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La pandemia in Palestina e le responsabilità di Israele: il richiamo dell’Onu

Nei Territori occupati il rischio di diffusione del Covid-19 può rappresentare un pericolo ancora più serio per la vita delle persone e per il rispetto dei diritti umani. In particolare nella Striscia di Gaza. La denuncia di Michael Lynk, Special rapporteur delle Nazioni Unite

Betlemme, estate 2019 - © Manuela Valsecchi

Nei Territori palestinesi occupati il rischio di diffusione del virus Covid-19 può rappresentare un pericolo ancora più serio per la vita delle persone e per il rispetto dei diritti umani. In Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, secondo quanto rilevato dall’Organizzazione mondiale della sanità, al 22 marzo 2020 erano 59 le persone “positive”, che vanno ad aggiungersi nell’area ai 883 contagiati in Israele. Per fronteggiare la pandemia il governo di Tel Aviv, l’Autorità nazionale palestinese e Hamas hanno già adottato misure di protezione ad ampio raggio che hanno comportato rigide restrizioni di spostamenti e viaggi, l’annullamento di eventi pubblici, l’istituzione di aree sottoposte a quarantena e la chiusura di scuole e luoghi di culto.

Tutto questo, secondo Michael Lynk, Special rapporteur delle Nazioni Unite per i Territori, non è però sufficiente. “L’articolo 56 della quarta Convenzione di Ginevra richiede infatti che Israele, ovvero la potenza occupante, garantisca che tutti i mezzi a sua disposizione siano utilizzati per combattere la diffusione di malattie ed epidemie contagiose”, ha chiarito il 19 marzo esortando Israele, l’Autorità palestinese e Hamas ad assumersi le proprie responsabilità legali internazionali e ad assicurare che il diritto alla salute sia pienamente garantito ai palestinesi di Gaza e della Cisgiordania -compresa Gerusalemme Est- durante questa fase di diffusione della pandemia.

Lynk ha anche esplicitato che le autorità hanno “il dovere di fornire i servizi sanitari essenziali e di applicare le misure sanitarie in modo non discriminatorio”. Una raccomandazione non scontata. Le prime indicazioni del ministero della Salute israeliano per sensibilizzare le persone sul Coronavirus sono state diffuse in ebraico, senza fornire alcuna informazione in arabo: “Questo grave squilibrio è stato apparentemente risolto dopo le proteste, ma sottolinea l’importanza di garantire la parità di trattamento” ha spiegato il Relatore speciale, aggiungendo che “nel contenere e respingere questa pandemia Israele, l’Autorità palestinese e Hamas devono utilizzare un approccio incentrato sui diritti umani”. Ciò vuol dire che tutte le persone sotto la tutela di queste autorità devono godere della parità di accesso ai servizi sanitari e della parità di trattamento.

Ma in questo caso Israele si trova già in una condizione di profonda violazione dei suoi obblighi internazionali per quanto riguarda il diritto alla salute dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione. Le significative restrizioni al movimento dei pazienti e degli operatori sanitari compromettono infatti l’accesso dei palestinesi ai servizi sanitari e nel contesto del Covid-19, nel quale le condizioni delle persone colpite si aggravano rapidamente, un ritardo nell’arrivare in ospedale può essere fatale: “Qualsiasi restrizione ai diritti umani, come l’accesso ai servizi sanitari o la libertà di movimento, deve essere strettamente giustificata, proporzionata e deve essere limitata solo per un periodo di tempo non superiore a quello necessario e in modo non discriminatorio”, ha aggiunto Lynk. Un tema sul quale le rispettive autorità “devono affrontare immediatamente qualsiasi comportamento razzista, xenofobo e bigotto nel combattere la  pandemia; sia che questo si traduca in un diverso trattamento durante l’erogazione di assistenza sanitaria, nell’imposizione di restrizioni o in attacchi tramite social media e altri canali digitali nei confronti di individui accusati di essere infetti o in qualunque altro modo. La discriminazione e il razzismo devono essere combattuti con un’informazione pubblica affidabile e con nette prese di distanza”.

Una riflessione a parte la merita la situazione nella Striscia di Gaza. Qui il sistema sanitario stava crollando anche prima della diffusione del Covid-19: le scorte di farmaci essenziali sono cronicamente basse, le fonti naturali di acqua potabile sono in gran parte contaminate e il sistema elettrico fornisce energia in maniera sporadica. “Sono particolarmente preoccupato per il potenziale impatto del virus a Gaza, dove la povertà è profonda e le condizioni socio-economiche sono spaventose in tutta la Striscia -ha chiarito infine Lynk-. La popolazione è fisicamente più vulnerabile per via della crescente malnutrizione, dello scarso controllo sulle malattie non trasmissibili, per la densità abitativa (pari a oltre 5mila abitanti per chilometro quadrato, ndr) e per le condizioni degli alloggi, per la presenza di una fascia di persone anziane che non hanno accesso alle cure adeguate e un alto tasso di fumatori”. Una potenziale epidemia su larga scala costituirebbe un’altra enorme pressione sugli operatori sanitari di Gaza che già stanno affrontando con risorse inadeguate il lascito di tre offensive militari dell’ultimo decennio, oltre a dover curare migliaia di feriti causati dalla repressione delle proteste della “Grande marcia del ritorno”.

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