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L’alleanza tra cittadini e istituzioni che fa rivivere gli spazi abbandonati

La prima festa di InStabile Portazza organizzata a Bologna nel giugno 2015 - © INstabile Portazza

I “patti di collaborazione” si diffondono in tutta Italia. I volontari ristrutturano vecchi edifici rimasti vuoti per anni, restituendoli alla collettività. Gli enti pubblici risparmiano e nascono nuove reti sociali nei quartieri

Tratto da Altreconomia 196 — Settembre 2017

All’entrata di InStabile Portazza, periferia bolognese a Sud-Est della città, la parete è ricoperta di polaroid di persone del quartiere con sotto scritto, a pennarello, quello che ognuno sa fare e può insegnare agli altri. Gianni, per esempio, fa l’archivista, ma sa lavorare sugli impianti elettrici. Luca è architetto, capace anche di fare lavoretti di falegnameria e riparazioni. Paola fa il medico, ma qui si presta a ogni lavoro di manovalanza. Patrizia è casalinga ma si definisce “ciappinara”, il tuttofare in dialetto bolognese. E poi ci sono Valentina, Pao, Davide, Roberto, Chiara, Franco, e decine di altri. Sono le persone che dentro, a turno, stanno finendo i lavori per aprire di nuovo al quartiere un’ala dell’edificio, in base a un accordo di gestione condivisa stretto con il Comune nel 2016 dall’associazione Pro.muovo.

Meno delega all’ente pubblico e più partecipazione: è questo il succo dei patti di collaborazione promossi da anni dall’associazione Labsus (www.labsus.org) per la cura, la rigenerazione e l’animazione di spazi pubblici. I primi nel 2014 sono partiti proprio a Bologna per poi espandersi in un centinaio di comuni di tutta Italia: non solo una soluzione alle casse pubbliche sempre più vuote, ma soprattutto un modo per ricucire le trame sociali e quelle urbane.

“Questo edificio era nato come una specie di centro civico del villaggio di case popolari di Portazza, ma poi si era trasformato in scuola elementare. Qui mia nonna faceva la bidella. Poi nel 1984 la scuola è stata chiusa e la piazza su cui si affacciava trasformata in un parcheggio”, racconta Leonardo Tedeschi, 26 anni, in una pausa dagli ultimi lavori di ristrutturazione di InStabile. Termine scelto per indicare la riconquista dell’edificio, ma attraverso un gruppo orizzontale e non strutturato.

È stato Leonardo, due anni fa, insieme a un’altra cinquantina di persone, a iniziare a pensare che quel posto non doveva continuare a essere chiuso, in un quartiere, quello di Savena, dove vivono più di 80mila persone e mancano luoghi di aggregazione per giovani e famiglie. Grazie a un bando di Coop Adriatica, nel 2015 sono partiti dei laboratori di progettazione partecipata, ma prima bisognava ristrutturare: “L’immobile era di Acer, l’ente di edilizia regionale. L’associazione ha raggiunto un accordo per utilizzare l’ala dell’edificio senza problemi strutturali in cambio di lavori di ristrutturazione autogestiti”, aggiunge Annalaura Ciampi, giovane architetta, sedendosi a tavola. È domenica e nella pausa dei lavori si mangia insieme un’insalata. Fuori c’è l’arena per le proiezioni cinematografiche realizzata in legno con l’aiuto di 15 ragazzi arrivati da tutta Italia: “Abbiamo messo un annuncio, ci hanno risposto in 110”. Da qualche mese il venerdì, grazie al mercatino “Campi aperti” il parcheggio torna ad essere piazza e adesso, con la fine dei lavori, intorno al tavolo ci si confronta sulle attività da avviare: tra i progetti c’è anche quello di una moneta locale del quartiere. “L’importante è non tradire lo spirito iniziale di un luogo che include, che fa comunità. Lo dice chiaramente il nostro slogan: alla Portazza di tutti”.

E lo stesso concetto, all’altro capo della città, ci tiene a raccontarlo anche Emy Mastroeni, insegnante di sostegno siciliana arrivata a Bologna dieci anni fa, vicepresidente del comitato Graf. “La piazza non è del Comune, la piazza è nostra”, dice muovendo lo sguardo da una parte all’altra del grande quadrato intitolato a Giovanni Spadolini, nel quartiere di San Donato. Qui, gli ex uffici dell’anagrafe nel 2014 sono diventati il primo spazio gestito in Italia attraverso un patto tra amministrazione e cittadini. Gli ingredienti per l’insuccesso all’inizio non mancavano: “In questa piazza c’era lo spaccio, gli anziani avevano paura, i bambini non potevano giocare. San Donato è da decenni un quartiere di immigrazione, con tante case popolari e tanta disperazione”, dice il segretario di Graf, Bruno Poluzzi, sigaretta e camicione etnico, tornato in Emilia-Romagna dopo una vita passata a lavorare in Africa.

