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Ambiente / Reportage

Storie di pescatori che osservano il clima (e il mare) che cambia

I pescatori di Manfredonia raccolgono spesso rifiuti di plastica e altri materiali durante le battute di pesca. Ma trasportarli a riva è rischioso per via delle sanzioni. Inoltre sono costretti a pagare i costi di smaltimento © Federico Ambrosini

Michele raccoglie quintali di rifiuti plastici dai fondali, Salvatore nota il proliferare di specie aliene che prosperano in acque sempre più calde riducendo gli stock ittici autoctoni. Le voci di un mestiere in via di estinzione

Tratto da Altreconomia 239 — Luglio/Agosto 2021

Il mare non è più lo stesso. È da tempo che la vecchia guardia, i pescatori che abitano le distese salate del Mediterraneo, si è accorta che c’è qualcosa che non va: uno squilibrio nella bilancia dell’ecosistema sta modificando la natura dei fondali. Su uno dei piccoli pescherecci ormeggiati al porto della città pugliese di Manfredonia (FG), Michele Conoscitore mostra il telone ingrigito che ha da poco ripescato dal mare: un enorme pezzo di plastica che si stava disfacendo tra le onde. Si è accorto da molto che la situazione del Mediterraneo è a un punto di non ritorno. La maggior parte del tempo sulla terraferma lo passa a discutere con altri pescatori: parlano di plastiche che riempiono i fondali, delle quote europee per la pesca nel Mediterraneo e delle grandi industrie peschiere che dominano il mercato mondiale. Ogni volta che prendono il largo dal porto, toccano con mano gli effetti della crisi climatica, della pesca intensiva e dell’inquinamento umano. Nei decenni sono stati i pescatori le vedette della crisi ambientale in mare. A Manfredonia, durante i vent’anni in cui era attivo il petrolchimico ex-EniChem, un mostro industriale che fino agli anni Novanta ha avvelenato terra e mare, le reti dei pescatori catturavano grovigli di alghe filamentose, la possibile conseguenza dell’eutrofizzazione delle acque causate da scarichi illeciti. Oggi, dopo più di vent’anni di inattività dell’impianto, le alghe sono sparite, ma gli stock ittici scarseggiano e sono le plastiche ad appesantire le reti. 

Michele con la sua imbarcazione raccoglie quintali di rifiuti dai fondali: vecchie calze degli allevamenti di cozze, reti di plastica, flaconi di detersivi. Si mescolano al poco pesce che riesce a catturare. Da qualche anno cerca di portarli sulla terraferma per farli smaltire, ma trasportare a riva le plastiche recuperate in mare è rischioso per i pescatori, che vengono sanzionati o costretti a pagare i costi di smaltimento. Succede in molti Comuni e Regioni d’Italia: in mancanza di un piano di gestione nazionale, come la legge “SalvaMare” da tempo ferma al Senato, quello che viene recuperato dal mare viene considerato rifiuto speciale dalla normativa vigente. Grazie al lavoro di alcune associazioni, in porti come quelli di Civitanova Marche (MC) e Civitavecchia (RM), i rifiuti portati a riva vengono presi in consegna da enti preposti al loro smaltimento: così i pescatori possono scegliere di non rigettare in mare le plastiche che “catturano” con le loro reti.

In giro per l’Italia si trovano diverse realtà portuali in cui piccole frazioni o cooperative di pescatori mettono insieme una pratica di pulizia dei fondali aderendo a degli standard di pesca. Ad Acciaroli (SA), nel Cilento, dove la pulizia dei fondali si pratica da dieci anni, solo nel 2011 i pescherecci hanno raccolto 60mila chilogrammi di plastica e alluminio: “Una media di 50 chilogrammi a barca -spiega Dario Vassallo presidente della fondazione intitolata al fratello Angelo, assassinato nel 2010-. Oggi di plastica se ne recupera molta meno, anche perché di pescherecci ad Acciaroli ne sono rimasti solo cinque. Nel giro di vent’anni non ne resterà nemmeno uno”. 

Tutti parlano di un mestiere in via d’estinzione, ma nei ricordi dei pescatori c’è impressa la storia di distruzione di un ecosistema. Nell’infanzia di Sandro Scipione, quando ancora non faceva il pescatore e il mare di Civitavecchia lo scopriva nelle reti del padre, c’è il sapore della nafta che punge la bocca addentando un cefalo e l’asciugamano recuperato dalla battigia che rimane macchiato di catrame dopo una giornata in spiaggia. “Lo chiamavamo black: erano gli anni Settanta e avevo undici anni. Era il prodotto degli scarichi, delle taniche delle navi e del gasolio pesante”. Oggi che i cefali non hanno più il sapore di benzina, è il cambiamento climatico a mandare in confusione l’ecosistema: l’aumento della temperatura delle acque ha portato persino i gamberi a Civitavecchia.

