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Il Parlamento svuotato nel nome della “volontà popolare”

Il Parlamento, pur depotenziato dall’ampio uso dei decreti urgenti del Governo, è rimasto a lungo il luogo della politica italiana. Ora, però, si riaffaccia la proposta strumentale di contrapporlo al “popolo”, prefigurando elementi di una distorta democrazia diretta. L’analisi di Alessandro Volpi

L’idea di un referendum propositivo rischia di indebolire ulteriormente il ruolo del Parlamento, cancellando una parte importante della storia del nostro Paese; una funzione già minata dall’abuso della decretazione d’urgenza in nome dell’efficienza normativa e, di recente, violata dalle modalità di approvazione della legge di Bilancio.

Le vicende italiane, infatti, sono state a lungo contraddistinte dalla centralità delle Camere soprattutto per porre in essere le grandi riforme in grado di incidere sul tessuto della società. Così è avvenuto nel Parlamento piemontese, dove Cavour organizzò una maggioranza di “connubio” fra centro-destra e centro-sinistra per avviare la laicizzazione dello Stato.
Così è accaduto, nei decenni seguenti all’Unità, con i governi della Destra storica e, ancor di più, con il trasformismo della Sinistra di Agostino Depretis per il quale la politica vera, quella delle riforme espresse dalla legge Coppino sull’istruzione e dalla legge elettorale che introduceva l’alfabetismo come requisito per il godimento del diritto di voto, si costruiva entro le aule parlamentari dando vita ad intese impossibili al di fuori di esse, in un paese diviso dal divieto per i cattolici di prendere parte alla vita politica e dalla matrice rivoluzionaria di anarchici e socialisti.

Anche nella fase giolittiana il Parlamento era il luogo pressoché esclusivo della rappresentanza politica, dominato dai liberali, privi di un vero e proprio partito, e dal gruppo parlamentare socialista che manteneva una sostanziale autonomia, e una accorta linea riformista, rispetto alle indicazioni “massimaliste” del Partito; persino il Patto Gentiloni, con cui i cattolici prendevano parte, con molta circospezione, alle elezioni a suffragio universale del 1913, aveva i tratti dell’operazione parlamentare e, nel 1919, il primo partito dei cattolici, il Partito popolare di Sturzo, si dichiarava convintamente parlamentarista e proporzionalista proprio per rafforzare la capacità del Parlamento di rappresentare il paese.

Fino al fascismo dunque, le discussioni parlamentari esprimevano i contenuti della vita sociale, economica e politica italiana, dal dibattito sulle infrastrutture e sulle banche, ai temi dello Stato sociale, alle questioni dell’emigrazione e del debito pubblico. Dopo il secondo conflitto mondiale, la Costituzione repubblicana ribadiva la centralità parlamentare, a cui si uniformarono i partiti, nella convinzione diffusa che una realtà così composita e divisa come quella italiana, uscita dal fascismo, avesse bisogno di una sede in cui rappresentare tutti i cittadini; una convinzione tanto forte da scatenare nel 1953 un aspro conflitto, in primis parlamentare, contro la “legge truffa”, a cui veniva imputato di snaturare proprio la sacralità della rappresentanza parlamentare. Il Parlamento è rimasto decisivo nella stagione del centrismo, del centrosinistra, del Compromesso storico e del Pentapartito; tutte fasi nelle quali le trasformazioni nella struttura del Paese passavano attraverso la composizione di maggioranze parlamentari. Le condizioni di fondo di questa tradizione non sono cambiate molto nella seconda repubblica, quando l’assenza di vincoli di mandato ha generato frequenti passaggi di parlamentari da uno schieramento all’altro e ha ingrossato a dismisura il gruppo misto.

Il Parlamento, pur depotenziato dal già ricordato, ampio uso dei decreti è rimasto il luogo della politica, mentre i vecchi partiti si liquefacevano e si ricomponevano e le “nuove” forze si impegnavano a modificare il quadro salvo poi, dopo le elezioni del 2018, dare vita ad un governo di contratto che costituisce il frutto della più classica operazione parlamentare, non votata dagli elettori. Come accennato in apertura non sono mancati però i tentativi di smontare il parlamentarismo italiano in nome di volontà presidenzialistiche, di ipotesi di riforma costituzionale e di più celeri procedure di approvazione delle leggi. Il referendum propositivo, senza quorum, aggiungerebbe a questo repertorio la prospettiva della “concorrenza” fra Parlamento e “volontà popolare” nella realizzazione dell’apparato normativo; o meglio finirebbe per contrapporre Parlamento e “popolo”, prefigurando elementi di una distorta democrazia diretta. Si tratta, anche in questo caso, di una visione che ha avuto precedenti nella storia italiana quando qualcuno ha ritenuto utile individuare una volontà popolare distinta da quella espressa dal Parlamento eletto; basti pensare all’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale, voluto dal re e da una minoranza del Paese che, però, come recitava il vate D’Annunzio, interpretava meglio del morto Parlamento il sentire del popolo. Oppure, basti pensare alla legge elettorale del 1928, per la quale il Gran Consiglio del fascismo, dando voce alla “volontà popolare”, sceglieva 400 nomi illustri e li sottoponeva ad un voto puramente plebiscitario. Certo la storia del Parlamento italiano ha avuto luci ed ombre, ma sembra davvero che le soluzioni alternative siano decisamente peggiori.

Università di Pisa

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