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Pallone equo: anatomia di un progetto controverso – Ae 4

Numero 4 – febbraio 2000Sialkot, nel nord del Pakistan, non è il posto più raggiungibile del mondo. L'aeroporto più vicino è a tre ore di autobus e non è collegato con nessuna città europea. Morale della favola, chi viene da…

Tratto da Altreconomia 4 — Marzo 2000

Numero 4 – febbraio 2000

Sialkot, nel nord del Pakistan, non è il posto più raggiungibile del mondo. L'aeroporto più vicino è a tre ore di autobus e non è collegato con nessuna città europea. Morale della favola, chi viene da Roma deve stare in viaggio almeno un giorno e una notte con soste interminabili in aeroporti intermedi. Eppure questa città, così fuori mano, rifornisce tutto il mondo di palloni.
Come sia potuto accadere che questa zona così remota si sia specializzata nella produzione di palloni, e perfino di ferri chirurgici, rimane un mistero legato alla colonizzazione. Si narra che tutto sia cominciato un centinaio di anni fa con un artigiano che si contraddistinse per la sua abilità nel cucire palloni richiesti da funzionari e soldati inglesi di stanza nella regione. La fama si sparse a macchia d'olio e in breve Sialkot venne invasa da ordini provenienti da tutto l'impero britannico.
Per fabbricare palloni bastavano un paio di forbici, un punteruolo, ago e filo. Un'attrezzatura, insomma, alla portata di tutti e in molte case si svilupparono piccoli laboratori domestici che coinvolgevano ogni membro della famiglia. All'inizio ogni laboratorio giungeva al prodotto finito partendo dal foglio di cuoio. Solo la camera d'aria veniva comprata già pronta. Ma attorno al 1980 le prime fasi di lavorazione si industrializzarono e a domicilio rimase solo la parte finale, quella della cucitura. Ciò costituì una rivoluzione non solo da un punto di vista produttivo, ma anche sociale perché assieme alle fabbriche comparvero anche gli intermediari. A metà degli anni Novanta si afferma una piccola “catena di montaggio”: le fabbriche producono i pezzi da assemblare (ormai non più in cuoio, ma in Pvc) e si rivolgono a intermediari che provvedono a farli cucire a domicilio per salari così infami da spingere le famiglie a far lavorare anche i bambini pur di racimolare qualche centesimo in più.
Nel 1995 il pakistano Zia-ul-Haq denuncia questa tragica situazione e negli Usa parte la campagna Foul Ball Campaign (campagna pallone illegale).
Il resto è storia nota. Le notizie diffuse dalla campagna hanno l'effetto di una bomba e le principali multinazionali di articoli sportivi, già al centro di aspre polemiche per le pessime condizioni di lavoro esistenti nelle loro appaltate asiatiche e centroamericane, si ritrovano in una situazione imbarazzante. Le prove sono così schiaccianti che è inutile negare e tanto vale cercare un rimedio.
La soluzione giunge nel febbraio 1997 con la firma di un accordo (battezzato Accordo di Atlanta) fra l'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), l'Unicef e la Camera di commercio di Sialkot.
L'accordo propone alle imprese di palloni di Sialkot di aderire volontariamente ad un progetto articolato su tre impegni:
1) ricondurre il lavoro all'interno di centri di cucitura controllabili;
2) accettare visite periodiche di ispettori inviati dall'Oil all'interno dei centri di cucitura per verificare l'assenza di minori di 14 anni;
3) versare all'Oil una quota pari a 0,53 rupie (=10 lire), per ogni pallone fabbricato (quota destinata al sistema di monitoraggio).
Il progetto prevede anche una raccolta di fondi per finanziare interventi di tipo scolastico e progetti di microcredito a favore delle famiglie di cucitori.
A molte associazioni l'Accordo di Atlanta non piace perché tenta di eliminare il lavoro minorile senza affrontarne le cause. Fra le realtà che muovono questa critica c'è anche TransFair International che ha già maturato una proposta alternativa.
Il punto di partenza è che il lavoro minorile si elimina garantendo salari dignitosi agli adulti. Nel 1996 si incomincia a parlare della possibilità di un “progetto pallone equo”.
TransFair Italia, membro di TransFair International, decide di contribuire all'iniziativa con una raccolta fondi di 50 milioni per coprire le spese di verifica.
La missione di studio viene affidata a Martin Kunz, all'epoca segretario di TransFair International, che nel corso del 1997 compie tre viaggi in Pakistan. Mentre l'indagine è in corso, le associazioni di garanzia del commercio equo maturano l'idea di federarsi in un'unica organizzazione. Nasce così Flo che, per varie ragioni, decide di avere un atteggiamento prudente nei confronti del progetto pallone.
Nel frattempo però in Pakistan è stato individuato un produttore disposto a coinvolgersi nel progetto e Coop e Ctm Altromercato hanno dato la propria disponibilità ad acquistare palloni equi; Flo consente quindi la prosecuzione del progetto in via sperimentale.

