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Padroni senza volto – Ae 91

Istituzioni finanziarie e fondi di investimento hanno preso possesso delle grandi multinazionali. Prevalgono così logiche speculative e di breve periodo. Alle quali neanche gli Stati si sottraggono Possedere è potere e noi abbiamo voluto fare un viaggio nella proprietà delle…

Tratto da Altreconomia 91 — Febbraio 2008

Istituzioni finanziarie e fondi di investimento hanno preso possesso delle grandi multinazionali. Prevalgono così logiche speculative e di breve periodo. Alle quali neanche gli Stati si sottraggono


Possedere è potere e noi abbiamo voluto fare un viaggio nella proprietà delle imprese per capire chi sta sul ponte di comando. A livello mondiale le società si contano a milioni, per la maggior parte di piccole dimensioni, spesso possedute da privati più o meno facoltosi. In Italia, il 98% del tessuto imprenditoriale è costituito da piccole e medie imprese che in termini di fatturato non superano i 50 milioni di euro all’anno, mentre da un punto di vista occupazionale non vanno oltre i 250 addetti. Ma sul brulicare di tante formichuzze si stende l’ombra di pochi formiconi con corpaccioni mastodontici. Stiamo parlando dei gruppi multinazionali, giganti con fatturati a volte superiori al prodotto interno lordo di Paesi industrializzati, che hanno il potere di indirizzare l’economia mondiale e di condizionare le scelte dei governi e delle istituzioni internazionali. È di loro che vogliamo occuparci.

Secondo gli ultimi dati, le multinazionali sono 78mila e controllano 780mila società disseminate in tutto il globo per un totale di circa 73 milioni di dipendenti. Da un punto di vista produttivo contribuiscono solo al 10% del prodotto lordo mondiale, ma controllano il 60% dei flussi commerciali planetari. Quanto ai profitti, le prime 500 da sole nel 2006 hanno incassato 1.529 miliardi di dollari, pari al 3% del prodotto lordo mondiale.

A seconda dell’attività svolta, dietro a ogni multinazionale ci sono palazzi, mezzi di trasporto, macchinari, fabbriche, magazzini, miniere, campi. Mezzi di produzione che costituiscono il loro capitale. Fra le imprese industriali, quella con capitale più elevato è Toyota con 276 miliardi di dollari. In Italia la più grande è Telecom con 118 miliardi di dollari, seguita dall’Eni con 116 miliardi. Molto più in là viene la Fiat con 76 miliardi di dollari e Finmeccanica con 31 miliardi di dollari. Delle quattro imprese nominate, l’unica saldamente in mano a un famiglia è la Fiat dove gli Agnelli continuano a detenere il 30% del capitale. Ma il secondo azionista è una banca: Unicredito Italiano (Unicredit), con una quota del 5,2%. Il terzo azionista è di nuovo una banca, la Barclays Global Investors, una banca d’investimento che non interviene a nome proprio ma di clienti che le hanno affidato dei soldi da investire. Il quarto azionista è Fmr, un fondo comune di investimento che raccoglie denaro tramite il versamento di tante piccole quote. Per quanto diverse per struttura

e funzioni, Unicredito, Barclays e Fmr hanno in comune di non essere persone fisiche, ma istituzioni finanziarie che gestiscono capitale collettivo ottenuto in affidamento da migliaia, se non milioni di persone.

L’emergere di colossi che gestiscono capitale collettivo, rastrellato in nome delle più varie funzioni, forse è la vera novità degli ultimi cinquanta anni. Strategie collettiviste in ambito capitalista si confondono con strategie capitaliste in ambito collettivista a dimostrare che il potere usa le ideologie come stendardi al vento per avvolgere i popoli e insalamarli.

A livello mondiale, le strutture di investimento che raccolgono la maggior quantità di capitale collettivo sono le banche d’investimento, i fondi comuni, le assicurazioni, ma anche i fondi pensione. Il che fa capire come la decisione, attuata anche in Italia, di demolire la previdenza pubblica risponda anche alla logica di fare un regalo alle banche e alle assicurazioni che gestiscono i fondi pensione e confondere i lavoratori.

In base a un studio realizzato in Inghilterra nel luglio 2007, è emerso che solo il 13% delle azioni quotate alla Borsa di Londra, un valore di 2.700 miliardi di euro ripartito fra 1.139 società, appartiene a individui in carne ed ossa. Il resto è posseduto da istituzioni. Più precisamente: 41% da non meglio identificati investitori esteri, 15% assicurazioni, 13% fondi pensione, 10% fondi di investimento, 4% fiduciarie, 3% banche, 1% istituzioni caritatevoli.

