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Per una giusta causa

Entra nel vivo il dibattito sulla riforma della Giustizia: centrata a parole sulle ferie dei magistrati (tema toccato con insistenza anche in quest’intervista di ieri con il ministro Andrea Orlando) e sulla responsabilità dei giudici, apre in realtà ad arbitri esterni, soggetti privati, la definizione dei contenziosi civili. Intervista a Enrico Zucca, sostituto procuratore generale a Genova —

Tratto da Altreconomia 164 — Ottobre 2014

“Le larghe intese tra la magistratura e la politica sono la morte della democrazia”. Enrico Zucca, sostituto procuratore generale di Genova e pm nel processo per il massacro alla scuola Diaz durante il G8 2001, commenta così il contesto dentro cui sta maturando l’annunciata riforma della giustizia. Una riforma che, secondo Zucca, ha lo scopo correggere un’unica “stortura”: l’indipendenza della magistratura. Tra annunci roboanti -“basta ferie dei magistrati”, “chi sbaglia paga”- la realtà è una privatizzazione formale della giustizia civile, dato che la risoluzione dell’arretrato viene demandato ad “arbitri”, scelti e pagati dalle parti, e che potrebbe essere comprati senza commettere alcun reato, perché in Italia la “corruzione tra privati” non è reato.

Dottor Zucca, i procedimenti civili pendenti sono oltre 5 milioni. Il governo ha indicato il sistema giudiziario come un ostacolo alla competitività e guarda all’estero. Che ne pensa?
Vorrei ricordare che la nostra è una giustizia molto accessibile a chiunque, anche in termini di costi. Certo, il nostro è un contenzioso consistente ma bisognerebbe chiedersi perché in altri sistemi non si accede al circuito giudiziario. Vuole dire che le controversie sono risolte in maniera alternativa, o che l’accesso al sistema è limitato anche per gli alti costi -chi può permettersi di pagare un avvocato, e a quali livelli?-.

Gli avvocati hanno chiesto al ministro della Giustizia Andrea Orlando di “superare il dogma dell’obbligatorietà dell’azione penale”. Qual è il suo giudizio a riguardo?
Quello sancito all’articolo 112 della Costituzione è un principio importante, di legalità, che trova il suo fondamento nel principio di uguaglianza. L’azione penale obbligatoria significa che l’organo titolare dell’azione penale -il pm- procede in relazione a ogni notizia di reato. Questo può aumentare il numero di procedimenti. Ma anche nei Paesi dove vige il principio di discrezionalità dell’azione penale i sistemi sono ingolfati alla stessa maniera, pur avendo però metodi di definizione dei procedimenti che incidono molto di più sulle garanzie e sull’accesso alla giustizia. In Inghilterra o negli Usa il processo penale è riservato a pochi procedimenti, in cui le parti possono permettersi avvocati, mentre la maggior parte dei procedimenti viene definita con la rinuncia al processo perché costa e perché si otterrebbe al più  uno sconto sulla pena. Quei sistemi funzionano disincentivando la maggior parte dei procedimenti, tramite una selezione di censo, di classe, di razza e di possibilità. La giustizia per i disperati è una giustizia di serie b, senza di fatto garanzie e senza un processo. Vorrei ricordare peraltro che in Germania vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale come in Italia. Quello che sembra il nucleo centrale o l’obiettivo fondamentale della riforma, che tocca anche il sistema penale, attiene all’insofferenza della classe politica, o del sistema, perché in Italia nessuno governa l’esercizio dell’azione penale.

I giudici però “fanno un mese e mezzo di ferie”.
A proposito della sospensione feriale è stata fatta molta confusione. È bene che chi legge sappia che dal primo agosto al 15 settembre non si tengono le udienze, salvo quelle urgenti, ma, a differenza di quanto accade per gli avvocati, i termini cui è sottoposto il giudice, ad esempio a scrivere le motivazioni della sentenza che ha emesso, continuano a decorrere.

