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Economia

Perché dallo Yemen

Decine di migliaia di profughi, in fuga da Mogadiscio in guerra, trovano rifugio nello Stato arabo, finito in prima pagina perché forma i terroristi  La piccola Rachida Ahmed, sette mesi, è avvolta in un panno rosso carminio. Non smette di…

Tratto da Altreconomia 113 — Febbraio 2010

Decine di migliaia di profughi, in fuga da Mogadiscio in guerra, trovano rifugio nello Stato arabo, finito in prima pagina perché forma i terroristi 

La piccola Rachida Ahmed, sette mesi, è avvolta in un panno rosso carminio. Non smette di strillare dopo ventisei ore di mare. “Ha la febbre. Durante la traversata entravano le onde, non riuscivo a proteggerla”, si lamenta sua madre. Sono sbarcate nello Yemen un paio d’ore fa all’alba, sulla spiaggia di Ampus Coast. “La mia famiglia è stata distrutta da una granata a Mogadiscio” aggiunge. Insieme a loro, hanno viaggiato una sessantina di altri somali. “Stavamo impacchettati l’uno sull’altro, non ci si poteva muovere”, racconta Mohammed, che indossa una maglietta stropicciata del Chelsea. In questo mare s’incrociano due tra le rotte più trafficate del mondo: quella dei quasi 20mila mercantili commerciali diretti verso il Mediterraneo. E quella dei profughi diretti verso la Penisola arabica. Quasi 75mila somali ed etiopi l’hanno percorsa nel 2009: una fuga che non ha eguali sul pianeta. “Se temono l’arrivo della guardia costiera, i trafficanti gettano a mare il loro carico umano” dice Said Hajj Mohammed, dell’organizzazione locale Shs, che offre assistenza ai profughi. A Rachida e alla sua mamma è andata bene, ma l’anno scorso 376 tra migranti non sono arrivati sulla spiaggia. O vi sono giunti cadaveri. Gli altri, i sopravvissuti, ricevono una primissima assistenza in una sorta di grande capannone vicino al litorale. Seguiamo il loro tragitto: partiti da Elayo, la capitale dell’esodo somalo vicino alla città di Bossasso, sono sbarcati sulla costa yemenita non lontano da qui. Due camion li trasportano al “centro di transito” dell’Onu a Mayfaa, una trentina di chilometri verso l’interno. Tra loro, c’è Noura Mohammed Hassin. Ha 18 anni ma ne dimostra quattordici. Viveva a Burhakaba, non lontano da Mogadiscio, in una zona controllata dalle milizie integraliste. Ha pagato 120 dollari agli scafisti. Ora vuole proseguire verso l’Arabia Saudita: “Mia zia ha trovato lavoro a Gedda, la raggiungo”. Diventerà una donna delle pulizie: “Mi va bene qualsiasi impiego, pur di non restare in Somalia” insiste. Alima Issak, 40 anni, invece dall’Arabia Saudita è già stata rimandata a casa. Lavorava a Riad come colf. “La polizia mi ha arrestato e deportato a Mogadiscio”. Stavolta si fermerà a cercare lavoro nello Yemen: “Mi fermo qui, perché al confine con l’Arabia c’è la guerra, non si può passare”. I profughi somali sanno quello che in Europa molti ignorano. Cioè che a ridosso della frontiera araba è in corso una guerra tra esercito dello Yemen e ribelli sciiti della minoranza zaidita. Non fanno notizia nemmeno i circa 200mila profughi yemeniti provocati da quel conflitto. Da noi, si preferisce parlare di al-Qaeda. Una presenza non nuova che improvvisamente catapulta lo Yemen sulle prime pagine per il fallito attentato sul volo Amsterdam-Detroit. L’autore, il nigeriano Umar Farouk Abdul Mutallab, avrebbe ricevuto formazione e ordigni proprio qui. “Aspettando il bombardamento americano” titola un quotidiano italiano a fine dicembre 2009. Le bombe non arrivano. Altri bombardamenti, quelli veri dell’Arabia Saudita, incuriosiscono meno. Forse perché proteggono la cassaforte planetaria del petrolio, che serve a tutti.
Mayfaa è comunque solo la prima tappa per chi lascia il Corno d’Africa. Qui riceve un piatto caldo, un materasso e soprattutto la possibilità di richiedere asilo. I somali, per scelta del governo yemenita, sono immediatamente riconosciuti come rifugiati. Gli etiopi no, ed entro dieci giorni diventano illegali se non si registrano. La maggior parte non si fa identificare e “sparisce”, anche per le statistiche Onu, con l’obiettivo di raggiungere il confine saudita. Altri somali seguono lo stesso percorso, oppure raggiungono Basateen, il quartiere somalo di Aden. O la capitale Sana’a, in attesa di proseguire la loro ostinata fuga verso l’Arabia o altri Paesi della regione.
Molti però sono fermi ad al-Amra, il cimitero dei migranti. In questa distesa di sassi e terra a trecento metri dall’Oceano, ne sono stati seppelliti 46 da febbraio 2009. Altre centinaia riposano altrove, a volte sulla spiaggia. “Purtroppo sono annegati perché non sapevano nuotare oppure morti prima dello sbarco, quando magari una barca si rovescia”, spiega il custode Yaya Oumar. L’ultima vittima risale al venerdì precedente: “Aveva 30 anni e i testimoni dicono che sia stato buttato in mare dagli scafisti somali”. La costa dello Yemen è lunga 2mila chilometri: “Non riusciamo a monitorare tutto il territorio, e poi l’organizzazione del traffico di esseri umani è molto ben gestita” commenta Rocco Nuri, portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati. “Quando i migranti sbarcano -aggiunge- spesso ci sono già camion e fuoristrada ad aspettare i new arrival per trasportarli oltreconfine”. Mohammed Hasan è un somalo che conosce bene i sauditi. Ha vissuto quattro anni a Gedda, puliva i vetri ai semafori. A marzo 2009 le autorità lo hanno rimpatriato a Mogadiscio, ma è immediatamente ripartito. “Ormai la guerra in Somalia non è più come prima, è cambiata” osserva Sheikh Gilani Ali Malen, eletto 5 mesi fa alla guida della comunità somala di Basateen, che conta circa 150mila abitanti alla periferia di Aden. “La fuga dei somali è inarrestabile. Con questo business ci guadagnano tutti, compresa la polizia yemenita che incassa dai trafficanti somali”. Ovvia la connessione tra guerra e affari. “Dalla Somalia arrivano i profughi. In Somalia dallo Yemen arrivano televisioni, riso, armi”. Tante armi. Eppure nel Golfo di Aden è attiva la “Missione Atalanta” anti-pirateria voluta dall’Unione Europea. Sono presenti anche navi da guerra di molti altri Paesi: Russia, Corea del Sud, India, Stati Uniti. In qualche raro caso, le imbarcazioni militari sono intervenute in soccorso dei barchini dei trafficanti. “E in un paio di circostanze li hanno anche scortati in acque territoriali dello Yemen, in coordinamento con l’Onu”, aggiunge il portavoce dell’Alto Commissariato. In nessun caso però hanno caricato a bordo i migranti, che altrimenti potrebbero fare richiesta d’asilo sulla nave. Ma è possibile che i militari non abbiano mai rilevato le 1.449 imbarcazioni cariche di migranti transitate in questo tratto di mare nel 2009?
Il campo di Kharaz sorge nel nulla a 130 chilometri dalla città di Aden. In casette di cemento suddivise per “blocchi” numerati, con gli edifici disposti a quadrato intorno a una pompa d’acqua, vivono 14mila profughi. Habiba, 34 anni e una tunica amaranto, abita al blocco 20 con i suoi tre figli. Pesta lo zenzero nel mortaio mentre prepara il riso. È qui dal 2002, non sa dove andare altrimenti. “Non mi lamento. Almeno i miei figli possono andare a scuola”. Lo Yemen è un ossimoro, “il Paese più povero della penisola più ricca del mondo” sintetizza con efficacia Federica Biondi, coordinatrice della ong Intersos, che qui lavora in partnership con l’Onu. Un Paese che accetta i somali ma respinge gli etiopi. Che accoglie gli ex-detenuti di Guantanamo e poi se li ritrova a capo di fazioni estremiste. Che riceve quasi 70 milioni di dollari di aiuti militari dagli Stati Uniti (secondo il New York Times) e poi li accusa per le informazioni d’intelligence sbagliate, che provocano decine di vittime civili in due bombardamenti a dicembre contro presunti campi di addestramento dei terroristi nelle province di Abyan (62 morti) e Shabwa (46). Un Paese che rimbalza d’improvviso sulle cronache internazionali, con gli annunci di chiusura delle ambasciate, poi riaperte. La stampa battezza lo Yemen “nuovo fronte del terrore”. Ma per 75mila profughi è sempre meglio che restare nel proprio Paese.