In Italia l’istituzione finanziaria più potente è Assicurazioni Generali. Nata come società assicuratrice, oggi è anche banca, fondo pensione e intermediario finanziario. Nel 2006 ha fatturato 102 miliardi di dollari e realizzato profitti per 3 miliardi di dollari, collocandosi al secondo posto fra le imprese italiane (dopo Eni), al terzo posto nella graduatoria mondiale delle assicurazioni sulla vita (dopo Ing e Axia) e al 30° posto nella graduatoria mondiale di tutte le multinazionali. Il suo principale azionista è Mediobanca con una quota del 15,6%. Altri proprietari di rilievo sono Unicredito, Banca d’Italia, Intesa Sanpaolo con quote fra il 2 e il 5%. Nel complesso i sette maggiori azionisti detengono il 34% del capitale, mentre il restante 66%

è ampiamente frantumato e passato frequentemente di mano. Generali a sua volta possiede oltre il 51% di numerose società assicuratrici e bancarie sia italiane che estere (Ina, Toro, Alleanza, Banca Generali, Banca del Gottardo) e detiene quote di minoranza in una miriade di società italiane ed estere, fra cui il Gruppo editoriale l’Espresso, Capitalia, Bnl, Lottomatica, Telecom. Incredibile, ma vero, Generali possiede anche il 2% di Mediobanca, suo principale azionista, e il 7,5% di Intesa, altro azionista di rilievo. In conclusione controllate e controllanti si possiedono a vicenda in un groviglio inestricabile che forma una gigantesca cupola di comando dei principali gangli produttivi e finanziari del Paese. Eni, prima impresa italiana, sfugge alle scalate degli investitori istituzionali (così si chiamano le grandi istituzioni finanziarie) perché la sua quota di maggioranza è saldamente in mano allo Stato.

Il ruolo dello Stato nella proprietà aziendale ha subito alterne vicende nel corso della storia ed è cambiato di continuo in base all’andamento degli interessi economici che poi determinano le correnti politiche. Nel secolo scorso, quando il sistema uscì con le ossa rotte dalla crisi del Ventinove, in tutta Europa gli Stati vennero implorati di acquistare quote importanti di società ridotte al lastrico assieme alle banche che le possedevano. In Italia nacque l’Iri, un fondo pubblico che si ritrovò proprietario di imprese che andavano dai panettoni ai pelati, dalle armi alle automobili. Poi a metà degli anni Ottanta il vento cambiò. In base al pensiero liberista lo Stato non doveva avere più ruolo in economia e non solo doveva disfarsi di ogni proprietà industriale, ma doveva abbandonare perfino i servizi pubblici come la sanità e l’istruzione. La vendita di Alitalia rappresenta uno degli ultimi atti del processo di sganciamento dello Stato italiano dalle partecipazioni industriali. Ciò non di meno continua ad essere il principale azionista di Eni, Finmeccanica, Fincantieri, e al momento non si intravedono segnali che abbia intenzione di sbarazzarsi di loro.

A dire il vero si ha la sensazione che un nuovo vento stia per spirare perché in vari Paesi del mondo lo Stato si sta di nuovo imponendo come azionista importante. Sta succedendo in Norvegia, Singapore, Kuwait, ma anche Russia e Cina. I governi di questi Paesi si ritrovano fra le mani delle fortune accumulate per le ragioni più varie. Emirati Arabi, Kuwait, Arabia Saudita, Russia, grazie ai proventi del gas e del petrolio, la Norvegia grazie a un fondo pensione pubblico, la Cina grazie alle riserve di valuta straniera accumulate tramite l’enorme avanzo commerciale. Nell’insieme tali fondi, definiti fondi sovrani, ammontano a 2.000 miliardi di dollari, un valore ancora modesto, ma suscitano grande preoccupazione non solo perché crescono rapidamente (entro il 2012 potrebbero raggiungere i 12.000 miliardi di dollari), ma soprattutto perché nessuno vede di buon occhio che le proprie industrie nazionali, specie quelle strategiche, possano finire sotto il controllo di uno Stato straniero.

Ad esempio è del dicembre 2007 la notizia che il 10% della banca americana Morgan Stanley è stato comprato dal fondo sovrano cinese China Investment Corporation. Cinque miliardi di dollari che lo Stato cinese ha preferito utilizzare per un’operazione di potere piuttosto che per migliorare le condizioni di vita della propria gente.

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Chi sono i nuovi padroni?

