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Perché un reddito minimo di inserimento

"Il Reddito Minimo (Rm) o reddito di esistenza, reddito di base o ancora reddito di ultima istanza, in qualunque modo lo si chiami, è uno strumento di giustizia sociale volto a garantire a tutti il diritto all’esistenza e consiste in un reddito incondizionato versato da una comunità politica a tutti i suoi membri su base individuale"

Se parliamo di riforma del welfare viene in mente il dibattito nato intorno al concetto di Reddito Minimo. Cos’è e che importanza ha questo strumento nel contesto odierno dominato dall’incertezza economica?
I cittadini italiani si trovano a fare i conti con l’assenza di un sistema di protezione sociale equilibrato, unico argine per le fasce di popolazione più in difficoltà dinanzi a un progressivo e diffuso impoverimento. In particolare il nostro Paese si piazza ai primissimi posti in Europa per quanto riguarda la disoccupazione giovanile (al 27,9 % secondo le rilevazioni dell’Ocse del settembre 2011, nda). In una situazione così drammatica i diversi modelli di welfare, incrociandosi con la disastrosa crisi finanziaria, hanno un impatto potenzialmente devastante sulle famiglie, sui disoccupati ma anche su tutti i lavoratori non stabilizzati, in massima parte precari. Ciò avviene soprattutto laddove – come in Italia – questi ultimi devono caricarsi non solo del maggiore costo del lavoro e di un grave deficit di garanzie, ma persino subire la beffa di vedere i propri contributi utilizzati per il pagamento delle sempre più gravose pensioni aumentando il rischio di un insopportabile conflitto generazionale. Proprio le pensioni assorbono in Italia più del 60% della spesa destinata al sociale contro una media europea del 45%.
Il Reddito Minimo (Rm) o reddito di esistenza, reddito di base o ancora reddito di ultima istanza, in qualunque modo lo si chiami, è uno strumento di giustizia sociale volto a garantire a tutti il diritto all’esistenza e consiste in un reddito incondizionato versato da una comunità politica a tutti i suoi membri su base individuale.

In che senso verrebbe “versato su base individuale”? Come verrebbe finanziato?
Innanzitutto ho usato nomi diversi non a caso perché il Rm consiste in una varietà di misure e di possibilità diverse a seconda dell’assetto istituzionale. L’erogazione può avvenire direttamente dallo Stato Centrale o da enti locali, a seconda della suddivisione delle competenze.
Prendendo ad esempio alcuni stati membri europei, possiamo distinguere tra Paesi in cui il Rm è una misura generale e onnicomprensiva (è cioè la misura cardine di sicurezza sociale e riguarda tutte le categorie in stato di bisogno) da Stati in cui il Rm si configura come reddito di ultima istanza per tutti coloro che non hanno la possibilità di beneficiare di programmi di assistenza dedicati. Anche a un’analisi superficiale della gestione della spesa pubblica italiana è chiaro come, in controtendenza con la quasi totalità del resto della UE, il welfare italiano sia doppiamente distorto per quanto concerne la redistribuzione delle tutele e l’impiego delle risorse.

Perciò in Italia non è previsto un Reddito Minimo…
No. Assieme alla Grecia, l’Italia resta l’unico Stato Membro privo di uno schema di Rm nazionale. In verità, già nel 1997 la Commissione Onofri evidenziava tale anomalia e invitava il Governo a provvedere all’istituzione di un Minimo Vitale per  costituire “una rete di protezione a cui qualsiasi cittadino, indipendentemente dal  genere, dalla  classe  sociale, dalla  professione possa accedere per trovare un sostegno economico e/o l’offerta di opportunità e servizi per uscire dallo stato di bisogno”. L’obiettivo ambizioso era quello di rifondare le basi della cittadinanza sociale, uscendo dalla logica strettamente assistenziale dei contributi. L’orientamento della Commissione fu raccolto dal Dlgs 237/98 che per legge dava il via alla sperimentazione in 39 comuni italiani del Reddito Minimo d’Inserimento (RMI). Tale sperimentazione non si tradusse poi in nuovi interventi sul piano nazionale anche a causa del cambio di Governo che nel 2001 vide eleggere una maggioranza di diverso colore politico. Il nuovo Governo istituì in sostituzione del RMI una misura molto meno coraggiosa, il Reddito di Ultima Istanza (Rui). Il Rui era una misura residuale che lo Stato avrebbe cofinanziato di concerto con le Regioni ma di tali investimenti statali non vi è stata traccia.

Invece di recente ci sono state delle aperture?
Il neo-Ministro del Lavoro Elsa Fornero ha parlato, seppur in modo ancora poco convincente, di Reddito Minimo Garantito. Staremo a vedere quali sono le intenzioni di questo nuovo Governo. Intanto le istituzioni europee – che pagano lo scotto di un’accelerazione nell’unificazione del mercato unico che ha però lasciato indietro la coesione sociale – hanno spesso posto al centro delle proprie raccomandazioni il Rm fino a renderlo, recentemente, oggetto di una risoluzione ad hoc del Parlamento Europeo.
La questione principale, in Italia, è che si dovrebbero dapprima riequilibrare le risorse destinate al sociale, per il momento sbilanciate verso le pensioni, per ottenere un quadro della situazione più chiaro. E per farlo è necessario che le riforme previdenziali e della contrattazione sul lavoro vadano di pari passo altrimenti il bassissimo tasso di transizione da contratti a termine a contratti indeterminati continuerà ad alimentare la “trappola della precarietà”, sempre più dannosa a causa della durata indefinita cui espone i lavori precari, che sono quelli che andranno a gravare sulle pensioni e/o sui redditi dei famigliari più anziani. Allo Stato, per logica, conviene aumentare l’inclusione sociale di questa fascia di lavoratori.

Ma non è quello che già stanno facendo gli ammortizzatori sociali o gli indennizzi di disoccupazione?
Di questi se ne fa un uso distorto. La spesa sociale deve essere considerata prima di tutto una spesa attiva e non passiva. Dopodiché la protezione sociale deve in primo luogo evitare di “assistere” il lavoratore (come la maggior parte delle Casse Integrazioni) affinché non sia un peso per la società e dall’altra deve garantire un reddito anche a quelli per i quali il lavoro non c’è e non solo a chi lo ha perso. Insomma, perseguendo il fine di un mercato iper-flessibile – che da solo avrebbe dovuto porre rimedio ai suoi stessi danni – e utilizzando processi che scaricano i costi delle supposte “riforme” sul lavoro, la ricalibrazione della rete di protezione é stata prima rinviata e poi abbandonata. Parlare di riforma del welfare, in un periodo di crisi e incertezze così gravi, non è mai stato più urgente di adesso.
 

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