Frontiere d’Europa
In fuga dalla mia terra: le rotte dei migranti hanno le loro stazioni di posta. Qui le persone che fuggono da guerre, persecuzioni, fame o disastri ambientali fanno tappa nel loro viaggio verso un presunto benessere. E qui Emiliano Bos, giornalista e inviato della Radio Svizzera, intercetta storie e sguardi di uomini e donne che l’hanno affrontato e racconta l’esodo dal profondo, cogliendone le ragioni che lo rendono inarrestabile, perché dettate dalla disperazione e dalla speranza. Si parte dall’Italia, con la paradossale “fuga” di immigrati dal nostro Paese -e i fatti di Rosarno lo hanno solo confermato-. La bussola segna prima Sud: in Senegal, dove la fuga comincia sulle piroghe, e a Tamanrasset, nell’ombelico del Sahara; poi si passa in Moldavia, Paese delle madri in trasferta, e a Istanbul, la Sublime porta (chiusa), con un’escursione a Calais, ultima fermata tra Afghanistan e Regno Unito. Per ultimo Giordania, dove due milioni di iracheni sono in sala d’aspetto, e Yemen, ricettacolo di centinaia di migliaia di profughi dal Corno d’Africa.
In fuga dalla mia terra. Storie di popoli che non si possono fermare
, di Emiliano Bos, 128 pagine, 13 euro. In libreria da febbraio.

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