I partner del progetto
TransFair Italia prosegue da sola. È Martin Kunz (che non è più segretario di TransFair International ma responsabile di Fair Trade e. V., un'associazione senza fini di lucro sorta in Germania nel 1994 per fornire consulenza ai produttori del commercio equo e solidale) a definire nei dettagli i contenuti e le modalità di gestione del progetto.
Così nel marzo 1998, Coop fa il primo ordine di palloni equi che non recano né il marchio TransFair, né quello di Flo bensì quello di Fair Trade e. V. In definitiva il progetto è di Fair Trade e. V. che, oltre ad essere proprietario del marchio, è anche ideatore, gestore e garante della corretta esecuzione del progetto. Quanto a TransFair, il suo ruolo è di mantenere i rapporti con i distributori italiani ai quali sono anche richieste 750 lire a pallone per il pagamento di tutte le attività di gestione e di verifica del progetto.
Quando Martin Kunz, nel 1997, riceve il mandato da TransFair Italia prima di tutto tenta di capire se a Sialkot esiste un produttore sensibile ai temi sociali. Foul Ball Campaign gli fa il nome di Talon Sport come quello di un'impresa fortemente impegnata per l'eliminazione del lavoro infantile.
Da allora Talon diventa il partner del progetto “palloni equi”. L'attività principale dell'impresa (di proprietà di quattro fratelli) è la fabbricazione di palloni, ma si sta espandendo anche nell'abbigliamento. La struttura produttiva di Talon è piuttosto complessa perché ricorre ampiamente al lavoro in appalto. In effetti, su 2.400 persone che lavorano per lei solo 200 sono iscritte sui suoi libri paga. Le altre lavorano sotto vari contrattisti (intermediari) che pagano un tanto a pezzo senza nessuna ufficialità e stabilità d'impiego. La legge pakistana prevede che chi svolge un lavoro a carattere continuativo debba essere assunto come permanente. Perciò è di dubbia legalità una formula in cui i lavoratori sono imprenditori di se stessi e giorno per giorno offrono il loro lavoro al contrattista in cambio di un tanto a pezzo.


Lavoro minorile
L'obiettivo principale del progetto “pallone equo” è la lotta contro il lavoro minorile. L'intento è di dimostrare che il lavoro minorile si elimina instaurando rapporti economici equi che garantiscono, prima di tutto, guadagni dignitosi agli adulti. Per questo il progetto si concentra sulla cucitura, la fase in cui tutt'ora si possono trovare bambini. A questo proposito gli aspetti principali del progetto sono tre:
1) maggiorazione del prezzo di acquisto;
2) eliminazione degli intermediari;
3) attenzione per le donne.

Per i lavoratori l'aspetto più interessante del progetto è quello economico ma, per la lotta contro il lavoro minorile, è molto importante anche l'eliminazione degli intermediari. Il fatto è che gli intermediari guadagnano sulla differenza che riescono a creare fra quanto hanno pattuito con l'impresa e quanto spendono per la cucitura. Di qui il loro interesse a collocare il lavoro presso famiglie che si accontentano di poco e che tentano di arrotondare i magri guadagni facendo lavorare anche i bambini. Purtroppo la struttura produttiva di Sialkot continua a basarsi sugli intermediari e ciò, secondo Zia-ul-Ha, della Foul Ball Campaign, rende poco credibile anche il lavoro di controllo svolto dall'Oil.
I funzionari dell'Oil ispezionano i centri di cucitura, ma nessuno sa se questi sono gli unici posti in cui arrivano i palloni da cucire. In altre parole potrebbe succedere che gli intermediari consegnino ai centri controllati solo parte del lavoro e il resto lo portino a domicilio in villaggi lontani dove non è ancora arrivato nessun tipo di controllo.
Secondo Mr. Zia per rendersi conto di come la cucitura di palloni si stia dirigendo verso le zone remote, basta sostare per un'ora agli incroci che portano verso la lontana periferia. In poco tempo si vedono passare in direzione di Sialkot camion e pullman carichi dei classici involucri di tela pieni di bubboni, segno inequivocabile che contengono palloni.
Gli ispettori Oil controllano i centri registrati e non vi trovano neanche un bambino, ma intanto gli intermediari, per guadagnare di più vanno più lontano a sfruttare altre famiglie povere e i loro bambini. In effetti l'associazione “Save the children” afferma che la cucitura dei palloni coinvolge ancora 19.000 bambini.



Le donne

Per quanto riguarda le donne va detto che esse non sono contente che la cucitura sia passata dal domicilio ai centri. Per molte di loro questa scelta ha significato la perdita di lavoro. Il che ha avuto come effetto il loro arretramento nei processi decisionali e una diminuzione delle entrate familiari, ossia impoverimento. Un modo per attenuare l'impatto negativo è di costruire centri femminili. Per questo il progetto prevede che debba essere riservato alle donne almeno il 25 per cento dei centri di cucitura.