Perché per un giudice non dovrebbe valere il principio “chi sbaglia paga”, come dice Renzi?
I titoli delle riforme sembrano collegati da un filo conduttore che punta verso la stigmatizzazione di un soggetto che nel sistema non funziona. Questo soggetto è il magistrato, che fa troppe ferie, che sbaglia e non paga. Considerare urgente nella riforma della giustizia il punto della responsabilità del magistrato è un approccio la cui razionalità non si intende. Io inviterei chiunque a fare una lista di quelli che sono considerati errori giudiziari avvenuti in Italia negli ultimi trent’anni. Inviterei a fare lo stesso per quelli che sono accaduti in Inghilterra o negli Stati Uniti d’America nello stesso periodo. Il confronto sarebbe sconvolgente per i più accaniti sostenitori della responsabilità dei magistrati. Sfogliando i giornali degli altri Paesi assistiamo continuamente al resoconto di gravi errori giudiziari che sono costati anni e anni di galera per ingiustamente condannati. Quello che è più impressiona è che la maggior parte degli errori giudiziari scoperti negli Stati Uniti, almeno riferendosi ai casi di cui si può apprendere leggendo le cronache, derivano da comportamenti dolosi delle autorità inquirenti.
In quei sistemi, dove esiste la separazione delle carriere, dove esiste la discrezionalità dell’azione penale e il controllo politico sul pubblico ministero, il pm gode di una totale immunità da azioni di responsabilità sul piano civile. Totale immunità. Anche se la sua azione è stata dolosa. La Corte suprema degli Stati Uniti, ad esempio, si è occupata nel 2011 di un caso dove non è stato riconosciuto alcun risarcimento a chi aveva scontato 18 anni di galera e passato 14 anni in attesa dell’esecuzione della pena di morte, dopo esser stato ingiustamente condannato per rapina a mano armata e omicidio. 

Perché un sistema dovrebbe garantire immunità a un soggetto che non solo sbaglia, ma lo fa dolosamente?
Perché si ritiene che la funzione giudiziaria, e anche quella del pubblico ministero, abbia delle caratteristiche che non la possono accomunare ad altre professioni o mestieri. Per fare bene il giudice o il pubblico ministero occorre essere liberi da ogni condizionamento. E il condizionamento proviene anche dalla minaccia di essere sottoposti o chiamati a rispondere in giudizio dei propri errori.
L’errore, quando è compiuto, è ovviamente un errore di cui si fa carico il sistema, ma questo non può determinare l’attacco a un soggetto che -per definizione- deve essere preservato anche da questo condizionamento. Il luogo comune che è diventato uno slogan -“chi sbaglia paga”- poggia su un’affermazione radicalmente fallace. Il medico se sbaglia paga, l’ingegnere se sbaglia paga, ma non è lo stesso il giudice se sbaglia paga. Perché il lavoro del giudice ha una peculiarità. La peculiarità  sta in questo: il magistrato risolve conflitti e stabilisce dove è il torto e la ragione, quindi scontenta sempre una delle due parti. Nessun mestiere ha che fare con questo che è un compito necessario, ma anche tremendamente fallibile. E poi ancora: “Il giudice viene giudicato dagli altri giudici”. Ma dico, un medico o un ingegnere da chi viene giudicato? Nei giudizi di responsabilità professionale, il giudice si affida a colleghi del medico o dell’ingegnere, affidando loro consulenze o perizie tecniche.
Ai sondaggi che chiedono “secondo te se un giudice sbaglia è giusto che paghi?”, io risponderei sì. Ma se mi dicessero “vuoi avere un giudice libero da ogni condizionamento, che ascolti anche la tua voce anche se questo significa mettersi contro delle parti o interessi forti che potrebbero minacciare o danneggiare?”, io rispondo “voglio un giudice libero”. E accetto anche l’errore del giudice perché voglio che sia libero quando decide, per questa caratteristica particolare del suo mestiere. Che non è la scienza ma è la coscienza.

