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Parole per le moltitudini – Ae 28

Numero 28, maggio 2002Cosa c'è di più importante, davanti al magma incandescente di un movimento che nasce, di coloro che trovano le parole per rappresentarlo? Di quelli che costruiscono le lenti attraverso cui i soggetti in campo provano a darsi…

Tratto da Altreconomia 28 — Maggio 2002

Numero 28, maggio 2002

Cosa c'è di più importante, davanti al magma incandescente di un movimento che nasce, di coloro che trovano le parole per rappresentarlo? Di quelli che costruiscono le lenti attraverso cui i soggetti in campo provano a darsi volto e ruolo? Ecco perché, intorno al mondo no/new global si è da tempo aperta una partita intellettuale a cui AltrEconomia ha deciso di dedicare qualche pagina. L'occasione è il grande successo che Impero, il libro scritto a quattro mani da Toni Negri e Michael Hardt sta avendo anche nel mercato italiano, dopo il boom ottenuto nelle Americhe e nel resto d'Europa. Ma Impero è solo l'ulteriore di una serie di pubblicazioni, da Oltre il Novecento di Marco Revelli a La Comunità maledetta di Aldo Bonomi solo per citarne alcuni, che hanno fatto del dialogo con questo nascente arcipelago no o new global uno dei punti qualificanti della propria ricerca.

È utile provare a leggere insieme questi libri. Primo perché i concetti essenziali con cui si finisce per operare vengono elaborati spesso dietro le quinte, e dunque è il caso di fare un po' di luce. Secondo perché in tutti questi autori esiste un fondamento comune: pur nella diversità di prospettive, concordano nel dire che la globalizzazione, o come si voglia chiamarla, ha determinato una radicale cesura storica rispetto al passato sia in fatto di economia, che di politica che di società. E che per disegnare un profilo in grado di reggere l'urto del cambiamento, bisogna produrre un salto di paradigma rispetto al passato. Un salto, va bene, ma verso dove?

Lo sforzo delle pagine che seguono è quello di tracciare un profilo delle tante prospettive che stanno in campo e che in parte, ma solo in parte come vedremo, si riflettono anche nelle anime politiche attraverso cui il movimento si va costituendo.

Il discrimine è allora molto meno la dicotomia giornalistica tra moderati e ala dura, new e no global, cattolici e sinistra. In campo, per dirla con una parola impegnativa ma che cercheremo di snocciolare, ci sono differenti prospettive antropologiche: differenti modi cioè di valutare quello che noi siamo oggi, il passato da cui veniamo, il contesto in cui la globalizzazione ci proietta, le priorità che ci si possono prefiggere.

Per farlo abbiamo scelto di approfondire una serie di parole chiave, quelle che ci sembrano le più adatte per mettere in risalto identità, differenze e conflitti nelle culture di un movimento che, facendo della rete la sua metafora più calzante, è giocoforza aperto alla circolazione e alla sovrapposizione delle più differenti e perché no? a volte anche irriducibili posizioni.

Ne siamo convinti, libri e parole d'ordine diverse, si riflettono largamente su comportamenti e azioni: varcare o no la zona rossa, stare o meno col sindacato, fare i bilanci di giustizia oppure gli hackers.

La politica dell'Impero
Nell'interpretazione quasi religiosa che ne danno Negri e Hardt, l'attuale costituzione mondiale sarebbe quella dell'Impero. Per Impero i due autori intendono tutt'altro rispetto alla vecchia idea leninista di imperialismo, che derivava piuttosto dalla proiezione delle sovranità statali su scala internazionale. Ma oggi è proprio il paradigma che fa capo agli Stati sovrani, così come formulati nella modernità, che è saltato. Ma non con esso il nocciolo duro del potere, dicono Negri e Hardt, diversamente da quello che credono gli autori postmodernisti. Il potere assume infatti oggi la figura mista dell'Impero, in cui convivono tirannide e democrazia, inclusione ed esclusione, circolazione e repressione.

L'Impero ha il volto del progetto costituzionale americano, ma non tanto perché gli Usa sarebbero l'Impero del mondo, quanto perché proprio essi per primi hanno realizzato una idea vincente di politica, quella della perenne apertura, della rete dei poteri, del superamento delle frontiere, del pragmatismo. L'Impero è questo contesto pervasivo in cui tutti siamo, dalle multinazionali alle ong, rispetto al quale è patetico, dicono Negri e Hardt, pensare di resistere in nome del locale, dei vecchi Stati, del piccolo è bello, del rimpianto per i tempi passati. “Nello spazio liscio dell'Impero non c'è un luogo del potere &endash; il potere è, a un tempo, ovunque e in nessun luogo. L'Impero è un'utopia, un non luogo”. Esso è sempre in crisi, più che un colosso appare “come un guscio vuoto ed un parassita”. La sua forza è nella flessibilità, pervasività, capacità di metabolizzare anche le lotte e le resistenze in nome dello spettacolo.

