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Finanza / Opinioni

Perché il declassamento del debito statunitense è un segnale forte

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump © Annabelle Gordon / Sipa Usa / Ipa

Per la prima volta dal 1919 il debito federale degli Stati Uniti non ha più la tripla “A” delle agenzie di rating, legate a doppio filo con i grandi gestori del risparmio internazionale come BlackRock. È un problema per Donald Trump che dovrà trovare a breve compratori per novemila miliardi di dollari di titoli in scadenza. La guerra intestina del capitalismo finanziario è in corso e lascerà macerie. L’analisi di Alessandro Volpi

Per la prima volta dal 1919 il debito federale degli Stati Uniti non ha più la tripla “A” delle agenzie di rating. È un segnale forte che va in una duplice direzione. La prima è rintracciabile nelle dimensioni ormai colossali di quel debito. Una montagna di 37mila miliardi di dollari, con un dollaro debole e senza disporre della più grande economia produttiva del mondo, mette gli Stati Uniti in una condizione assai pericolosa, tanto da non essere più il centro sicuro del capitalismo.  

La seconda direzione ha a che fare con i “valutatori”. Le agenzie di rating, come abbiamo scritto più volte su Altreconomia, sono legate mani e piedi ai tre grandi fondi finanziari Vanguard, BlackRock e State Street, il cui scontro con Donald Trump ormai è feroce, a tal punto da mettere a rischio persino il cardine della tenuta Usa, costituito proprio dal debito federale.

Il capitalismo finanziario ha bisogno del potere politico che, a sua volta, ormai svuotato di ogni vera possibilità di politica economica, non può fare a meno della legittimazione finanziaria, soprattutto in presenza di una debolezza strutturale degli Stati Uniti.  

Nonostante l’accordo, temporaneo, con la Cina, i rendimenti dei titoli di Stato statunitensi continuano a salire, a dimostrazione, appunto, che la situazione del debito federale, e più in generale, del dollaro e dell’economia americana è profondamente critica. Entro la fine dell’anno, il Tesoro americano deve collocare titoli in scadenza per novemila miliardi di dollari. Si tratta di una pesante eredità lasciata dai Democratici, da Joe Biden e dalla sua segretaria al Tesoro Janet Yellen, che hanno imbottito il debito Usa di titoli a breve scadenza per evitare di ingolfare le scadenze più lunghe, destinate, nel caso di una eccessiva produzione di titoli decennali e di trentennali, a perdere la condizione di naturale rifugio. Hanno scelto così di indebitarsi a breve, con un costo altissimo e con l’esigenza, appunto, di continui rinnovi. In pratica, i Democratici hanno nascosto la polvere sotto il tappeto e hanno favorito le disastrose politiche degli alti tassi praticati dalla Federal reserve, favorevoli solo alle già citate Big three.  

Ora Trump deve trovare compratori per novemila miliardi, subendo il ricatto delle stesse Big three, grandi detentrici di debito federale, e non riuscendo a convincere alcun Paese estero a fidarsi del debito americano: anche perché, a differenza di quello che pensa qualche ameno commentatore italiano, gli Stati hanno ben poche possibilità di comprare grosse partite di questo debito.  

In questo senso, le furbizie di Biden e Yellen possono provocare un crollo degli Stati Uniti se Trump non accetta una totale sottomissione ai fondi della grande finanza che, comunque, dato il disastro in essere, pare decisamente non bastare e la situazione può essere ulteriormente aggravata proprio dal declassamento, utilizzato dalle agenzie come pericoloso strumento di pressione.  

Forse non a caso, in un clima di questo tipo,  Trump è sbarcato in Arabia Saudita accompagnato dai vertici dei fondi capitanati da un sorridente Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, e poi da quelli delle Big Tech, con Sam Altman, Jensen Huang ed Elon Musk in bella vista, e da vari altri pezzi del capitalismo statunitense tra cui compare persino John Elkann.

L’obiettivo del presidente degli Stati Uniti è chiaro: ottenere circa 2.500 miliardi di dollari di investimenti, in una decina di anni, da questi Paesi per finanziare l’industria delle armi e quella delle tecnologie, garantendo, al contempo, a BlackRock e compagnia la gestione del ricco risparmio di sauditi ed emiratini, da indirizzare in buona misura, attraverso gli stessi fondi verso il debito Usa.  

La politica estera diventa così per Trump lo strumento per superare le tensioni interne alla finanza di casa, soprattutto, per compattarla sotto le sue insegne, in nome della difesa del debito declassato. Nel frattempo, Larry Fink riceverà quest’anno dalla sua società una retribuzione complessiva di quasi 37 milioni di dollari, che lo rendono il manager più pagato al mondo. Questa retribuzione gli verrà “versata” anche di fronte a un voto contrario dell’assemblea degli azionisti che ha solo un valore consultivo. Nel 2024 Fink, di milioni, ne aveva guadagnati 31 e nel 2023 poco più di 26. Quasi 100 milioni di dollari in tre anni, che si aggiungono a un patrimonio di oltre 1,3 miliardi di dollari, in larga misura composti da azioni di BlackRock -ne possiede quasi 500mila- e da altri titoli di società “collegate”.  

La fortuna di Fink dipende dai risparmi globali, compresi quelli di qualche milione di italiani, ma di imposte in Italia “mister Fink”, con residenza fiscale tra New York e la California, non ne paga. Qualcuno dirà che è normale, essendo cittadino americano. Ma non è affatto giusto: abbiamo bisogno di regole fiscali che leghino le retribuzioni finanziarie ai luoghi dove si genera la fortuna di quelle retribuzioni. Soprattutto abbiamo bisogno di disintossicarci dalla finanza nel momento in cui le sue guerre intestine, condotte a colpi di rating decisamente strumentali stanno per farla esplodere.  

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. Il suo ultimo libro è “Nelle mani dei fondi” (Altreconomia, 2024)

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