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Ambiente

Per un uso responsabile della terra

Linee guida Fao innovative per stabilire priorità ai piccoli produttori nell’accesso al suolo fertile, divieto di sfollamenti e limite alle concessioni ai privati. Unico difetto: non sono vincolanti

Tratto da Altreconomia 139 — Giugno 2012

Tre anni di negoziati. Tanto c’è voluto al Comitato per la sicurezza alimentare (Cfs) della Fao per definire le “linee volontarie per una gestione responsabile della proprietà della terra”. Approvato in via definitiva a Roma l’11 maggio, il testo definisce le priorità che gli Stati devono seguire nella distribuzione della terra per garantire la sicurezza alimentare alle proprie popolazioni. Risultato di un processo inclusivo a cui hanno partecipato attivamente organizzazioni contadine da tutto il mondo, il documento è molto innovativo. Stabilisce che priorità nell’accesso alla terra deve essere data ai piccoli produttori, alle comunità indigene e a tutti coloro che la usano in virtù di un diritto consuetudinario. Asserisce che non è possibile operare sfollamenti indiscriminati. Definisce la necessità di fissare un limite nella cessione di aree agricole ai privati, un principio molto rilevante in un momento in cui diversi paesi del Sud del mondo sono colpiti dal fenomeno del “land grabbing”, l’acquisizione di terre su larga scala da parte di grandi gruppi per produzioni di cibo o agro-carburanti destinati all’esportazione. Decisamente all’avanguardia, le linee-guida hanno un unico difetto: non sono vincolanti. “Si tratta di un documento di riferimento, a cui devono rifarsi i singoli governi nazionali per stabilire norme di legge”, spiega la zimbabwana Mary Mubi, rappresentante per l’Africa nell’ufficio centrale del Cfs, a margine della conferenza regionale della Fao a Brazzaville, due settimane prima dell’approvazione del testo a Roma.
Riuniti al Palazzo dei congressi della capitale congolese, diversi funzionari e ministri africani, oltre a rappresentanti della società civile, analizzano i punti chiave delle linee volontarie. “Noi salutiamo l’approvazione di questo testo e il processo di discussione che ha portato alla sua definizione”, afferma Mamadou Cissokho, presidente onorario di Roppa, il consorzio delle organizzazioni contadine dell’Africa occidentale.
“I principi espressi sono molto condivisibili. Ora spetta ai governi implementarli e spetta alle società civile -cioè a noi- fare pressione affinché tali principi siano tradotti in testi di legge vincolanti”. Questo è il nodo della questione: quando saranno disponibili i governi a tradurre in pratica delle politiche che in molti casi vanno nella direzione opposta a quella portata avanti da molti di loro negli ultimi anni? Quanto i governi africani, che stanno concedendo le proprie terre a destra e a manca a investitori stranieri, saranno disposti a rivedere la propria posizione? Anche se non vengono mai citati in modo esplicito nella discussione, gli accordi di acquisizione su larga scala sono lo spettro che aleggia sulla sala. “Gli Stati dovrebbero promuovere una serie di modelli di investimento che non risultino nel trasferimento su larga scala di diritti fondiari a investitori e dovrebbero incoraggiare partnership con piccoli proprietari locali”, si legge nelle linee guida.
Le posizioni sugli investimenti stranieri rimangono distanti. Se i rappresentanti delle organizzazioni contadine li condannano senza appello, i governi interessati ne sminuiscono l’importanza. Così Wondirad Mandefro, ministro di Stato etiope all’Agricoltura, tiene a distinguere tra il leasing di terre agli stranieri e gli investimenti del proprio governo a favore dei piccoli produttori.
“Noi affittiamo solo terre inutilizzate, e comunque in minima parte”. L’Etiopia è una specie di contraddizione in termini: mentre ha ceduto centinaia di migliaia di ettari a investitori stranieri (soprattutto sauditi e indiani) per prodotti d’esportazione, importa aiuti alimentari per far fronte alla carestia che ne ha colpito le regioni più orientali. Il ministro puntualizza: “Gli investimenti stranieri non hanno nulla a che vedere con la sicurezza alimentare. Incidono su terre che comunque non producevano. Basta vedere le quantità: abbiamo allocato solo tre milioni di ettari su 74 di terra disponibile. D’altro canto, investiamo massicciamente per fornire sementi, fertilizzanti e tecnologia ai piccoli produttori”. Rigobert Maboundou, ministro congolese dell’Agricoltura, ha una posizione un po’ diversa. Il suo Paese ha concesso 260mila ettari a imprenditori malesi e sudafricani per produzioni agricole. Circa due anni fa, decine di coltivatori afrikaner -impauriti dalla prospettiva di una riforma agraria e di una ridistribuzione della terra annunciata dall’African national congress- si sono trasferiti in Congo e hanno cominciato a coltivare patate, fagioli, mais. Secondo il ministro, questo arrivo di produttori stranieri -“cui è stata data una porzione di terra trascurabile”- può avere un effetto pedagogico. “Quando abbiamo chiamato coltivatori sudafricani e abbiamo affittato loro porzioni di terra, lo abbiamo fatto anche con l’intento di spronare i nostri agricoltori a imparare da loro nuovi metodi più efficienti di produzione”.
Maboundou sottolinea gli aspetti positivi delle linee guida. “Abbiamo trovato una quadra. Abbiamo una posizione comune”. In effetti, la partecipazione dei governi ai negoziati e l’accordo raggiunto alla fine in sede Fao sono un punto di partenza importante. “All’inizio nessuno prendeva sul serio questa trattativa”, ricorda Nora McKeon, coordinatrice della campagna Europa-Africa, finalizzata a  mettere in comunicazione il mondo associativo occidentale, le ong e gli agricoltori africani. “Poi pian piano, i governi si sono accorti che la cosa diventava seria e hanno mandato un maggior numero di funzionari. Hanno investito persone e fondi su queste linee guida. Il che è di buon auspicio per il futuro: è possibile prevedere che una partecipazione di così alto livello si traduca in un’azione tangibile sul terreno”.
Pur avendo riscosso un indubbio successo, le organizzazioni contadine rimangono sul chi vive. “Dobbiamo difendere le nostre risorse. Sulla scorta di queste linee guida, dobbiamo spingere i nostri governi a investire sui piccoli produttori invece che cedere la terra a grandi gruppi stranieri”, sostiene Elisabeth Atangana, presidente del Pan-African Farmers Forum (Paffo). Il futuro sembra ruotare intorno a questa apparente dicotomia: piccoli produttori locali versus grandi ditte straniere. Secondo Mary Mubi questa convivenza non è impossibile. “Abbiamo casi in cui grandi gruppi hanno messo a disposizione dei piccoli produttori la tecnologia e un sistema di marketing per permettere loro di aumentare la produttività e il loro raggio di vendita. Sono casi virtuosi, che diventano possibili solo grazie all’azione pubblica. Sono gli Stati a dover promuovere questo tipo di sinergie, sempre tenendo conto dell’importanza di garantire una maggiore sovranità alimentare”. La palla è quindi ora nelle mani dei singoli governi nazionali. Avranno la volontà politica e la lungimiranza di invertire il trend in seguito all’approvazione delle linee guida? “Vedremo, noi non staremo a guardare. Li obbligheremo nel caso, grazie alla nostra mobilitazione”, conclude Cissokho con tono di sfida. —

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