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Palestina-Israele: boicottaggio, forza nonviolenta

Da quasi dodici anni un movimento internazionale chiede di rifiutare prodotti israeliani, per protestare contro occupazioni e discriminazioni. Si chiama “Biocottaggio Disinvestimento Sanzioni” (BDS). In una lettera al milionario israelo-americano Haim Saban Hillary Clinton affermò: “So che sei d’accordo sul fatto che l’opposizione al BDS deve essere una priorità”

Tratto da Altreconomia 174 — Settembre 2015
© EPA/CHRISTOPHE KARABA

Anche Hillary Clinton era scesa in campo contro le fatidiche tre lettere che secondo alcuni minacciano addirittura l’esistenza di Israele: BDS. Cioè “Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni”. “L’epoca iraniana è finita. Stiamo entrando nell’era del BDS”, ha scritto sul quotidiano israeliano Haaretz l’opinionista americano Peter Beinart. Beinart si riferisce alla nuova priorità dell’attivismo pro-Israele a stelle e strisce, che di recente ha iniziato a investire denaro ed energie per contrastare il movimento che invoca il boicottaggio dello stato israeliano. Se Hillary ha scritto in una lettera al milionario israelo-americano Haim Saban, “so che sei d’accordo sul fatto che l’opposizione al BDS deve essere una priorità”, da questo lato dell’Oceano il presidente israeliano Reuven Rivlin si considera “un soldato” a disposizione della battaglia contro il BDS, il primo ministro Benyamin Netanyahu chiama a raccolta “un ampio fronte” per combatterlo e ha destinato fondi per 24 milioni di euro alla controffensiva. Perfino Yedioth Ahronoth, il quotidiano più letto del Paese, ha lanciato una campagna intitolata “Combattere il boicottaggio”. I toni sono serissimi, il linguaggio fa pensare agli arcinemici Hamas e Iran, e l’impressione è che negli ultimi mesi in Israele e tra le comunità ebraiche americane sia scattato l’allarme rosso. Ma il dibattito sull’impatto reale del BDS è apertissimo.
Tutto ha inizio il 9 luglio 2005, quando una coalizione di oltre 170 enti palestinesi, tra partiti politici, sindacati e movimenti di base lancia un appello alla comunità internazionale chiedendo di boicottare Israele e proponendo azioni di disinvestimento economico. Il modello arriva dal Sudafrica, dove gli attivisti anti-apartheid hanno usato il boicottaggio per ottenere sostegno dall’estero contro le politiche del governo. In Palestina la campagna ruota attorno a tre punti chiave: “la fine dell’occupazione dei territori, inclusa Gerusalemme Est; la fine delle discriminazioni nei confronti dei Palestinesi residenti in Israele e il rispetto del diritto al ritorno dei rifugiati”. Sono passati dieci anni e sul sito del Palestinian BDS National Committee (BNC, www.bdsmovement.net), il comitato che oggi guida la campagna, c’è una pagina che raccoglie i passaggi avvenuti nel frattempo. Si legge di SodaStream, l’azienda che sottoposta alle pressioni del BDS ha deciso di spostare la sua fabbrica da un insediamento del West Bank a una zona interna ai confini del 1967; o del fondo olandese PGGM che ha ritirato gli investimenti dalle cinque maggiori banche israeliane a causa del loro coinvolgimento nella costruzione di insediamenti. C’è la storia di George Soros, che ha venduto tutte le sue azioni SodaStream, e quella di Bill Gates, che ha ridotto la partecipazione in G4S, la società britannica che fa affari con il sistema militare israeliano. E poi ci sono artisti come Lauryn Hill e Roger Waters dei Pink Floyd che rifiutano di cantare in Israele, o scienziati come Stephen Hawking che si ritirano dalle conferenze. A questi vanno sommati Ken Loach, Naomi Klein, e l’arcivescovo sudafricano e premio Nobel Desmond Tutu. Ma il successo più grande arriva dai campus universitari: l’Università di Johannesburg ha tagliato i ponti con l’Università Ben Gurion e una decina di associazioni accademiche statunitensi -più altre in Europa- hanno scelto il boicottaggio di Israele. Gli studenti di centri importanti come Stanford stanno interpretando il boicottaggio come lo strumento non violento che potrebbe aiutare ad uscire dallo stallo di un processo di pace che non c’è.