“Abbiamo una quarantina di appuntamenti al mese. È la casa di tutti: chi vuole può proporsi di organizzare o chiedere di allestire una mostra” (Emy Mastroeni)

Qui tutto è partito dall’amministrazione, che ha avviato dei percorsi di progettazione condivisa per capire quali fossero le esigenze del quartiere: “Le attività da organizzare le abbiamo decise insieme, così come il nome Graf, che è la parte centrale della parola anagrafe, una specie di augurio di una nuova nascita”, aggiunge Emy aprendosi in un sorriso. All’inizio attirare le persone dentro non è stato facile, tutti passavano, buttavano uno sguardo e continuavano a camminare, “poi abbiamo deciso di portare noi delle iniziative fuori e così la partecipazione è molto aumentata. Oggi abbiamo una quarantina di appuntamenti al mese: dai corsi di teatro a quelli di danza africana, dagli spettacoli teatrali alla festa delle trottole. Organizziamo corsi di italiano per stranieri, abbiamo un’area biblioteca dove è possibile prendere in prestito libri e un servizio di ripetizioni gratuite per i bimbi del quartiere. Questa è la casa di tutti: chi vuole può proporsi di organizzare o chiedere di allestire una mostra”.

Lo spazio è stato ristrutturato dal Comune, ma gli arredi sono stati tutti donati dai cittadini, mentre il vicino negozio di elettricità si occupa gratuitamente di cambiare le lampadine. Oggi Graf non è solo un centro di aggregazione, ma piuttosto un presidio di accoglienza, inclusione e senso civico: per chi entra c’è sempre un bicchiere d’acqua e qualcosa da mangiare, i giovani stranieri vengono qui a usare la connessione wi-fi gratuitamente per comunicare con la famiglia a casa e uno di loro ha trovato lavoro come giardiniere dopo un corso qui. “Spieghiamo loro per esempio che la piazza va rispettata e tenuta pulita, e allo stesso tempo spieghiamo ai bolognesi che questi ragazzi vanno accolti e coinvolti, che sono parte della società di domani”, continua Bruno.

Non è un caso che tutto sia iniziato da qui. “Oltre alla presenza in Comune di persone da dedicare alla collaborazione con i cittadini, qui c’è un brodo culturale fatto di civismo, passione politica e cultura cooperativa che hanno fatto da humus”, racconta Daniela Ciaffi dell’associazione Labsus, impegnata da anni per la partecipazione attiva dei cittadini. Se non mancano le criticità e le resistenze -“Perché si passa da una gestione tradizionale tramite concessione di uno spazio a una più partecipata, interattiva e paritaria”- i risultati si vedono: “Migliora la qualità dell’ambiente urbano, ma prima ancora nascono relazioni”.

Oggi gli accordi tra cittadini e pubbliche amministrazioni sono stati stipulati in più di cento Comuni. A Siena, per esempio, nel 2015 è stato stretto un patto per la salvaguardia e la valorizzazione delle mura cittadine, mentre a Monza attraverso un accordo di gestione condivisa un pezzo di terreno è stato messo a disposizione di famiglie in difficoltà, e insieme a zucchine e fagiolini nasceranno anche relazioni sociali. Ad Acireale, invece, il teatro della città è stato recuperato grazie a un patto di collaborazione.

Oggi Graf non è solo un centro di aggregazione, ma piuttosto un presidio di accoglienza, inclusione e senso civico: chi entra trova sempre un bicchiere d’acqua e da mangiare

Con centinaia di patti attivi, Bologna continua a tracciare la strada. “Qui sono diventati uno stile di governo”, continua Daniela Ciaffi, ricercatrice all’Università di Palermo proprio sui temi della partecipazione. Tra gli ultimi c’è per esempio quello per la gestione condivisa dell’ex mercato coperto di San Donato: altrove sarebbe potuto diventare un centro commerciale, qui si è trasformato nel Mercato Sonato, sede dell’orchestra Senzaspine.

“L’orchestra è nata nel 2013 dall’idea di dare un nuovo ruolo sociale alla musica classica. Oggi -spiega Luca Cantelli, project manager dell’associazione- attorno al progetto ruotano 350 musicisti, in gran parte con meno di 30 anni. Nell’edificio non facciamo solo le prove, ma organizziamo iniziative gratuite per i bambini del quartiere e nei prossimi mesi uno spazio sarà dedicato al coworking”.

Pochi mesi fa Bologna ha lanciato un’iniziativa per progettare insieme ai cittadini il recupero di 11 edifici pubblici, attraverso laboratori partecipati in sei diversi quartieri. Se ne occupa l’ufficio di “immaginazione civica” e a studiare il modello emiliano sono arrivate anche studentesse dell’università di Vienna. Sono i primi passi per arrivare ad altri patti di gestione dei beni comuni. Perché intorno al tavolo del pranzo domenicale di Instabile Portazza, sulle panchine di fronte al Graf o negli ex stalli dei banchi del mercato Sonato, si capisce che il tempo della delega alla pubblica amministrazione è vicino alla fine. La piazza è sempre stata lì, ora sono i cittadini a essere cambiati.

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