Alle proteste dell’Associazione nazionale magistrati, Renzi ha replicato “brrr che paura”.
Quale Paese si può permettere che un’istituzione di garanzia possa essere continuamente attaccata e vituperata, quando non c’è nessuno che possa difendere la magistratura se non se stessa? Ma la magistratura se si difende viene considerata corporativa. La magistratura non può fondarsi sul consenso, a differenza della politica. Quando la magistratura si affida al consenso cessa di essere magistratura. Perché significa seguire l’umore o le opinioni delle persone. La magistratura che asseconda l’opinione pubblica, e persegue chi l’opinione pubblica o la politica vuole che vengano perseguiti, e invece garantisce chi l’opinione pubblica vorrebbe garantire, questa magistratura piegata anche all’opinione politica, è una magistratura che nega se stessa. Al di fuori del circuito del consenso la magistratura trova se stessa. Ma quando è costretta ad ingraziarsi chi la attacca lì c’è un pericolo reale. Ai tempi di una prova di forza tra esecutivo e giudici in Inghilterra durante il governo conservatore  verso la fine degli anni 90, l’autorevole membro della suprema corte Lord Steyn  riferendosi alle notizie di stampa che descrivevano ripetutamente tensioni tra i giudici e il governo in tono allarmato, affermò: “È quando regna uno stato di perfetta armonia tra i giudici e l’esecutivo che i cittadini devono preoccuparsi, uno stato di tensione tra i giudici e l’esecutivo con ognuno che vigila che l’altro non oltrepassi i suoi confini  è la migliore garanzia che un soggetto possa avere contro gli abusi del potere”. La tensione quindi è un elemento di vitalità del sistema.

Il governo ha assicurato un intervento anche in materia di prescrizione. Che ne pensa?
L’istituto della prescrizione ha come fondamento razionale due concetti. Il primo è che lo Stato di fronte a un fatto che costituisce un reato, passato del tempo, non ha più interesse a perseguirlo, perché la reazione dell’ordinamento o è sproporzionata o non sembrerebbe più collegata a quel fatto e a quell’allarme creato alla società. Un altro fondamento è quello che a distanza di tempo dal fatto è difficile ricostruire i fatti. Se i termini per la prescrizione -legati alla gravità del reato espresso dalla sanzione erogata in astratto- decorrono anche durante il processo noi abbiamo il paradosso che lo Stato dichiarerà la prescrizione dopo aver mostrato interesse a perseguire quel reato, avendo magari celebrato un lungo processo di primo grado, avendo avuto dei giudici che hanno scritto sentenze lunghissime, avendo magari poi avuto un giudice di appello, un altro giudizio con altre sentenze lunghissime, e infine avendo magari un giudizio finale di Cassazione. La prescrizione, di solito, interviene tra l’appello e la Cassazione. Cioè interviene quando lo Stato, dopo aver fatto lavorare i suoi apparati, si arrende ammettendo che quello stesso lavoro è stato fatto a vuoto. L’operare concreto della prescrizione, così come è strutturata oggi, contraddice il presupposto razionale dello stesso istituto. Rispetto a questo principio la prescrizione ha un senso se decorre dal momento del fatto fino a quando lo Stato non decide di perseguirlo. L’altro principio, che è quello della difficoltà nella ricostruzione del fatto attraverso testimonianze magari a distanza di tempo, vale soprattutto per la celebrazione dell’unico grado di giudizio in cui davvero si sentono i testimoni ordinariamente, cioè il primo grado.
Il ministro vuole bloccare il corso della prescrizione per due anni tra primo grado e appello in caso di condanna. Se in appello fosse dichiarata l’assoluzione, la prescrizione riprenderebbe a correre recuperando anche il tempo trascorso.
È una disciplina molto articolata che non ha paragoni in altre legislazioni. Ci si occupa di una riforma di un istituto che opera in maniera profondamente diversa da quasi tutti i sistemi del mondo introducendo dei correttivi che di nuovo sono molto bizzarri e peculiari e non trovano corrispondenza in nessun’altra legislazione. Chi governa i meccanismi del processo e la sua lentezza? Molto spesso chi potrebbe beneficiare della prescrizione. Quando è stata depositata la sentenza di appello nel “processo Diaz”, che era una sentenza di condanna e in riforma di una sentenza di assoluzione, ci è voluto quasi un anno e mezzo perché gli atti fossero trasmessi dalla Corte d’Appello alla Corte di Cassazione, perché non si riusciva a fare le notifiche agli imputati, perché questi continuavano a cambiare il domicilio. Uno dopo l’altro. Un sistema che è rimesso ad un’azione di un diretto interessato è un sistema che di nuovo si contraddice. La disciplina che si ritrova nella proposta di riforma così farraginosa e particolare, fondata sulle eccezioni citate poc’anzi, non c’entra nulla, ma si limita ad introdurre interessi spuri. Altro elemento: i termini di prescrizione sono davvero commisurati alla gravità dei reati e al tipo di reato? Ci sono reati la cui scoperta implica indagini molto lunghe o denunciati tempo dopo i fatti. Fuor di metafora: la corruzione non è un reato che viene denunciato facilmente. L’Europa ha ricordato che sul fronte della corruzione l’operare della prescrizione vanifica le indagini e la repressione della corruzione e che i termini sono troppo brevi. Ma è rimasta inascoltata.