Dubbi e verifiche

Dall'inizio del progetto ad oggi, TransFair Italia e Fair Trade e.V. hanno eseguito varie visite in Pakistan e ogni volta hanno riportato che tutto andava per il meglio. Ma nel novembre 1999 Oxfam Belgio e Servv-Usa (due associazioni di commercio equo) hanno avanzato dubbi sulla corretta applicazione del progetto. Pertanto, TransFair Italia ha concordato con Fair Trade e.V. una nuova ispezione alla quale mi è stato chiesto di partecipare. Il viaggio è avvenuto la prima settimana di dicembre del 1999. Dalle visite effettuate in alcuni centri di cucitura e dai colloqui avuti con i cucitori, con la direzione dell'impresa e con altri personaggi interni ed esterni al progetto, ho capito che i cucitori sono soddisfatti delle paghe applicate sui palloni equi e sono soddisfatti dei servizi (prestiti e assistenza sanitaria) messi in atto dal progetto.
Ho anche constatato che Talon ha creato per le donne più opportunità di lavoro di quelle previste dal progetto. Talon è anche intervenuta per migliorare le condizioni ambientali e la sicurezza dei lavoratori in alcuni reparti più critici.
Per contro è emerso che non sono stati eliminati gli intermediari, che il sistema di attivazione dei prestiti non si basa sulla partecipazione dei lavoratori, che non esiste organizzazione sindacale e che il sistema di controllo organizzato per verificare che non avvengano irregolarità è molto lacunoso. In effetti, nel corso dell'indagine sono emersi alcuni aspetti poco chiari nella tenuta dei registri su cui, centro per centro, devono essere annotati i nomi dei cucitori, la produzione e i compensi che ricevono.
Non mi sono state date spiegazioni sul perché non sia stata rispettata la clausola relativa all'eliminazione degli intermediari, mentre per il secondo aspetto la ragione è che la partecipazione non era un criterio previsto dal progetto. Quanto all'inesistenza dell'organizzazione sindacale è un male molto diffuso in tutto il Pakistan. Non so se all'interno di Talon siano mai stati fatti dei tentativi di organizzazione sindacale nè quale sia stata la reazione dell'impresa. Quanto al sistema di controllo lacunoso, sembra che sia da ricondurre a tre elementi: malintesi fra Fair Trade e.V. e Zia-ul-Haq incaricato del sistema di monitoraggio, il cattivo stato di salute di quest'ultimo e la negligenza degli importatori che non hanno sempre rispettato la clausola che li obbliga a comunicare prontamente a Fair Trade e.V. gli ordini collocati.



Che cosa fare
Mi pare abbastanza evidente che bisogna intervenire per correggere una serie di storture. A mio avviso si può scegliere fra tre ipotesi:
1) Lasciare il progetto così com'è, ma migliorare il sistema di monitoraggio e risolvere il problema degli intermediari.
2) Mantenere l'impostazione di fondo del progetto, ma indirizzare i benefici verso pochi centri di donne in modo da garantire un risultato apprezzabile almeno a qualcuno. Inoltre, bisognerebbe rivedere l'utilizzo delle maggiorazioni di prezzo in modo da garantire:
a) l'avvio di un programma scolastico di villaggio per prevenire il lavoro minorile e recuperare i bambini cucitori non più al lavoro;
b) l'avvio di un progetto di microcredito basato sulla partecipazione e l'autogestione;
c) la messa a punto di un fondo assicurativo con prestazioni proporzionate al denaro disponibile.
3) La terza ipotesi è di chiedere a Flo di fare una profonda verifica del progetto affinché valuti se così com'è può essere considerato del commercio equo e solidale. Nel caso non lo ritenesse tale bisognerebbe chiedergli di riscrivere i criteri. Dopo di che bisognerebbe avviare con Talon e altri imprenditori di Sialkot nuovi contatti per verificare la loro disponibilità ad adeguarsi a tutti i criteri del commercio equo, prima fra tutti quello di garantire una reale libertà sindacale e un rapporto di dialogo costante con i lavoratori. Solo una discussione approfondita fra tutti i soci di TransFair, potrà indicare quale delle tre ipotesi è la più valida. Quanto a me, penso che la soluzione più appropriata è battere due strade contemporaneamente: da una parte avviare un dialogo con Flo per giungere ad una definizione comune dei criteri. Dall'altra riformare alcuni aspetti del progetto per renderlo subito più trasparente, più mirato, più democratico.
In ogni caso penso che bisogna evitare di buttare a mare un rapporto faticosamente costruito con un'impresa che al di là di tutto, ha dimostrato una certa sensibilità sociale. Che bisogna evitare di buttare a mare un rapporto avviato con varie associazioni di un Paese piuttosto problematico com'è il Pakistan. Ma soprattutto penso che bisogna evitare di deludere le aspettative di tanti cucitori e cucitrici che nel commercio equo hanno intravisto la possibilità di migliori condizioni di vita e una prospettiva di progresso sociale.