“L’impatto del movimento non violento BDS -che è guidato dai palestinesi ma ha dimensioni internazionali- è cresciuto in modo continuo dal 2005, ma negli ultimi due anni ha avuto un’accelerata”, spiega Omar Barghouti, attivista palestinese per i diritti umani e co-fondatore del movimento. “Dopo 10 anni stiamo iniziando a raccogliere i frutti di una campagna che è strategica e moralmente consistente”. Barghouti è considerato il volto del BDS e in un’intervista via mail parla di quella che definisce “la richiesta di applicare i diritti dell’intera popolazione palestinese, sanciti dall’ONU ma a lungo ignorati. Il BDS sta lentamente raggiungendo l’obiettivo di isolare Israele accademicamente, culturalmente e, in misura minore, anche economicamente”.
Sull’impatto del BDS però le opinioni sono contrastanti. Asher Schechter, opinionista economico per il quotidiano Haaretz, durante un’intervista con la radio TLV1 ha affermato che fino ad ora gli effetti sono stati più che altro simbolici e che l’economia israeliana non ha subito veri danni. Sia Schechter che Barghouti ricordano un rapporto pubblicato dall’americana Rand Corp, secondo il quale nell’arco di 10 anni il BDS potrebbe costare a Israele 47 miliardi di dollari -e questo sì avrebbe un peso, dice Schechter-. In quel caso anche i palestinesi perderebbero molto -il 12% del prodotto interno lordo pro capite- e sono in molti ad attaccare il boicottaggio proprio su questo punto, anche dall’interno della società palestinese. “Non credo che questo sia un movimento che parla al popolo palestinese, il BDS funziona in Europa o in America meglio che in un campo profughi”, afferma Bassem Eid, attivista e commentatore politico di Gerusalemme Est. “I palestinesi, a partire da quelli che hanno perso il lavoro quando SodaStream ha lasciato il West Bank, non hanno una fonte economica diversa da Israele, qual è l’alternativa proposta dal BDS?”. Questo argomento “non suona molto convincente” per Hind Khoury, segretario generale di Kairos Palestine, un movimento nato nel 2009 da attivisti cristiani in Palestina che chiedono la fine dell’occupazione. “Il cambiamento ha sempre un prezzo, e questa situazione è già molto costosa per la nostra società che sta diventando sempre più povera e frammentata”. Kairos si rivolge al mondo e alle chiese affinché sostengano i palestinesi con “un attivismo creativo, basato su uno standard morale, la legge internazionale e la legge di Dio. Supportiamo il BDS perché fa parte dei movimenti di resistenza non-violenta dal basso. È quasi l’unico vero mezzo di azione non-violenta”, conclude Khoury.