Nelle società quotate in Borsa, è difficile che l’azionista più grande abbia la maggioranza assoluta delle quote. Per poter controllare le imprese i soci più importanti devono ricorrere ad accordi vincolanti, definiti “patti

di sindacato”. Ad esempio, Rcs Mediagroup, uno dei più importanti gruppi editoriali italiani, è governato da un accordo che coinvolge il 63% delle quote societarie e ha fra i suoi firmatari importanti soggetti imprenditoriali

e finanziari, fra cui Fiat, Pirelli, Italmobiliare, Fondiaria, Mediobanca, Capitalia, Intesa Sanpaolo. Tutti padroni pro-quota, e, probabilmente, padroni solo di passaggio. Visto che spesso i gruppi finanziari detengono quote significative, è evidente che la nuova linea di comando sarà influenzata dai loro interessi, che saranno più di breve periodo: un fondo di investimento è interessato a incassare lauti dividendi alla fine dell’anno, e non si cura di cosa accadrà in un orizzonte più lungo.

Ha ben chiaro che appena le cose si metteranno male cercherà di saltare su un cavallo migliore. In questa situazione di proprietà frantumata, ad assumere un ruolo di veri comandanti sono i manager. Il loro enorme potere sull’andamento delle aziende è significativamente testimoniato dai compensi annuali che ricevono:

il compenso medio dei manager delle prime 20 società europee è di 12 milioni di dollari (vedi tabella a destra); i loro colleghi americani raggiungono in media addirittura il triplo. Tali remunerazioni sono in genere basate su stock option, in modo da allineare gli interessi del manager con quelli degli azionisti.

Una stock option permette di acquistare le azioni dell’impresa per cui si lavora a un prezzo predeterminato. In genere le stock option sono conferite gratuitamente ai manager che per incrementare i loro stipendi sono incentivati a massimizzare il valore azionario dell’impresa.

La diffusione di questo strumento si deve probabilmente più alla normativa fiscale di favore che al suo reale potere incentivante. Le opzioni infatti non costituiscono base imponibile ai fini contributivi e i loro proventi sono tassati con le aliquote fisse poste sulle rendite finanziarie invece che con le aliquote progressive applicate agli altri redditi.

In Italia ad esempio erano tassate solo al 12,5%, e solo un recente decreto del governo Prodi ha previsto anche per tali redditi la tassazione ordinaria. Secondo la logica di questo capitalismo miope,

gli interessi dei manager si sposano anche con gli obiettivi degli azionisti di “passaggio”. Infatti la massimizzazione a breve del valore azionario di un’azienda non coincide con la salute dell’azienda stessa. I manager di Enron, WolrdCom, e di molte altre aziende protagoniste di incredibili tonfi in Borsa sono spesso riusciti ad incassare ricche opzioni quando il prezzo delle azioni delle imprese che amministravano era artificiosamente alto, grazie ai loro trucchi da prestigiatori sui libri contabili. È evidente che in tali casi le vittime di queste operazioni sono i lavoratori, che vedono messo a rischio il loro posto di lavoro, e anche i piccoli azionisti, che di solito sono gli ultimi ad accorgersi del terremoto in arrivo e rimangono quasi sempre sotto le macerie.

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Anche lo stato tocca il fondo

di Duccio Valori

È difficile dire qualcosa di nuovo sull’alternativa tra pubblico e privato, sui reciproci limiti e sui relativi vantaggi e  svantaggi. In linea teorica, il “tutto privato”, con la concorrenza perfetta che ne dovrebbe derivare, andrebbe a vantaggio dell’efficienza, dello sviluppo, e quindi del consumatore; il “tutto pubblico”, con qualche non indifferente sacrificio di efficienza, garantirebbe una maggiore equità, e sarebbe quindi nell’interesse del cittadino.

Non esiste quindi una soluzione ottimale e valida per tutti i Paesi e tutti i settori, anche se chi scrive ritiene che lo Stato debba poter svolgere un’attività diretta di produzione anche nel settore dei beni e servizi di pubblica utilità, al fine di evitare la formazione di monopoli o –nel caso in cui lo Stato stesso sia monopolista–di garantire prezzi equi ai consumatori, o di utilizzare eventuali rendite monopolistiche a fini sociali o di sviluppo tecnologico.

