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Per la libertà di agire del pubblico ministero

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È sempre più frequente in caso di assoluzione pensare che il sistema giudiziario non funzioni o il Pm abbia “perso”. È sbagliato. Si veda il “caso Eni”. La rubrica “In punta di diritto” di Enrico Zucca

Tratto da Altreconomia 237 — Maggio 2021

La Corte costituzionale chiarisce come diversi siano nel corso del processo penale gli standard di valutazione degli elementi a carico dell’accusato, che corrispondono ai diversi livelli dell’onere della prova gravante sul pubblico ministero.

Così, per essere rinviati a giudizio occorrono “elementi idonei” a sostenere l’accusa (la nozione equivale a “sufficienti”); per essere privati della libertà occorrono invece “gravi indizi” (qualcosa come “alta probabilità di colpevolezza); per essere condannati occorre ancora qualcosa di più, la prova “oltre il ragionevole dubbio” cioè, per quanto possibile, la “certezza”, esclusa ogni alternativa. Da ciò ovviamente discende che è fisiologico ed è anzi auspicabile il proscioglimento dopo che il pubblico ministero ha esercitato l’azione penale ed anche l’azione cautelare, passando diversi vagli che possono fermare il suo cammino.

Ma in presenza di elementi di prova è la Costituzione che impone al pubblico ministero di procedere (favor actionis), senza alcuna valutazione di opportunità oggettiva o soggettiva: l’obbligatorietà dell’azione penale, come principio di legalità, assicura il principio di uguaglianza. Con l’appello della condanna si può riottenere un giudizio di merito pieno, rivalutando le stesse prove o assumendone altre, se necessarie.

La Cassazione può poi annullare la sentenza non solo per errori di diritto, ma anche se è mal motivata, nel qual caso c’è un nuovo giudizio, passibile di altro ricorso. Senza scendere nel tecnico, né i principali sistemi europei, né i sistemi anglosassoni, dove regna il rito accusatorio, cui si è ispirato il nostro codice, offrono questo lungo percorso (che non di rado smentisce l’accusa e durante il quale si è sempre “presunti innocenti) verso l’accertamento della responsabilità. In questo quadro, cosa deve fare il buon pubblico ministero per fare bene il suo lavoro?

La valutazione della sua performance in termini di condanne ottenute è molto rischiosa e può avere conseguenze negative. Trova però radice nell’ideologia protoliberale del processo accusatorio, concepito come duello tra accusa e difesa e dove l’accertamento dei fatti non è l’obiettivo, tanto che alla giuria le parti offrono solo quello che hanno interesse a provare per sostenere la loro tesi. La battaglia ha un vincitore e uno sconfitto.

In questa ottica, se conta solo vincere, c’è la tentazione di barare: è una conseguenza del cosiddetto “combat effect”, dimostrato dall’attitudine dei procuratori americani o della polizia a nascondere le prove favorevoli, come riportano le cronache. In secondo luogo si crea diseguaglianza, perché si cercano solo i processi dove si vince facile, non quelli rischiosi, dove le possibilità sono alla pari. Si evitano i processi impopolari, quelli che non vorrebbe fare nessuno.

È sempre più frequente, in caso di assoluzione, pensare non che il sistema funziona e bene o che l’avvocato ha convinto il giudice, ma che l’accusa non doveva agire. Fra i casi recenti, viene in evidenza il processo a Milano per corruzione internazionale a carico dei dirigenti Eni, concluso con il “crollo del teorema accusatorio”.

Terreno molto difficile lo si comprende dall’oggetto, dove le indagini anche per l’intreccio degli interessi e dei poteri coinvolti sono in grado di sfidare ogni competenza. Il pubblico ministero deve provarci, perché questo è il suo dovere, non può essere legato solo al risultato.

Suona allora ancor più fuori tono il giudizio sommario di un sostituto procuratore generale quidam, sulla débâcle dei suoi colleghi che avrebbe comportato anche pesante aggravio all’erario. Altro deve essere il senso dell’istituzione e del ruolo del pubblico ministero, che non deve sostenere accuse azzardate o ottenere condanne certe e ad ogni costo, ma che deve altrettanto essere preservato nella sua liberà di agire, senza timori di sorta. 

Enrico Zucca è sostituto procuratore generale di Genova. È stato pubblico ministero del processo per le torture alla scuola Diaz durante il G8 dell’estate 2001

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