Ma tutto sommato, concludono Negri e Hardt, l'Impero va nella direzione giusta, quella della confusione mondiale delle culture, la moltitudine appunto. Altro che no global, dunque.!!pagebreak!!

L'economia del postfordismo
Dove, se non nella fisionomia del lavoro, la globalizzazione ha lasciato con più forza il segno della sua impronta? Richiamiamo brevemente il salto di paradigma che ha sconvolto il panorama produttivo nell'ultimo ventennio, dall'avvento in massa del personal computer più o meno. Dal grande al piccolo, dal pesante all'immateriale, dalla concentrazione alla disseminazione sul territorio, dal lavoro dipendente a quello autonomo più o meno subordinato, dal tenere dentro un'unica azienda tutto il ciclo produttivo al conto terzi, dalla distinzione tra luogo della produzione (la fabbrica) e luogo degli affetti (la casa) al sempre più frequente produrre in casa, dall'economia della chimica e della meccanica a quella che usa sempre di più il linguaggio come materia prima, dalla sindacalizzazione di massa a … Già proprio questo è il punto dolente di queste analisi. Come rappresentare un mondo del lavoro completamente rovesciato nella sua forma, passato dalla solidarietà di classe di chi viveva e lavorava fianco a fianco giorno dopo giorno e aveva davanti a sé negli anni la stessa controparte sociale, alla frammentazione estrema di tanti singoli che entrano ed escono dal mercato del lavoro e competono l'uno contro l'altro? Intorno a questa aporia c'è la riflessione comune di questi libri.

La società del biopotere
È una delle parole chiave di Impero, ma anche tipica della prospettiva attraverso cui sociologi come Bonomi indagano i mutamenti che il capitalismo ha determinato sulla vita personale. Biopotere, biopolitica, sono termini introdotti negli anni settanta dal filosofo francese Michel Foucault, geniale indagatore delle modalità attraverso cui, nella storia moderna dell'Occidente, il potere ha lavorato dentro la società per costruire le sue istituzioni attraverso un lavoro incessante di inclusione ed esclusione.

Biopolitica letteralmente vuol dire politica che si occupa della vita, e ciò sta a significare, nella prospettiva inaugurata da Foucault e poi ulteriormente sviluppata da autori come Gilles Deleuze e Felix Guattari, quel progressivo slittamento di accento per cui, negli ultimi secoli, il potere ha sostituito al suo imperativo classico &endash; far morire e lasciar vivere &endash; il più complesso far vivere e lasciar morire. Concretamente ciò significa abbandonare la vecchia idea del potere, come qualcosa di repressivo, e enfatizzarne maggiormente gli aspetti seduttivi, inclusivi, tutto quel complesso di pratiche, politiche, tecnologie volte a tutelare, governare e far crescere la vita di intere popolazioni (pensiamo alle politiche sociali, a quelle della qualità della vita, alle biotecnologie, solo per citare qualche forma di questo trionfo della biopolitica).

Se il capitalismo avvolge completamente l'esistenza del soggetto, se l'economia “mette al lavoro” gli aspetti più personali e quotidiani della vita umana, intelligenza, creatività, tempo libero, come avviene nella società dello spettacolo o nei “distretti del piacere”, vuol dire che siamo di fronte ad una modificazione reale delle modalità attraverso cui i poteri funzionano sugli individui.

Resistenza o attraversamento
Affrontiamo la prima grande dicotomia, i cui riflessi si stendono come ombre sui differenti stili che convivono nella galassia di Porto Alegre.

Se mettiamo ad un estremo dell'arco Negri e Hardt con Impero, troviamo all'altro estremo tutte quelle forme, più o meno eredi del classico testo degli anni settanta di F. Schumacher, “Piccolo è bello”, che hanno pensato in termini di micro-alternative e non di attraversamento la questione dei poteri globali.

Nel primo caso, Negri e Hardt, c'è una piena assunzione del carattere invalicabile dell'Impero, rispetto al quale non c'è più alcun fuori, non ci sono spazi che si sottraggono alla sua logica pervasiva. C'è che si può disertare, lo vedremo a proposito della figura della moltitudine, oppure, soprattutto, nella logica dell'esodo, attraversare fino in fondo l'Impero, sino a uscirne dall'altra parte. Dove ci sarà il regno dei cieli agognato da questi autori (sono loro più volte nel testo ad usare la dicotomia religiosa di città terrena e città celeste che è propria di Sant'Agostino).

È una logica anticapitalistica certamente, ma global sì. Nessuna nostalgia per il passato. Anzi, con gli occhi di Marx, è proprio il passaggio dell'Impero come un rullo compressore a creare le condizioni della sua sconfitta. La globalizzazione significa il massimo di opportunità … per gli antiglobal.