Ma la prima vera accusa mossa al movimento è quella di far leva sull’anti-semitismo e usare argomenti morali per mettere in discussione il diritto di Israele ad esistere. A questo Omar Barghouti risponde che “il BDS è un movimento per i diritti umani che rifiuta ogni forma di razzismo, anti-semitismo incluso. Se Israele si identificasse come uno Stato cristiano o induista andremmo avanti lo stesso nel tentativo di isolare il suo regime di oppressione e ottenere i nostri diritti. Il BDS non ha mai preso di mira gli ebrei o singoli israeliani in quanto ebrei, ma lotta per metter fine a un regime ingiusto” continua Barghouti, ricordando che tra i partner del movimento ci sono anche ebrei israeliani. Proprio come Ofer Neiman, che fa parte di “Boycott from Within” un gruppo composto da ebrei israeliani e palestinesi residenti in Israele. Ofer racconta di aver vissuto un processo graduale, ma di esser arrivato alla conclusione che “sia impossibile cambiare le cose solo dall’interno. Anni fa per me sarebbe stato difficile lavorare su questo tema assieme ai palestinesi, ma la realtà ti cambia”. Ofer spiega che altre organizzazioni israeliane in passato hanno proposto l’idea del boicottaggio limitato ai prodotti provenienti dai territori occupati. Ma i beni in arrivo dai territori non sono molti, “gli insediamenti ricevono sussidi dal governo e i coloni spesso lavorano al di fuori dei territori… mi sembra un’opzione poco coraggiosa che non è in grado di modificare la realtà”. E per quanto riguarda il boicottaggio accademico o culturale afferma che “le linee guida indicano che non si tratta di boicottare singoli artisti o ricercatori, il BDS chiede di non collaborare con con chi rappresenta lo Stato israeliano o istituzioni collegate”. I numeri di “Boycott from Within” sono piccini. Ofer parla di una mailing list con un centinaio di nomi e una sottoscrizione con qualche centinaio di firme. Aggiunge che “fino a un anno fa nessuno sapeva cosa fosse il BDS, ma ora siamo diventati il nuovo Ahmadinejad. Credo che ci sia più consapevolezza rispetto al movimento, ma anche che la maggioranza degli israeliani resti contraria”.

In un articolo sul blog +972mag.com Tomer Persico, un professore di Religione comparata all’Università di Tel Aviv, ha ricordato che è vero, parti significative del BDS mettono in questione il diritto di Israele ad esistere come uno Stato nazione per il popolo ebraico, e alcuni israeliani della sinistra radicale vedono la guerra del ‘48 come il peccato originale del sionismo; ma il BDS è una coalizione eterogenea con una varietà di posizioni e chi l’attacca spesso perde di vista che fino a quando Israele non risolverà il problema dell’occupazione le critiche saranno sempre considerate legittime. Secondo alcuni osservatori chi sta usando benissimo l’arma del boicottaggio per ora è la destra israeliana, che con un linguaggio aggressivo ha reso più reale e visibile il movimento. E anche se l’impatto è solo simbolico ed è ancora da vedere se ci sarà un effetto economico in futuro, i simboli contano.


BDS anche in Italia
Nel corso della sua visita in Israele, a luglio, Matteo Renzi ha pronunciato un discorso alla Knesset in cui ha enfatizzato il legame e l’amicizia tra Italia e Israele e ha garantito che “l’Italia sarà sempre in prima linea contro ogni forma di boicottaggio sterile e stupido”. “Renzi così dimostra di non conoscere affatto il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), movimento lanciato nel luglio 2005 da una ampia coalizione della società civile palestinese, come risposta necessaria e morale per fermare le continue violazioni del diritto internazionale da parte di Israele, laddove le istituzioni hanno fallito” ha replicato sapere il movimento italiano di supporto al BDS, costituito da associazioni e gruppi in tutta Italia che hanno aderito all’appello della società civile palestinese del 2005.
“Da decenni Israele porta avanti, nell’impunità più assoluta, politiche di occupazione e di colonizzazione, appropriandosi di terre e risorse palestinesi, costruendo le colonie e il Muro dell’Apartheid, varando leggi che discriminano i palestinesi cittadini di Israele e costringendo metà della popolazione palestinese a vivere come profughi o in esilio”.
Tra le aziende italiane segnalate da BDSItalia (bdsitalia.org) ci sono Acea SpA, che ha firmato un accordo con la Mekorot, società idrica nazionale di Israele, l’Impresa Pizzarotti SpA che sta costruendo la TAV israeliana che collegherà Tel Aviv e Gerusalemme attraversando la Cisgiordania occupata, e l’Alenia Aermacchi, che ha venduto 30 caccia-addestratori M-346 a Israele.

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