Resta il tema della giustizia civile. La ricetta del governo per abbattere l’arretrato si chiama “trasferimento in sede arbitrale dei procedimenti civili pendenti”. Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera ha parlato del “subappalto ai privati come stabile puntello all’emergenza”. Lei che ne pensa?
La devoluzione di una serie di procedimenti alla definizione arbitrale, una modalità di degiurisdizionalizzazione, nasconde un rischio: se uno corrompe un arbitro non commette alcun reato, perché l’arbitro non è considerato un pubblico ufficiale (decreto legislativo 40 del 2006, nda). Se uno compra un lodo arbitrale o una sentenza arbitrale non commette alcun reato. Ma questo possibile “effetto collaterale”, certo non prevedibile, è il segno che la riforma della giustizia presupporrebbe un lavoro tecnico di ampio respiro che manca. Al fondo delle proposte sta una contraddizione paradossale. Non si comprende perché proprio le parti che abusano del sistema generando contenzioso dovrebbero scegliere ora di risolvere la controversia sollevando il giudice, cioè il soggetto che non può governare il processo, imponendone la celere definizione. Per i residui casi che il giudice dovrebbe trattare, si suppone quelli più complicati, nessun supporto viene invece assicurato, come altrove, in termini di risorse di mezzi e persone per consentire un lavoro attento del magistrato. Grande attenzione all’abbattimento dei numeri, nessuna alla qualità del prodotto finale. Tanto il giudice, se sbaglia, pagherà.

La giustizia è lenta e gli investitori stranieri non investono. È vero?
È stato di recente introdotto, sulla base di una Direttiva europea, un obbligo di traduzione di atti nel settore penale per quanto riguarda il soggetto che non conosce la lingua italiana. Non si può che approvare un tale surplus di garanzia per l’imputato. Ma gli interpreti vengono pagati in una maniera assolutamente inadeguata se non indecorosa. Ognuno di questi, infatti, può essere pagato soltanto secondo il sistema delle vacazioni (che corrisponde a due ore di lavoro), che sono quattro al giorno.
Quattordici euro la prima ora, otto euro le altre, cioè una tariffa oraria che è inferiore a quella riconosciuta di norma ad una collaboratrice domestica. —

Breviario di una riforma "annunciata"
La riforma della giustizia annunciata dal governo Renzi ha preso fino a questo momento (metà settembre 2014) la forma del solo decreto legge 132, pubblicato in Gazzetta ufficiale il 12 settembre, e centrato sulla “definizione dell’arretrato in materia di processo civile”.

Tra i punti più interessanti dei 23 articoli:

1) “Trasferimento alla sede arbitrale” dei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del testo normativo. Si tratta di una privatizzazione formale e sostanziale della giustizia, che prevede il comune accordo tra le parti per poter avere inizio, poggia sulla figura dell’arbitro -che andrà pagato dagli interessati-, scelto tra gli avvocati iscritti da almeno tre anni all’albo dell’ordine circondariale competente. Per potersi “proporre”, l’arbitro non deve aver avuto condanne disciplinari definitive. Non sempre i procedimenti disciplinari giungono però a definizione in tempi rapidi. Giova ricordare il “caso” di Cesare Previti. Durò 12 anni infatti il procedimento disciplinare che portò alla radiazione dall’albo degli avvocati dell’ex parlamentare di Forza Italia, condannato per corruzione nell’affare Mondadori. Sta di fatto che “il lodo -come reca il decreto 132/2014- ha gli stessi effetti della sentenza”. Il punto è che, come sancito dal Codice di procedura civile (Libro IV, Titolo VIII, “Dell’arbitrato”), “agli arbitri non compete la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio”. E questo “dettaglio”, come sostiene il sostituto procuratore generale di Genova Enrico Zucca nell’intervista di queste pagine, e potrebbe aprire inquietanti scenari data l’eventuale impunità di chi volesse “comprare” la sentenza-lodo dell’arbitro.

