Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Diritti

Ossessione F-35: perché davvero l’Italia vuole i caccia?

Problemi tecnici, costi che crescono, Paesi partner che fermano la loro partecipazione. Ma il ministero della Difesa italiano non abbandona l’idea di acquistare i caccia americani di nuova generazione.
Con un’intervista a Silvio Lora-Lamia, giornalista specializzato del settore aeronautico (in particolare militare), già condirettore della rivista "Volare" e collaboratore di "Analisi Difesa"

Chissà cosa si diranno, nell‘incontro convocato dal Canada il 2 di marzo per capire dove sta andando il contrastato programma Joint Strike Fighter. E chissà soprattutto chi verrà inviato da parte dell’Italia che, caso abbastanza unico tra i paesi che compartecipano alla costruzione del caccia F-35, si è sempre dichiarata ottimista e non toccata da ritardi e problemi, tanto da confermare (secondo le intenzioni del Ministro Di Paola) un consistente acquisto di aeroplani.

Con ogni probabilità almeno i rappresentanti canadesi, britannici ed australiani dovrebbero chiedere al Pentagono di rivelare loro, nel segreto della stanza di incontro a Washington, i risultati di una nuova revisione che è stata da poco conclusa ma che verrà fatta conoscere all’opinione pubblica soltanto fra qualche settimana. Di sicuro c’è solo che per il secondo anno consecutivo Lochkeed Martin non ha raggiunto gli obiettivi di sviluppo del caccia fissati dal Dipartimento della Difesa e per questo ha perso oltre 30 milioni di dollari di bonus ad essi legati.

 

I problemi continuano

La serie, che ormai pare infinita, di problemi di sviluppo e gestione ha davvero preoccupato molti rappresentanti dei paesi partner che ormai non credono più alla partenza dei test operativi nei tempi previsti. Si vocifera infatti, così riferisce la stampa specializzata, che almeno uno tra i maggiori paesi coinvolti ritenga ormai impossibile raggiungere la capacità operativa iniziale (IOC in sigla) prima del 2020. Colpa dell’impostazione complessiva del programma, basata sull’idea che la produzione dovesse essere integrata in una sola linea facendo partire una robusta costruzione di velivoli (almeno 200) subito dopo la fase di valutazione. Ciò implica però che gli aerei vengono prodotti prima della conclusione dello sviluppo e della fase di test (in termine tecnico "concurrency"): un vero disastro in caso di problemi tecnici rilevanti. Per evitare questa evenienza la legge USA stabilisce che le prime fasi produttive non possano riguardare più del 10% del numero complessivo di aerei. Ma un documento della Lockheed Martin di gennaio 2012 dimostra come la pianificazione per il JSF non abbia per nulla considerato questa imposizione: gli 11 lotti di produzione preliminare coinvolgono oltre 800 caccia.

E se succede, come per la versione B ad atterraggio verticale quella più ambita anche dall’Italia, che il peso attuale del velivolo è di solo 100 chilogrammi inferiore al limite massimo per il volo si capisce come il rischio di fallimento totale, anche tecnico, sia davvero dietro l’angolo. Eppure il Pentagono continua a spergiurare che la questione sia del tutto sotto controllo nonostante le notizie ormai quotidiane facciano balzare sulla sedia esponenti politici di primo livello come i Senatori Carl Levin e John McCain che con una lettera ufficiale hanno contestato la decisione del Ministro Leon Panetta di terminare la fase di controllo sulla versione a decollo corto ed atterraggio verticale (STOVL). Una scelta considerata prematura perché la configurazione in questione del caccia F-35 "ha completato solamente il 20% del previsto percorso di test". Le motivazioni sottese a tali scelte potrebbero però essere altre, e di natura non prF35 critical areaettamente militare. La difficoltà riscontrata dal programma ha messo infatti in crisi l’azienda produttrice Lockheed Martin dopo che il Pentagono è stato costretto a decidere un drastico taglio di 179 velivoli previsti nelle fasi produttive dei prossimi anni. In soccorso dell’industria militare si cercano quindi di "arruolare" gli alleati che potrebbero essere indotti, in varia maniera, a confermare i propri ordini di acquisto nonostante l’immaturità dei prototipi attualmente in produzione.

 

F-35 quanto mi costi

Il ministro della Difesa australiano Stephen Smith durante un congrsso dell’Australian defence magazine ha dichiarato che "Non e’ una priorita’, dal mio punto di vista esprimere un giudizio sull’acquisto di altri Joint strike fighter". E infatti il Governo di Canberra sta bloccando qualsiasi decisione sui numeri di jet da acquistare, rimanendo contrattualmente legata – per ora – a due soli esemplari e fermando qualsiasi decisione su ulteriori 58. Tra i dubbi maggiori di un paese che dovrebbe avere lo stesso timing di decisione dell’Italia (che pare non avere tentennamenti) ci sono le analisi sui costi: un recente rapporto elaborato da ufficiali della Difesa australiana dimostra come il JSF sarà più costoso da rendere operativo rispetto all’F-18 Hornet. Un dato confermato pure da analisi della Marina USA e che contraddice in pieno le dichiarazioni di Lockheed Martin, che ha sempre affermato come il suo F-35 sarà meno costoso da gestire rispetto agli aeroplani che dovrà andare a sostitutire.