Dall'altra parte, un proliferare dentro il movimento di posizioni convinte che l'oggi sia segnato da un peggioramento delle condizioni di vita del pianeta. Un certo ambientalismo che legge la corsa in avanti della globalizzazione come esaurimento del serbatoio di risorse naturali del pianeta. Un certo nazionalismo, che vede nell'abbattimento delle frontiere e delle protezioni economiche ai prodotti locali la longa manus dell'imperialismo. Lo stile lillipuziano che fa fatica a pensare di poter contaminare o attraversare i Gulliver globali e preferisce l'idea, cara ad autori come Serge Latouche, di dare vita a circuiti economici alternativi, equosolidali, informali, capaci di sottrarre una parte esemplare di spazi al mercato globale.

Una certa cultura lavorista, legata al periodo aureo delle lotte sindacali e delle garanzie del mercato del lavoro che vede l'avanzare della globalizzazione, e soprattutto il trasferimento di grosse quote di produzione in zone a scarsa tutela sindacale, come il fumo negli occhi (è il caso delle grandi centrali sindacali del nord del pianeta). Infine, l'antiscientismo e l'allergia all'innovazione tecnologica di buona parte della cultura anche medio-alta di taluni Paesi europei, tra cui l'Italia. Pensatori e sensibilità affascinate dal tema caro al pensiero tedesco di inizio secolo che vede l'avanzare della tecnica su scala planetaria come sradicamento, alienazione, distruzione dei legami, perdita del senso e del controllo sociale dei processi. Una cultura che si rifiuta di leggere gli aspetti progressivi dell'innovazione tecnologica anche sul terreno della partecipazione e dei legami sociali.

Da non dimenticare, come collante di questo polo che non è scorretto definire anti global, due importanti fattori facenti funzione di collante.

A volte, ma non necessariamente sempre, anche in maniera congiunta.

L'antiamericanismo, che è una delle forme più significative che assume il risentimento contemporaneo nei confronti dei vincitori. E il sottofondo religioso, spesso sottovalutato nelle analisi sul movimento. Non è un caso che fu praticamente solo la santa Sede, tra i vari Stati, a sostenere le rivendicazioni della piazza in occasione della vicenda Seattle. Come non è un caso che a Porto Alegre sia stata l'Università cattolica locale ad ospitare i lavori del Forum sociale mondiale.

La resistenza religiosa alla modernizzazione economica è in ultima analisi radicata nella mancata accettazione, così persistente tuttora in ampie fasce del mondo cattolico ad esempio, dell'etica del mercante.

È l'idea cioè che fare profitti, avere successo mondano, rimanga una cosa cattiva, perniciosa, da cui guardarsi. Bisogna fare gli interessi di tutti, non i propri.

Netta è la bocciatura di questa linea di pensiero nel testo di Negri e Hardt: “occorre aggiungere, contro tutti i moralismi, contro il risentimento e le nostalgie, che questo nuovo terreno imperiale offre enormi possibilità creative e di liberazione. La moltitudine, nella sua volontà di essere contro e nel suo desiderio di liberazione, deve spingersi dentro l'Impero per uscirne dall'altra parte”. Qui davvero c'è una biforcazione netta dentro le culture del movimento. E su questa si giocherà buona parte della partita politica e culturale dei prossimi anni.!!pagebreak!!

Moltitudine o comunità. Volontario o militante
Se restringiamo ora la nostra attenzione al primo polo, coloro cioè che accettano come inevitabile il quadro globale, al di là degli accenti più o meno enfatici (è un bene, come dicono Negri e Hardt, è un male da sopportare, come pensano altri), le vere alternative in campo sembrano essere proprio queste: moltitudine o comunità; militante o volontario.

Moltitudine, come noto, è la parola chiave della strategia anti impero di Negri e Hardt. “La moltitudine contro l'Impero” si intitola l'ultima parte del libro. Cosa vuol dire moltitudine?

La parola ha rilevanza filosofica. Le sue origini sono in Machiavelli ma soprattutto in Spinoza, autore caro a Negri. Tanto nell'area cattolico pacifista si esaltano i popoli, tanto Negri e la sua ala hanno a cuore la moltitudine. Il popolo è quello che unisce in un'unica volontà e si rappresenta (nel sovrano, nello Stato, nel partito). Non così la moltitudine, dentro la quale i molti conservano ciascuna la propria volontà e non la delegano ad alcuno.

Più che nelle richieste (salario sociale, diritto di riappropriazione, controllo dei propri movimenti, attraversamento delle frontiere), su cui una larga gamma di autori è d'accordo, è tuttavia sull'antropologia che la proposta di Negri e Hardt si pone in antitesi con quel versante che mette l'accento sulla libera comunità dei volontari.