2) “Convenzione di negoziazione assistita da un avvocato”, che dovrebbe consentire alle parti di trovare un accordo -anche in materia di separazione o di scioglimento del matrimonio- prima di giungere (litigando) in Tribunale.

3) “Riduzione” delle (presunte) “ferie dei magistrati” -che la legge (riformata) del 1969 definisce in ben altro modo, e cioè “decorso dei  termini  processuali relativi alle  giurisdizioni ordinarie ed a quelle amministrative”, che non abbracceranno più il periodo tra il primo agosto e il 15 settembre ma quello tra il 6 e il 31 agosto. Come spiega Zucca, la “ferie” non corrispondono ad altro se non a una sospensione dei termini. Sospensione che però non tocca ai giudici, chiamati comunque a scrivere le eventuali motivazioni della sentenza entro i termini previsti dalla legge (90 giorni).

Gli annunci
Durante la conferenza stampa seguita al consiglio dei ministri del 29 agosto scorso, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha dichiarato poi che in materia di responsabilità civile dei magistrati verrà “eliminato il filtro” o “tappo” per accedere a “questo tipo di ricorso” per poi “discutere nel merito” e che verrà “rafforzato l’automatismo sulla rivalsa una volta che ci fosse la condanna nei confronti dello Stato”, che passerà dal 30 al 50%.
In materia penale, in mancanza del testo del disegno di legge promesso dal governo il 29 agosto (“Non esiste”, ci han detto dal ministero), tocca rifarsi alle dichiarazioni rese da Orlando in quella stessa conferenza stampa. “Maxi patteggiamento” per evitare temerari ricorsi in appello, estinzione dei reati di lieve contro il patrimonio entità a fronte di una condotta riparatoria, e soprattutto un “punto” sulla prescrizione:“Il Consiglio dei ministri ha condiviso la proposta che ho avanzato”, ha detto Orlando. I termini si fermano per un massimo di 2 anni dopo il primo grado di giudizio, in caso di una sentenza di condanna. Se entro quei due anni, però, non si dovesse giungere a sentenza in appello, allora la prescrizione “ricomincerà a correre, recuperando anche quella precedente nel caso in cui la nuova sentenza sia di assoluzione. Niente, invece sul fronte intercettazioni, che è stato rimandato per un “dibattito sorto in seno alla maggioranza”. 

Reati infiniti
Chiamato a stilare un elenco di priorità per riformare (in meglio) la giustizia penale, Walter Mapelli -sostituto procuratore di Monza- cita immediatamente la prescrizione. E non soltanto quella che, al regime attuale, consente l’estinzione di un reato per il decorso del tempo ma anche quella che rende inapplicabile una pena già determinata. “Il nostro codice penale prevede all’articolo 173 la prescrizione della pena. Non solo faccio fatica ad arrivare alla condanna ma non è detto nemmeno che questa venga eseguita. Perché la pena si estingue in un periodo doppio rispetto alla condanna. Esempio astratto: se venissi condannato a 5 anni per bancarotta fraudolenta potrei scamparmela standomene al Polo per i successivi 10”. E dopo aver eliminato il processo agli irreperibili è necessario intervenire sul Codice di procedura penale, che “è stato stravolto -spiega Mapelli- da tanti interventi spot che hanno introdotto tra le altre cose una infinità di riti. Ora abbiamo il giudizio ordinario, l’abbreviato, il patteggiamento, l’immediato, la direttissima, il decreto penale, le misure alternative, la messa alla prova che a sua volta è più conveniente del lavoro di pubblica utilità. Basta. È diventato un gigantesco supermercato cannibalizzante”. La legiferazione d’emergenza ha prodotto un altro assurdo. “Confesso di avere il timore di non essere aggiornato. Ogni anno giungono novità estemporanee, scoordinate, senza che nessuno valuti l’impatto delle riforme sulla macchina della giustizia.  Io non so quanti reati ci sono in Italia. C’è chi dice 30mila. Perché il Codice penale è ormai soltanto una piccola parte se confrontato con il florilegio delle leggi speciali”.

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