Ma la stessa Lockheed non ha potuto tenere nascosti gli aumenti di costo che si profilano all’orizzonte per la riduzione sui numeri di aerei in procinto di essere prodottu. Lo stesso vice-presidente Burbage che a Roma aveva sfoggiato sicurezza ("tutto sotto controllo, nessun aumento" – vedi sotto l’intervista a Silvio Lora-Lamia) ad Oslo, nel corso del proseguimento del suo tour europeo, ha dovuto ammettere che la tendenza in corso "farà aumentare il costo medio complessivo di acquisto di ogni singolo aeroplano".

Ma, come sempre sottolineato da queste pagine ed anche da parte della campagna "Taglia le ali alle armi", i costi di acquisto sono solo una piccola parte deglo oneri complessivi, tanto che lo stesso Pentagono con paura ipotizza che l’impatto monetario di tutta la flotta di circa 2.500 aerei F-35 (per tutta la durata della loro vita operativa) potrà superare l’astronomica cifra di mille miliardi di dollari! Con costi in rapida crescita soprattutto per colpa del prezzo di un’ora di volo, passato da 9.000 a oltre 23.500 dollari in meno di dieci anni. Creando subito allarme sia nei partner iniziali del programma, come il Canada in cui è in corso una violenta polemica tra Governo ed opposizione sull’opportunità di acquisto, sia nei paesi che hanno deciso di acquisire i caccia F-35 come clienti finali. E’ il caso del Giappone che ha espresso la volontà di comprare 42 velivoli ma che, per bocca del MInistro della DIfesa Tanaka, ha chiesto agli USA di confermare il prezzo pattuito in sede di accordo. tutto ciò perchè le ultime stime derivanti dai dati del Bilancio USA fissano il prezzo unitario a circa 150 milioni di dollari il che farebbe salire di circa il 20% l’impatto finanziario rispetto al previsto. Ma tutti i fautori (nei vari paesi) del programma sembrano rassicurati da alcune comunicazioni statunitensi e di Lockheed Martin, illudendosi che non a loro ma agli altri partner toccheranno le impennate sui prezzi che sono ormai sotto gli occhi di tutti. Un po’ la situazione italiana, con i vertici del Segretariato Generale della Difesa pronti a confermare prezzi (da 80 a 50 milioni per aereo) che sembrano veramente fuori da ogni ipotesi visti i dati provenienti da oltre oceano. Eppure la Gran Bretagna, che è il paese maggiormente vicino alla nostra situazione sia per la rilevanza nel programma sia perchè sta procedendo ad una revisione completa del proprio modello di difesa, ha deciso di fermarsi a riflettere. E di non prendere alcuna decisione definitiva sul programma F-35 e sul numero di velivoli complessivo da comprare prima del 2015.

 

Ma allora perchè comprare?

Di fronte a tutte queste problematiche davvero risulta strana la decisione del MInistro di Paola di proseguire nella partecipazione di secondo livello al programma Joint Strike Fighter, con una semplice sforbiciata nel numero degli aerei decisa per via "amministrativa" e senza una discussione allargata e poggiante su dati ed analisi sicuri ed approfonditi. Tanto più che non sono solo i problemi tecnici o di costo a mettere in cattiva luce il nuovo caccia, che alcune simulazioni di combattimento vedrebbero consistentemente segretariato generalebattuto dai SU-35 di fabbricazione russa in diversi scenari di scontro con perdita conseguente anche degli aerei di supporto e di rifornimento. Una sconfitta derivante forse dalla "lentezza" dell’aereo che, per questo motivo e cioè la velocità massima di soli 1.6 mach, potrebbe vedersi escluso dalla gara d’appalto per gli aerei da combattimento sud-coreani.

Per capire qualcosa di piùà in questo groviglio di dati abbiamo fatto una chiacchierata con Silvio Lora-Lamia, giornalista specializzato del settore aeronautico (in particolare militare) e già condirettore della rivista "Volare" oltre che collaboratore di "Analisi Difesa". Nelle scorse settimane ha partecipato all’incontro che Tom Burbage, l’alto dirigente di Lockheed Martrin che sovraintende al programma JSF, ha tenuto a Roma nel corso del suo tour europeo di incontri con i partner internazionali del JSF.  A lui chiediamo per prima cosa se risulta confermato che l’Italia abbia acquistato i primi tre caccia.
 