Miseria e grandi marchi. Tutto comincia da qui

Probabilmente il mondo non si sarebbe mai occupato dei palloni provenienti dal Pakistan se un certo Zia-ul-Haq non avesse incontrato Kailash Satyarthi. “Sono un pakistano di famiglia benestante -racconta di sé Zia, ormai settantacinquenne- e una quarantina di anni fa, terminati i miei studi, decisi di tentare l'avventura negli Stati Uniti dove mi affermai come consulente. Nel 1995 rimasi affascinato dall'impegno di Kailash Satyarthi, un indiano che 'liberava' i bambini che lavoravano in schiavitù, e decisi di dedicarmi anch'io a questa causa. In particolar modo mi interessava Sialkot, una città poco distante da Lahore, la mia città natale, perché era diventata un grande centro industriale che lavorava per l'esportazione. Sapevo anche che esisteva un grande sfruttamento legato alla produzione a domicilio. La cucitura dei palloni avveniva anche nei villaggi più sperduti della provincia e in ogni famiglia c'era il coinvolgimento di bambini. Nei casi più fortunati andavano a scuola al mattino e lavoravano nel pomeriggio fino a notte fonda. In altri lavoravano a tempo pieno, complice il fatto che nel villaggio non esisteva la scuola. Scoprii anche che quei palloni, ottenuti in condizioni così miserabili, recavano il marchio di importanti multinazionali come Nike, Adidas, Reebok, Umbro. Presi molte foto e tornai negli Stati Uniti dove mi incontrai con Pharis Harvey, presidente dell'Ilref, un'associazione per la difesa dei lavoratori. Insieme lanciammo la Campagna Foul Ball Campaign (campagna pallone illegale)”.



All'inizio la palla è piatta
I palloni sono prodotti a partire da grandi fogli di materiale sintetico (generalmente Pvc). Le fasi per arrivare al prodotto finito sono sei. Prima di tutto si provvede a rinforzare il materiale sintetico con strati di stoffa. Si usano dei mastici maleodoranti che però, a detta dei curatori del progetto, non sono pericolosi. Il passaggio successivo è il taglio dei fogli (che avviene con presse molto rumorose). La terza fase è quella della stampa delle varie scritte che devono comparire sui palloni. Quindi c'è la fabbricazione della camera d'aria a partire dal caucciù. La quinta fase è la cucitura. Infine ci sono il controllo e la spedizione.
Di tutte queste fasi, Talon, ne appalta ben tre -il taglio, la stampa e la cucitura- a degli intermediari che usano personale pagato un tanto a pezzo.



La situazione di Talon. Cucitori a cottimo, con l'intermediario

Talon Sport (l'industria pakistana partner del “progetto pallone”) divide i centri di cucitura che lavorano per lei in centri di sua diretta proprietà e centri di proprietà degli intermediari. I primi sono soltanto 11. Nel primo caso, Talon possiede l'edificio e sostiene le spese di luce, acqua, una guardia di sicurezza, trasporto dei cucitori al centro. Nel secondo caso le spese sono a carico del contrattista. Il rapporto con i cucitori, tuttavia, passa ovunque tramite l'intermediario che ritira i palloni da assemblare, li distribuisce ai cucitori, tiene il conto della produzione di ciascuno, riconsegna i palloni finiti, incassa un tanto a pezzo comprendente il compenso dei lavoratori e la sua commissione, paga i cucitori.
Il rapporto di lavoro tra i cucitori e il contrattista è al di fuori di qualsiasi ufficialità. Ci sono dei cucitori che frequentano lo stesso centro in maniera regolare da mesi o da anni e altri che lo frequentano saltuariamente, saltando da un centro all'altro in base ai prezzi pagati. Tutti, comunque, sono liberi di fare delle assenze ingiustificate, tanto il pagamento è a pezzo. Nello stesso modo, quando non c'è abbastanza lavoro, il contrattista è libero di rimandare indietro chi vuole. Nei centri di Talon i cucitori riscuotono a fine settimana. Il compenso varia in base alla qualità dei palloni. A parità di qualità il compenso varia da centro a centro perché le imprese produttrici hanno fissato tariffari diversi. I compensi stabiliti da Talon si collocano nella fascia medio alta, ma ci sono imprese che pagano leggermente di più.



3 palloni in un giorno

A Sialkot il compenso per la cucitura varia a seconda della qualità del pallone che può essere di tipo A, B o C, in base allo spessore del rivestimento. Naturalmente, più il pallone è spesso, più è faticoso cucirlo. Di qui la differenza di paga: 33 rupie (1155 lire) per i primi, 28 (980 lire ) per i secondi e 24 (840) per i terzi. Generalmente un pallone di alta qualità richiede circa tre ore di lavoro, quindi non si riesce a cucirne più di tre al giorno. Quelli di bassa qualità richiedono circa due ore e se ne possono cucire tra i quattro e i cinque. Alla fine della giornata il salario di ogni cucitore si aggira sulle 99 rupie che moltiplicato per 25 giorni lavorativi dà circa 2.500 rupie al mese. Supponendo che in casa lavorino ambedue gli adulti, ciò dà un'entrata familiare di 5.000 rupie che copre circa l'82 per cento dei bisogni fondamentali di una famiglia media pakistana il cui ammontare è stato valutato in 6.000 rupie.
I compensi pagati attualmente dal commercio equo consentono di superare le 3.000 rupie procapite. Un cucitore che cucisse solo palloni equi potrebbe guadagnare 4.425 rupie: le tariffe attuali sono 59 rupie per i palloni di alta qualità (A), 47 rupie per i palloni di media qualità (B) e 37 rupie per quelli di bassa qualità (C).