Oggi assistiamo, nella maggior parte dei Paesi occidentali, alla tendenza opposta, anche se in alcuni Paesi con maggior prudenza rispetto ad altri; perfino accanto a quelle che dovrebbero essere funzioni irrinunciabili dello Stato (giustizia, sicurezza, istruzione, sanità) fioriscono attività private integrative, e spesso sostitutive: alla giustizia pubblica, troppo lenta, si affianca la diffusione dell’arbitrato, più costoso ma certamente più rapido; alle forze di polizia si affiancano le polizie private; alle scuole pubbliche, quelle private; mentre i sistemi sanitari pubblici sono da sempre in concorrenza con la sanità privata. E tutto questo non fa che accrescere le disparità tra cittadini, con elevati costi sociali: in tutto l’Occidente –ma anche in Brasile, India, Cina– le disparità di reddito si accentuano, mentre la concorrenza operata da questi Paesi nei confronti dei sistemi di più antica industrializzazione porta in questi ultimi compressione dei salari. Un caso particolare di intervento pubblico è oggi rappresentato dai cosiddetti “fondi sovrani”: entità finanziarie controllate da Paesi ricchi di liquidità che acquisiscono –o tentano di acquisire– partecipazioni significative in imprese dei Paesi di più antica industrializzazione. Così un Paese degli Emirati ha cercato di acquisire il controllo degli Enti portuali degli Usa (senza peraltro aver successo, data l’opposizione americana); così la Cina è intervenuta nel capitale di banche e merchant banks americane, scosse dalla crisi dei subprime mortgages. Ci si può chiedere se queste operazioni rispondano a logiche puramente finanziarie (ricerca del massimo rendimento dei capitali investiti), a logiche politiche (acquisizione di forza contrattuale nei confronti delle autorità dei Paesi ospiti), o infine agli interessi dei cittadini arabi o cinesi. In realtà, entrano in gioco tutte queste motivazioni, anche se l’ultima è quella che sembra richiedere qualche spiegazione in più. Tutti i Paesi di origine dei “fondi sovrani” hanno accumulato, in conseguenza di elevati saldi attivi della bilancia commerciale e di consistenti afflussi di investimenti dall’estero, riserve estremamente consistenti (la sola Cina ha al momento riserve valutarie per oltre 1.500 miliardi di dollari). Questo dovrebbe portare, come logica conseguenza, a una rivalutazione delle rispettive divise: ma a sua volta la rivalutazione ridurrebbe la competitività delle loro merci, e provocherebbe un rallentamento dello sviluppo trainato dall’export e un aumento della disoccupazione. Parte delle risorse valutarie può essere investita in attività diverse dal dollaro e dall’euro, come l’oro, che in effetti ha visto quadruplicarsi le proprie quotazioni negli ultimi cinque anni; ma il metodo più semplice per far defluire valuta, rinviando la necessità di una rivalutazione, consiste ovviamente nell’acquisire partecipazioni all’estero. Non è facile predeterminare, secondo criteri razionali e non ideologici, dove debba passare il confine tra privato e pubblico. È però evidente la differenza che corre tra obiettivi dell’impresa privata e obiettivi dell’intervento pubblico, sia diretto (tramite la creazione o la gestione di imprese statali o a partecipazione statale o locale) sia indiretto (tramite il prelievo e la spesa). Obiettivo dell’impresa privata  è il massimo profitto, mentre ogni altra considerazione –come la sicurezza dei lavoratori, il rispetto dell’ambiente, la promozione di occupazione e di attività indotte– costituisce un insieme di vincoli; questi vincoli sono invece gli obiettivi di interesse generale dell’intervento pubblico, che ha a sua volta il vincolo dell’economicità (che non coincide necessariamente con la massimizzazione del profitto). I sostenitori del neocapitalismo vogliono che dalla generalizzata ricerca del profitto privato derivi necessariamente il massimo dello sviluppo e del benessere generale: si può al contrario ritenere che l’interesse generale sia meglio servito da un oculato intervento pubblico, che sia capace di subottimizzare il vantaggio dei singoli, persone o imprese, nel superiore interesse generale, che può essere in contrasto con gli interessi particolari di individui, imprese, corporazioni o comunità locali.

Il caso italiano, pur nella sua specificità, appare illuminante.

Dopo quasi vent’anni di privatizzazioni, dalle quali ci si aspettava una vigorosa ripresa dello sviluppo, ci si trova invece di fronte ad un massiccio trasferimento di reddito dal lavoro al capitale, ad una stagnazione del reddito nazionale e degli investimenti produttivi, a un netto peggioramento delle condizioni di lavoro in termini di stabilità e perfino di sicurezza fisica, ad un declino della produttività e –contrariamente ad ogni aspettativa teorica– ad una netta perdita di potere negoziale del consumatore rispetto alle grandi corporazioni industriali, commerciali e bancarie.

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