“Il Mediterraneo sta vivendo una serie di cambiamenti legati al modificarsi dell’habitat marino anche a causa del riscaldamento -spiega Francesco Colloca, ricercatore del dipartimento di Ecologia marina integrata della stazione zoologica ‘Anton Dohrn’-. In alcune aree, le specie tradizionali della pesca diminuiscono mentre subentrano specie non-indigene che hanno spesso un effetto negativo sull’ecosistema. Arrivano nelle acque di zavorra delle navi o attraverso il canale di Suez, e grazie al riscaldamento delle acque stanno trovando un habitat sempre più idoneo, in particolare nel bacino di Levante. Così il cambiamento climatico, insieme all’arrivo di nuove specie, sta determinando un rapido mutamento nelle comunità ittiche e nel pescato delle flotte di pesca”. 

60mila chilogrammi di plastica e alluminio raccolti dai pescatori di Acciaroli (SA) solo nel corso del 2011

Anche nel mare di Salina (ME), tra le insenature della costa e i profili montuosi delle terre isolane di Sicilia, Salvatore Follone ha notato che da un paio d’anni, alla moria di pesci è seguita la comparsa di nuove specie aliene tra le coste del Sud Italia, come il vermocane, un verme nocivo per la biodiversità. “Nell’isola non c’è molto inquinamento, non ci sono fiumi o industrie. Ma se cambia il clima, cambia pure qua”, racconta Salvatore, che ha 72 anni ed esce in mare a Salina con suo padre da quando ne aveva otto. Appena finita la Seconda guerra mondiale, era un bambino che usciva in barca a remi di notte per imparare il mestiere, ma poi si addormentava sul banco di scuola. Di quel periodo ricorda i quintali di pesce che catturava con il padre e quella volta in cui si è svegliato dopo il suono della campanella in una classe vuota perché nessuno l’aveva destato. 

Un tempo i pescatori dell’isola siciliana gettavano le reti a Secca del Capo, una zona a circa tre miglia da Salina; ma Salvatore racconta che ora è costretto a fare la spola tra diverse zone di pesca solo per due chilogrammi di pescato: “Adesso di pesce non ce n’è abbastanza neanche per il paese”, racconta confessando che fra un paio di anni abbandonerà la vita in barca. Oggi pratica una piccola pesca artigianale che la gente del posto si tramanda di padre in figlio da generazioni. 

70mila imbarcazioni, governate da circa 200mila pescatori, attraversano il Mediterraneo. La maggior parte sono coinvolti nel settore della piccola pesca

Dal momento che il pesce scarseggia, i pescatori artigianali di queste roccaforti isolane hanno creato una comunità che, con la collaborazione di Blue marine foundation, aderisce a un codice di condotta di pesca locale nel tentativo di dare respiro agli stock ittici delle Eolie. “Con oltre 70mila imbarcazioni e 200mila pescatori, il Mediterraneo resta una realtà di pesca importante, con la maggior parte dei pescatori coinvolti nel settore della piccola pesca -spiega ancora Colloca-. Ma in Italia, da metà degli anni Ottanta, il numero dei pescatori si è dimezzato e la pesca artigianale è spesso la prima a sparire”. 

Sono bestie mitologiche, i pescatori: salpano di notte e scompaiono per giorni, e alla fine delle loro giornate hanno speso più tempo in mare che sulla terraferma. Sono testimoni del crollo di un ecosistema di cui anche loro fanno parte; ma tra l’aumento delle plastiche e la perdita di biodiversità marina, anche la figura del piccolo pescatore si sta estinguendo. “Per fare il pescatore non c’è una scuola: io ho imparato da mio padre che mi portava nel mare di Salina”, racconta Salvatore. 

I pescatori come Michele, Sandro e Salvatore stanno scomparendo perché non c’è ricambio generazionale: i loro figli, per la prima volta dopo generazioni, non faranno i pescatori. È un settore meno redditizio per la penuria di pesce e le normative sovranazionali a favore della globalizzazione del mercato e della pesca industriale. Eppure, per il legame di vita che hanno con il mare, rappresentano gli ultimi difensori dell’ecosistema marino contro un mercato globale intensivo. 

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