La posizione di Ctm Altromercato di Giorgio Dal Fiume e Consiglio di amministrazione del Consorzio Ctm Altromercato

Tra gli entusiasmi e le perplessità che solleva il commercio equo e solidale emergono spesso due questioni, tra loro connesse:
1) le verifiche dei criteri equi e solidali;
2) la difficoltà ad estendere la progettualità del Fair Trade anche a beni di largo consumo, prodotti da filiere produttive complesse.
Oggi abbiamo la possibilità di meglio approfondire tali questioni analizzando il caso del “pallone etico”, che negli ultimi anni è emerso come uno dei prodotti più visibili e discussi del nostro mondo. Esso ha rappresentato un interessante approccio sperimentale ad una produzione a carattere semi-industriale, con l'innesto parziale delle regole dell'equo solidale all'interno di un'organizzazione produttiva, la società pakistana Talon Sport, di tipo tradizionale.
Discuterne è per noi un valore, non un problema: Ctm Altromercato rivendica la trasparenza del proprio agire anche rispetto a questo prodotto, e arriva oggi a rendere pubbliche le proprie valutazioni e le proprie considerazioni, qui ovviamente appena accennate, ma cui corrispondono documenti e testi di approfondimento disponibili a tutti www.altromercato.it, che rendono il progetto, nella sua estrema particolarità, un caso ben studiato.

Il progetto di cui parliamo non è del Consorzio Ctm Altromercato, nasce in ambito europeo ed è promosso in Italia da TransFair, l'ente di certificazione di alcuni prodotti del commercio equo. Ctm, valutando accettabile il progetto, ha importato i palloni apponendovi il proprio marchio, per fare del pallone uno strumento di riflessione e di lotta contro lo sfruttamento del lavoro minorile, cui tipicamente si fa ricorso per questo tipo di manifattura.
E proprio per questo oggi, in sede di verifica, non ce ne “laviamo le mani”: ci preme moltissimo -a garanzia dei consumatori, di tutte le persone coinvolte nelle Botteghe del Mondo, ma anche dei produttori pakistani- fare emergere motivazioni, pregi, difetti e prospettive del caso in questione. Questa è un'occasione preziosa per illustrare la complessità operativa e concettuale del Fair Trade, e per ragionare sulle sue prospettive. Per farlo in modo corretto bisogna però costantemente aver presente che siamo di fronte ad un progetto sperimentale.
I fatti: dopo l'emergere di perplessità e critiche al “progetto pallone” Ctm Altromercato ha deciso di “vederci chiaro” e di attivare le proprie procedure di monitoraggio: il 10 giugno 1999 il Consiglio di amministrazione di Ctm chiedeva al proprio Comitato progetti (la struttura che, in piena autonomia professionale, collabora al monitoraggio/valutazione dei progetti, costituita da 8 persone, di cui 6 esterne al Consorzio) di procedere per “acquisire un punto di vista diretto di Ctm sul progetto/prodotto palloni così da arrivare ad una nostra valutazione autonoma del progetto”.
Quando poi, nel settembre 1999, un partner del commercio equo europeo ci ha informato di valutazioni negative conseguenti ad una visita in Pakistan, abbiamo richiesto immediatamente a TransFair Italia una verifica urgente di queste informazioni, decidendo contemporaneamente di sospendere cautelativamente l'acquisto di nuovi palloni, in attesa delle valutazioni del nostro Comitato progetti e di TransFair.
Tutto ciò significa un fatto importante: la volontà di Ctm di trattare il “progetto pallone” come ogni altro prodotto equo e solidale, attivando una verifica che porti -come succede ordinariamente- alla conferma, sospensione o dismissione del progetto.
Accade infatti normalmente (almeno in Ctm) che progetti del commercio equo vengano avviati, valutati in itinere e anche sospesi o cessati laddove vengano meno quei parametri che sono alla base della cooperazione equa (chi vuole può chiedere informazioni a: comitatoprogetti@altromercato.it). Il commercio equo infatti è un processo dinamico fatto di verifiche nel tempo, di estensioni, di separazioni, di modifiche. Tutt'altro quindi che un contesto statico all'interno del quale produttori ed importatori, progetti e comportamenti del consumatore non conoscono evoluzione.

