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Economia / Opinioni

Le patologie del sistema bancario italiano. O troppo debole o totalmente finanziarizzato

© Jason Pofahl - Unsplash

Banca Popolare di Bari è solo l’ultimo esempio di ricorrenti crisi e fallimenti patiti negli anni dal settore del credito italiano e che hanno determinato l’intervento dello Stato. Un contributo pubblico che nell’ultima stagione ha sfiorato quota 20 miliardi di euro. Il paradosso è che le turbo-banche che risultano più “solide” garantiscono dividendi agli azionisti mentre tagliano drasticamente il personale. L’analisi di Alessandro Volpi

È evidente che il sistema bancario italiano presenta vari problemi testimoniati dalle troppe crisi e dai numerosi fallimenti patiti dal settore del credito, di cui il caso della Banca Popolare di Bari è solo l’ultimo esempio. Rispetto a tali difficoltà emergono due aspetti forse più evidenti di altri, al di là di una inopinata tendenza a esposizione dubbie e a una marcata opacità. Il primo è rappresentato dalla debolezza dei controlli operati da Banca d’Italia, troppo spesso in ritardo e destinati a svolgere funzioni di commissariamento piuttosto che di azione preventiva. In questo senso, a dispetto di ogni celebrazione della sovranità nazionale, può essere utile accelerare la definitiva transizione del sistema di vigilanza alla Banca centrale europea che pare meno disposta a concedere margini di arbitrio interpretativo delle condizioni dei singoli istituti, magari amplificati dal sostegno della politica.
Non è un caso, forse, che le più recenti criticità conosciute da istituti di credito italiani abbiano riguardato proprio quelli non vigilati dalla Bce e ancora sotto il controllo di Via Nazionale.

Il secondo aspetto è costituito dalla costante necessità dell’intervento dello Stato per scongiurare che gli effetti dei vari tracolli bancari diventino veri e propri disastri sociali; un intervento che si è rivelato negli ultimi anni decisamente costoso. Per mettere in fila il conto assai salato bisogna considerare i quattro miliardi di euro versati dal Tesoro al Fondo interbancario di risoluzione per accompagnare il passaggio di Banca Marche, Banca Etruria e Carichieti a Ubi Banca e quello di Cariferrara a Bper banca, i cinque miliardi di aiuti veri e propri mirati a rendere possibile il rilevamento della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca da parte di Intesa Sanpaolo che ha acquisito le due banche al prezzo simbolico di 1 euro, i 630 milioni spesi per le Casse di risparmio di Rimini, Cesena e San Miniato e le garanzie necessarie per la Banca del Fucino e per Carige.

A tutto ciò è necessario aggiungere i 5,4 miliardi destinati alla ricapitalizzazione “precauzionale” nell’ambito di un piano complessivo di ben otto miliardi e il sostegno di 1 miliardo indirizzato tramite Mediocredito centrale alla Popolare di Bari. L’effetto di tali interventi, che hanno totalizzato un contributo pubblico di oltre 20 miliardi di euro in pochissimo tempo, è stato quello di una sorta di nazionalizzazione, molto accelerata, di pezzi del credito italiano a cui si aggiungerà, a breve la costituenda Banca del Sud, di nuovo partorita da Mediocredito e contraddistinta da una strategia statale di investimenti nel Sud, altrimenti troppo onerosi per il mercato. In molti casi l’intervento è passato dal Fondo interbancario con il contributo delle banche stesse ma quasi sempre, come accennato, si è rilevato indispensabile il supporto pubblico che è stato decisivo anche attraverso l’emissione di consistenti garanzie, fondamentali per le obbligazioni bancarie, ancora una volta troppo costose senza “sussidio”.

Dunque, il mercato del credito italiano dimostra, non di rado, di non saper funzionare senza la presenza statale, tanto da far immaginare un ritorno agli anni precedenti il 1993 e le privatizzazioni, con lo Stato banchiere di antica memoria riportato in auge nonostante i tanti divieti europei di aiuti di Stato: divieti non rispettati pure in varie realtà del Vecchio continente e smentiti dalla Corte di Strasburgo nella pessima vicenda di Tercas.

A questi due aspetti occorre aggiungere una terza considerazione. Gli istituti che risultano più solidi manifestano la contraddizione evidente di garantire dividendi di tutto rilievo agli azionisti procedendo al contempo a ridurre drasticamente il personale. Nell’ambito di un piano che prevede l’incremento degli utili di 5 miliardi di euro in tre anni, Unicredit ha deciso di varare ben 8mila esuberi, sostenendo l’esigenza di andare in tale direzione per migliorare la remuneratività dei propri titoli. In tale ottica la scelta chiara di privilegiare il valore delle azioni genera un inaccettabile abbattimento del personale che trasforma il credito in un settore totalmente finanziarizzato, in cui i tempi e l’entità delle remunerazioni prevalgono sulla struttura “industriale” della banca stessa e, spesso, sulla natura produttiva degli investimenti finanziati. Il sistema bancario italiano si dibatte così fra la statalizzazione, dettata dalle sue inefficienze, e la turbo-finanziarizzazione a caccia forsennata di iper-efficienza, due dimensioni -in parte entrambe patologiche- che per ragioni diverse hanno bisogno di una buona tenuta del debito italiano perché senza la possibilità di indebitarsi a basso prezzo non si fanno i salvataggi e senza spread bassi le turbo-banche magari hanno qualche margine in più ma non si finanziano. In fondo, come la si metta, abbiamo bisogno dell’euro.

Università di Pisa

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