas climalteranti. Non solo: diversi piccoli Paesi che già si trovano in condizioni di grave indebitamento finanziario, sono costretti a contrarre ulteriori debiti per far fronte ai danni provocati da uragani, tempeste tropicali ed esondazioni, È il caso, ad esempio, dell’arcipelago di Vanuatu, colpito nel 2015 dal ciclone Pam: il debito pubblico è passato dal 21% del prodotto interno lordo al 39%, appena due anni dopo. E non si tratta di un caso isolato: “Se prendiamo in considerazione le catastrofi che hanno provocato maggiori danni dal punto di vista economico nel corso del XXI secolo, a due anni di distanza il debito pubblico era aumentato nell’80% dei casi”, si legge nel report “Don’t owe, shouldn’t pay” pubblicato dalla “Jubilee Debt Campaign in occasione della Cop24 in programma in Polonia fino al 14 dicembre.

Focus della ricerca è la situazione in cui si trovano 29 Paesi che rientrano sotto la categoria di Small Island Developing States. Paesi che contribuiscono in maniera risibile ai cambiamenti climatici sotto forma di emissioni di anidride carbonica (appena lo 0,2% a livello globale) ma che già oggi e ancor più in futuro ne pagheranno duramente le conseguenze. Sia in termini di danni al territorio e alle infrastrutture, sia per quanto riguarda gli impatti sull’economia locale. A seguito dell’uragano Ivan nel 2004, ad esempio, l’isola di Grenada ha visto un crollo delle esportazioni di noce moscata, passate da una media di 2,5 milioni di chilogrammi l’anno (per un valore di 14 milioni di dollari) a solo 350mila chilogrammi nel 2008. Nel 2016 Grenada esportava 850mila chilogrammi di noce moscata (per un valore pari a 8 milioni di dollari), con un crollo del 66% rispetto ai livelli pre-2004.

“I disastri naturali incidono negativamente sul prodotto interno lordo e aumentano il debito pubblico -si legge nel report di Jubilee Debt Campaign-. Inoltre peggiorano la bilancia commerciale e rendono i Paesi maggiormente dipendenti dal debito estero”. La ricerca prende in considerazione 14 eventi climatici che hanno causato danni stimati superiori al 10% del èrodotto interno lordo nei rispettivi Paesi. Di questi, 13 sono stati registrati in Paesi che rientrano nella categoria di Small Island Developing States. In nove casi, a due anni di distanza dall’evento, il debito pubblico era aumentato. Talvolta in maniera considerevole. Il Belize -colpito da due devastanti tempeste nel 2000 e nel 2001- ha visto il proprio debito pubblico passare dal 47% del Pil (nel 1999) al 96% nel 2003. A Grenada, dopo il passaggio dell’uragano Ivan il debito pubblico è passato dall’80% al 96% del Pil. “Inoltre, l’aspettativa dei rischi climatici futuri sta già facendo aumentare il costo del debito per i Paesi più vulnerabili”, denuncia “Jubilee Debt Campaing” che, citando una ricerca dell’Imperial College Business School di Londra, evidenzia come “gli oneri per gli interessi supplementari potrebbero costare ai Paesi più vulnerabili 168 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni”.

I piccoli Stati insulari si trovano così in una situazione paradossale: il loro stile di vita ha un impatto trascurabile sulle emissioni di anidride carbonica responsabili dei cambiamenti climatici. Eppure, non solo ne pagano le conseguenze dirette, ma sono costrette a indebitarsi ulteriormente per ripagarne i danni. In base ai dati disponibili, il 40% del debito pubblico di 22 piccoli Stati insulari è detenuto da creditori privati, sotto forma di bond e il 35% da istituzioni multilaterali, il 20% da altri governi l’8% dalla Banca mondiale, il 6% è posseduto direttamente da banche commerciali e il 3% dal Fondo monetario internazionale.

Di fronte a questa situazione, “Jubilee Debt Campaign” ha chiesto un piano globale di riduzione del debito per i piccoli Stati per riportarlo a un livello sostenibile. “Il fatto che i Paesi più colpiti dal cambiamento climatico siano costretti a contrarre debiti per far fronte ai disastri che questo provoca è immorale”, commenta la direttrice di Jubilee Debt Campaign, Sarah-Jayne Clifton. Per fare fronte a questa situazione, l’associazione ha proposto inoltre che per questi Paesi venga attivato un meccanismo di riduzione del debito che lo riporti a un livello sostenibile. “Infine -conclude Sarah-Jayne Clifton- serve un processo automatico per risolvere il problema del debito subito dopo il verificarsi di queste catastrofi, per fare in modo che i Paesi colpiti non siano bloccati in un circolo vizioso in cui gli effetti sempre più gravi del cambiamento climatico peggiorano la situazione debitoria”.

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