Quali sono le nostre valutazioni rispetto a questo percorso (comprendente anche l'ultima missione in loco della quale riferisce Gesualdi), e cosa diciamo a consumatori e operatori del commercio equo? In estrema sintesi: 1) il “progetto pallone” è una buona idea. Gli obiettivi rimangono positivi, ambiziosi e originali: intervenire non su un prodotto/produttore, ma su un grande problema strutturale (il lavoro minorile) proponendo soluzioni alternative a quelle -repressive, a carico del Sud del mondo e non incidenti sui meccanismi economici del mercato- delle istituzioni internazionali; ed ha suscitato un buon dibattito sulle potenzialità dell'interazione diretta fra produttori e consumatori;
2) il “progetto pallone” ha dei limiti, non rispondendo oggi a tutti i requisiti del commercio equo e solidale. Innanzitutto per la gestione non sufficientemente chiara e competente da parte di chi, al suo avvio, ne ha definito la griglia valutativa. Ma soprattutto perché è stata riscontrata la presenza di intermediari; per il difficile coinvolgimento dei lavoratori; per la grande difficoltà nel monitoraggio e nella valutazione del suo impatto sociale;
3) per questo Ctm Altromercato “offre” a TransFair le proprie valutazioni, chiedendole una definitiva valutazione del progetto, dopodiché si aprono gli scenari previsti dal nostro Comitato progetti. Una delle ipotesi è la riscrittura radicale del progetto con l'obiettivo di superarne la fase sperimentale per collocarlo invece a pieno titolo nel commercio equo, con una revisione di contenuti, punti critici, obiettivi, verifiche. Poi riproporlo evitando ogni contrattazione con i soggetti (italiani e pakistani) coinvolti, e quindi considerando anche la possibile chiusura. Ciò comunque dipende in primo luogo dalle scelte di TransFair;
4) in attesa di ciò Ctm Altromercato conferma la sospensione degli ordini, mantenendo in vendita lo stock esistente (e invitando le botteghe a farlo) non solo in quanto prassi normalmente seguita in tutti i casi simili, ma anche perché al prodotto sono effettivamente collegati effetti positivi sui lavoratori pakistani, e permette di lasciare aperte prospettive e sul progetto pallone e sulle produzioni innovative.

Infine, alcune considerazioni.
Il commercio equo e solidale italiano deve avere -secondo noi- il coraggio e la forza per confrontarsi e sperimentarsi su terreni e problemi nuovi. Il “progetto pallone” -per la sua più volte citata originalità, per il suo orientamento ad un consumo di massa ed a una produzione industriale- ha tanto entusiasmato quanto sollevato pregiudizi e critiche, ma ha anche certamente comportato una visibilità positiva per tutto il Fair Trade italiano, ed effetti positivi (e aspettative) in Pakistan. Oggi è dimostrato che ciò non è più sufficiente, e bisogna intervenire con chiarezza di metodo e di contenuti.
Noi lo stiamo facendo. E auspichiamo che tutto il movimento del commercio equo si interroghi su una “rivoluzione” che, per proseguire, deve andare oltre la millesima merendina. Oltre alla divisa di “guardiani della rivoluzione” occorre, a volte, indossare anche la mentalità degli “esploratori”.



La posizione di Transfair del Consiglio direttivo di Transfair

Nello scorso dicembre TrasFair Italia ha incaricato Francesco Gesualdi di verificare in Pakistan il “progetto pallone”.
La scelta di Francesco come rappresentante di TransFair Italia non è stata, all'inizio, frutto di una riflessione ad hoc. Avevamo però la consapevolezza che designando un soggetto esterno si potesse contribuire a mettere un punto fermo alla questione (progetto di commercio equo o no), ma al tempo stesso questo ci potesse aiutare ad approfondire la strada innovativa che l'esperimento pallone persegue: misurarsi anche al di fuori degli ambiti tradizionali e consolidati del commercio equo e solidale.
Fin ad oggi il progetto:
– ha coinvolto alcune centinaia di cucitori e cucitrici che hanno realizzato oltre 400.000 palloni;
– ha permesso il miglioramento delle condizioni ambientali dei luoghi di produzione;
– ha provocato, sia pure in modo indiretto, un miglioramento dei salari dei cucitori anche presso altri produttori;
– ha aperto la discussione tra le Ong e le Ato's europee sui progetti innovativi di commercio equo e solidale;
– ha generato una apprezzabile quantità di risorse finanziarie che sono e saranno utilizzate per iniziative di promozione sociale ed economica che andranno a favore anche di chi non è coinvolto nella produzione dei palloni.

Va poi tenuto presente che, soprattutto grazie a questo progetto, è stato tracciato un percorso dal quale sarà difficile tornare indietro. Poco più di due mesi fa Flo ha, infatti, discusso un lungo documento (che sarà formalmente approvato dopo le modifiche ed i suggerimenti dei soci) in cui si riconoscono i limiti di impatto dei modelli attualmente utilizzati per la gestione dei progetti del commercio equo e solidale: il numero dei beneficiari rappresenta ancora una parte infinitesimale della popolazione del Sud del mondo. Il documento avanza proposte per verificare se è possibile estendere il fair trade anche a situazioni e processi produttivi più “convenzionali” (si parla di lavoratori salariati e non solo autorganizzati, di produttori privati, eccetera).