“Noi siamo i padroni del mondo, noi che lo generiamo continuamente con il nostro desiderio e con il nostro lavoro”. Così Impero. Proprio questa antropologia, è quella che si sentirebbe di rifiutare la linea che da Revelli in avanti ha invece enfatizzato il ruolo del volontario a discapito del militante. Perché il militante, è questa l'obiezione, contiene in sé il germe di una certa politica, che si pensa di ferro, capace di stravolgere il mondo secondo i suoi desideri, Autori come Bonomi e Revelli invece ri-invitano a scoprire la finitudine, la limitatezza, la fragilità dell'agire. La complessità aggiungeremmo noi: posso fare “a” ma il risultato potrebbe essere “b”, oppure “a alla millesima potenza”, oppure “&endash;a”.

Categorie che Negri tutto sommato respinge. “Solo una metafisica delirante, scrive, può pretendere di rappresentare l'umanità come isolata e impotente. Solo un'antropologia patologica può definire l'umanità negativamente”. (Impero, pagina 359). La moltitudine diviene così il contenitore di questa soggettività senza limiti che attraversando nomadicamente l'Impero intende manifestare la propria posse, la propria potenza.

Tutt'altro stile la proposta di Bonomi, che più volte polemizza apertamente nel suo ultimo lavoro con “chi fa della moltitudine il soggetto che conquisterà l'impero”. La “comunità maledetta”, dice in apertura, “è un racconto in difesa del volontario, del suo mettersi in mezzo nei ghetti metropolitani (…), del suo accompagnare i naufraghi dello sviluppo”. Fra le tante reazioni alla globalizzazione, Bonomi, senza escludere l'uso della critica e del conflitto, sostiene “un agire moderato” che “accetti la sfida dell'innovazione, occupandosi di coloro che questa lascia sul terreno sociale, senza nostalgie conservative e senza inseguire, in forma militante, la presa del potere in nome della moltitudine”.

Ugualmente, benché uscito in Italia qualche anno prima, “Oltre il Novecento” di Revelli sembra scritto apposta per replicare all'idea negriana di moltitudine. “L'unica figura della ribellione e della solidarietà che, oltre la soglia par di vedere, ancora confusa tra le ombre del futuro, è quella, fragile e incerta, ancora rarefatta e debole, del Volontario, figura aurorale, dal profilo sfumato, certamente diversa da quella del militante novecentesco. (…); per l'uso che fa della propria debolezza come punto di forza e della propria disseminazione (refrattaria a ogni idea di centralizzazione) come forma di presenza; per il suo carattere irriducibilmente “impolitico”. Assumerlo come riferimento per un nuovo inizio comporta &endash; è bene esserne consapevoli – una buona dose di rischio e iconoclastia. Significa rinunciare alla vecchia, cara alla sinistra &endash; a tutte le sinistre &endash; teoria del soggetto”.

Come Bonomi, Revelli pensa un'uscita debole dalle contraddizioni terribili che il Novecento ha avuto e sulle quali Negri e Hardt saltano a piè pari (perché la liberazione sia divenuta tirannide, perché in nome degli ideali dell'uomo si siano costruiti i gulag). Tutto si è invertito nel Novecento: il sogno di riscatto ed emancipazione di grandi masse sfruttate e colonizzate, le promesse della tecnica e del lavoro come strumenti al servizio di un'umanità finalmente padrona di sé, la figura del militante votato alla liberazione degli oppressi e presto divenuto meschina icona di un'oppressione per certi aspetti ancora più ferrea. Per questo quello che ci serve oggi è “un oltre”, non un semplice “dopo”, dice Revelli. Per questo “il Novecento deve finire. Perché solo così può riprendere la ricerca dal punto in cui il percorso aveva deviato e s'era perduto; di là dove la pratica della solidarietà si era confusa con la mistica del potere…”. Il ritorno dell'uomo solidale auspicato da Revelli ha insomma poco a che fare con la nuova militanza invocata nelle ultime pagine da Negri, “la chiarezza e la gioia incontenibile di essere comunisti”, come si chiude Impero.

I caratteri che Revelli auspica rompono drasticamente con quella tradizione: “Più che col gigantesco Gulliver, dal corpo pesante e distruttivo, è dunque con i minuscoli (ma numerosi e mobili) lillipuziani che s'identifica praticando una saggezza che all'homo faber era sconosciuta. (…) Se un'inversione di rotta è possibile dunque immaginare essa non potrà provenire né dalla mano invisibile delle derive impersonali dell'economia, né da quella visibile di una qualche avanguardia dotata di un'adeguata tecnologia del potere, bensì dalla scelta consapevole di un numero ampio d'individui liberamente cooperanti nel compito impervio di vivere qui e ora -non di progettare, né tantomeno di costruire, ma praticare- rapporti sociali radicalmente diversi”.

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