Ma veniamo ora ad una valutazione più approfondita dei problemi aperti.
La presenza a tutt'oggi degli intermediari, i limiti e gli errori nella gestione del progetto (come vengono compiuti i controlli, che rendicontazione viene fatta ed a chi viene fornita) e la carenza di un quadro contrattuale ben definito sono innegabili.
Così come sono innegabili, come scrive Francesco Gesualdi, gli aspetti sui quali bisogna ancora lavorare per migliorare il “progetto pallone”. Nel dettaglio essi sono: 1) le condizioni dei bambini “liberati” dal lavoro ed una adeguata valutazione dell'impatto complessivo del progetto.
2) L'emancipazione femminile (non bisogna però dimenticare che in Pakistan, al pari di tutti i Paesi dove la legge islamica è anche legge di Stato e regolatrice dei costumi sociali, questa non è un'operazione facilmente realizzabile. Se è vero che manca uno studio di settore è anche vero che presso Talon lavorano molte più donne che non nei centri dei loro concorrenti e che i loro salari sono identici a quelli degli uomini). 3) Gli ambienti di lavoro. (Il progetto si limita, per varie ragioni, alla fase di cucitura. Ma le condizioni ambientali dello stabilimento Talon sono decisamente migliori rispetto a quello delle altre industrie di quel Paese).
4) La partecipazione e il coinvolgimento comunitario. (Questo rappresenta, indubbiamente, uno dei punti deboli del progetto. L'altro è costituito dal difficile rapporto con le Ong pakistane che, non a caso, sono anche i gestori del servizio prestiti).
5) La trasparenza. (In realtà l'ammontare complessivo degli ordini, dei sovrapprezzi generati e del loro destino è conosciuto, anche se i dati non sono sempre stati trasmessi con tempestività). La trasparenza rispetto al prezzo di produzione industriale rappresenta uno dei punti controversi su cui la posizione di TransFair Italia diverge da quella di Fair Trade e. V., la fondazione tedesca che è titolare del progetto.

Non bisogna dimenticare che proprio l'introduzione del “progetto pallone” e i dei suoi criteri di eticità (che sono considerati ancora poco incisivi) provocarono per tutto il 1998 un boicottaggio pesante e numerose intimidazioni verso Talon da parte degli altri produttori pakistani di palloni. La semplice richiesta di informazioni sugli altri impianti di cucitura portò, sempre nel 1998, al fermo sotto minaccia delle armi dei nostri collaboratori. Inoltre i sindacati europei ritennero impraticabile, perché troppo ambizioso e con obblighi troppo pesanti per il contesto pakistano, il progetto “pallone equo”.
Questo progetto, in cui ci siamo trovati (nostro malgrado) a svolgere un ruolo “informale” di cogestori (seppure esterni) per il quale avevamo poche competenze, era e rimane un progetto sperimentale e di frontiera e, di conseguenza, si porta appresso (oltre ad alcuni peccati originali) anche i rischi e le difficoltà che sono naturalmente connessi ad operazioni sperimentali.
Errori nella progettazione e nella gestione del progetto vi sono stati. Ed i più rilevanti sono certamente quelli riconducibili alla sua storia: travolti dagli eventi e, in parte, dalla fretta, ci siamo trovati a lavorare all'interno di un progetto in cui, per varie ragioni, abbiamo giocato molto della nostra immagine senza poter avere un ruolo di gestione e di decisione diretta al suo interno.
La nostra intenzione è quella di far tesoro degli errori e di prevedere quindi, fin da subito, l'attivazione di tutte le condizioni necessarie per garantire il completo rispetto di tutti i criteri previsti dal documento di progetto. Siamo infatti convinti che il progetto deve proseguire ma dovrà essere migliorato. Dovremo quindi lavorare in due direzioni: da un lato garantire il pieno rispetto delle regole già in vigore e dall'altro ridefinire i contenuti e le modalità di gestione in modo da avvicinare sempre più il progetto sia agli standard fissati da Flo sia, più in generale, a tutti i progetti di commercio equo.
Chiudere un'esperienza così difficile ed originale significherebbe solo rifiutare il confronto con le realtà più difficili: le generiche certificazioni sociali e i tranquillizzanti codici di condotta sono lì ad aspettare l'archiviazione di questa iniziativa per dimostrare che l'idea, tipicamente “fair trade”, di farsi carico dei costi sociali di un progetto non può funzionare e che, di conseguenza, i lavoratori del Sud non possono che accontentarsi del rispetto di (alcuni) diritti umani (come il giorno di riposo settimanale e un orario inferiore alle 12 ore lavorative). Per i diritti civili e per un giusto salario se ne potrà riparlare il prossimo secolo…



Il meglio in chiaroscuro
Bambini semi liberi


Oltre a verificare la coerenza con gli impegni previsti dal progetto, ho anche tentato di effettuare una valutazione dei risultati raggiunti. Ecco una breve sintesi.

1) Miglioramento delle condizioni dei bambini non più al lavoro.
Purtroppo il progetto non ha previsto interventi particolari a loro favore. Secondo “Save the Children” i bambini tolti forzatamente dal lavoro, si ritrovano a oziare per le strade perché nei villaggi mancano le scuole. Invece non ha fondamento l'ipotesi che siano impiegati in lavori più pesanti come quello nelle fornaci: non esistono altre occasioni di lavoro oltre ai palloni e alla rifinitura dei ferri chirurgici (e quest'ultima attività è più rischiosa della prima).

2) Miglioramenti salariali.
Un miglioramento c'è stato di sicuro, ma poiché è mancata una politica concordata per l'attribuzione dei palloni equi, non è possibile stabilire chi e in quale misura abbia raggiunto questo risultato. Varie fonti confermano che 6.000 rupie al mese coprono i bisogni fondamentali di una famiglia media pakistana. Se un cucitore cucisse sempre palloni equi otterrebbe quel famoso 50 per cento necessario a coprire i bisogni fondamentali familiari. Ma il problema è che non arrivano abbastanza ordini. Dall'inizio del progetto, il totale dei palloni equi è stato 400.000 unità pari al 6-7 per cento di tutti i palloni fabbricati da Talon.

3) Emancipazione femminile.
È buona la percentuale delle donne che lavorano per Talon. Tuttavia manca uno studio di settore per stabilire se il progetto abbia svolto un ruolo che si differenzia rispetto alle altre imprese. Ad esempio è negativo che i supervisori dei centri femminili siano ancora tutti uomini.

4) Ambienti di lavoro.
È stata buona la partenza con miglioramenti in alcuni reparti, ma rimane ancora molto da fare. Manca un piano di miglioramento concordato con l'azienda.

5) Partecipazione e coinvolgimento comunitario.
Ci sono state due esperienze interessanti: la consultazione su come spendere parte del fondo assicurativo per l'assistenza scolastica e la consultazione per stabilire se iscriversi o meno alle Casse dello Stato. Il servizio prestiti, invece, è gestito in maniera totalmente verticistica. È negativo anche il fatto che non esista organizzazione sindacale.

6) Trasparenza.
Non è un obiettivo dichiarato del progetto. Pertanto non esiste una rendicontazione pubblica sull'ammontare degli ordini posti, sull'ammontare di sovrapprezzo generato e sul suo destino. Non esiste neanche la trasparenza del prezzo.





Sialkot. Il centro del mondo

La fabbricazione di articoli sportivi nella zona di Sialkot ha incominciato a svilupparsi nel tardo Ottocento. Oggi il calcio domina la produzione di articoli sportivi destinati all'esportazione: per la Coppa del mondo del 1994 sono stati esportati quasi 35 milioni di palloni. Si stima che l'80 per cento dei palloni di qualità che si producono nel mondo venga da qui.
Attualmente i cucitori che lavorano per Talon Sport (il partner pakistano del “progetto pallone”) sono 1.789 dei quali 1.275 uomini e 514 donne.
Il lavoro avviene in 78 centri di cucitura disseminati nei villaggi. Poiché il costume musulmano non consente a donne e uomini di lavorare insieme, esistono centri per uomini e centri per donne. Nel caso di Talon, quelli per uomini sono 48 e quelli per donne 30. La dimensione dei centri varia da 125 cucitori a 5. Due centri di donne dispongono anche di un asilo interno. Ogni centro è gestito da un intermediario che tutti chiamano “supervisore”. A volte lo stesso intermediario gestisce più di un centro se si trovano nello stesso villaggio. Gli intermediari in rapporto con Talon sono 55. Nessuno è donna.



O cestini o padroni?
di Marinella Correggia

In maniera schematica possiamo dire che il commercio equo acquista da partner che sono soprattutto: A1) contadini associati, A2) artigiani associati, i seguenti beni: B1) alimentari “tropicali” (caffè, the, cacao, zucchero ed elaborazioni, miele, quinoa, ecc.), B2) artigianato (cesteria, strumenti musicali, tessuti tradizionali, giocattoli, incensi, borse tipiche, presepi, scatoline ecc.).
Ma non di soli bei cesti possono vivere i lavoratori svantaggiati del mondo. E i consumatori “equi”, hanno bisogno anche e soprattutto di B3): scarpe, camicie, beni industriali di massa (tipo: il famoso pallone). Entrando nel B3 il commercio equo forse uscirebbe dalla nicchia, e morderebbe di più le regole dell'economia-mondo.
Ma -diranno alcuni- il B3 è prodotto da imprese private, e che fine farebbero allora giustizia sociale, autogestione, non-profit?
Altri invece pensano: è un prezzo da pagare.
Mah!
Siamo proprio sicuri che non esistano prodotti B3 fatti da A3: ovvero cooperative industriali?
Proviamo a cercare, prima! In fondo ci sono coop filippine a far gemme a uso industriale, coop indiane a far tessuti di fabbrica, coop cubane a far integratori alimentari. E la gloriosa vetreria boliviana Copavic, un caso di riscatto degli operai sfruttati e da tempo partner del commercio equo, non è lì per indicare che tertium datur?

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