Sgombriamo il campo dall’equivoco in cui sono incorse alcune agenzie: per ora si sono versati due anticipi, come vuole la procedura. Formalmente non li abbiano ancora ordinati, l’ordine definitivo ed effettivo ci sarà quest’anno, come mi hanno confermato direttamente anche  fonti in Italia di Lochkeed Martin. Tecnicamente, per ora l’Italia ha solo proceduto a ordinare nel 2010 alcune parti dei primi tre aerei per un valore del 2% di quello complessivo stimato due anni fa. L’ano scroso si è poi versato un ulteriore 14%.
 
AE – Dal punto di vista dello sviluppo tecnico del velivolo, a che punto si trova il programma?
 
Il programma è arretrato, non ci sono dubbi. Ha almeno cinque anni di ritardo. Da circa due anni, cioè da quando il programma è entrato in crisi, Lockheed Martin “martella” con comunicati in cui specifica quanti voli ha fatto e quanti "test point" sono stati raggiunti; ma è lo stesso Pentagono con i suoi periodici report (ne sono previsti due a breve) a certificare il ritardo e le problematiche di sviluppo del progetto.
 
Certo i problemi non sono propri solo del Joint Strike Fighter, ma riguardano ogni programma aeronautico avanzato. Il problema risiede nel come vengono affrontate sia dal lato ingegneristico che di gestione complessiva del programma.

AE – In che senso?
 
Tom Burbage è venuto a Roma cercando di tranquillizzare tutti con dei dati che sono parsi un po’ vecchi, anche quelli che riguardano l’impegno italiano. In realtà i numeri che riguardano lo stato dello sviluppo sono impietosi: siamo a circa al 20% medio di test completati sulle ore di volo previste (e stiamo parlando della somma di quelli effettivi e di quelli "virtuali" in laboratorio, dei quali il Pentagono si fida relativamente).
 
Il lavoro di soluzione dei problemi riscontrati finora sulle tre versioni (che – va sottolineato – hanno poco in comune avendo meno parti intercambiabili di quanto s credesse) è enorme, perché occorre farlo su aeroplani già costruiti. Stiamo parlando qui di controlli e prove su 42 aerei già in volo (con 117 già messi sotto contratto). Una volta fatte tutte le modifiche bisognerà poi riprovare l’aeroplano prima di renderlo operativo: in pratica ripartire da capo con i test ed altre ore di volo di prova aggiungendo ulteriori mesi agli attuali ritardi.
 
AE – Di quale ritardo stiamo parlando?
 
Una stima accreditata derivante da documenti della Difesa USA proietta al 2018 la fine della fase di test e sviluppo, mentre Lockheed Martin insiste con il fissare questo traguardo nel 2016, e nel calendario iniziale si parlava del 2014. Pochi gorni fa il Pentagono ha confermato la sospensione dell’acquistio di 179 esemplari in cinque anni (13 per il solo 2013), per poter risparmiare oltre 15 miliardi di dollari che in parte gli servono per coprire gli extra-costi dedeterminatisi nei prini tre lotti d produzione. Si tratta della terza ristrutturazione del programma negli anni recenti.
 
AE – Dal punto di vista dell’evoluzione tecnica del JSF, cosa comporta tutto questo?
 
Il problema maggiore è che si stanno accavallando le produzioni di nuovi aerei con i rifacimenti e con le prove di controllo effettuate su velivoli delle prime produzioni già ricondizionati. La gestione effettiva del programma, in questo caos di sovrapposizione di lavorazioni, ne risente, ricadendo anche sulla parte tecnica. I primi esemplari di F-35 hanno problemi di qualità di volo la cui soluzione definitiva potrebbe non essere indolore ai fini della stessa importantissima “bassa osservabilità” dell’aeroplano. Per non parlare dell’accavallamento delle varie versioni del software installato, che non è mai "in linea" perché gli sviluppi sono fatti da gruppi differenti e non sempre aggiornati contemporaneamente per le diverse parti dell’aereo.
 
AE – Ma allora perché il segretario alla Difesa Panetta ha tolto la "probation" (cioè una procedura di supervisione accurata) sullo sviluppo della versione B, quella per le portaerei che ha avuto più problemi di tutte?
 
Perché è un politico e non un tecnico. Si è semplicemente mosso come il suo predecessore Gates, che aveva aperto questa procedura di controllo ma ha fatto dichiarazioni possibiliste sulla sua fine perché non voleva andarsene dalla poltrona del Pentagono avendo i Marines (i più interessati a tale versione) come nemici. Penetta ha usato la stessa prospettiva; certamente si sono risolti dei problemi, ma non tutti quelli presenti nella versione. Ad esempio hanno coperto con una cortina di fumo le prove di appontaggio sulla portaeri usata per questi importanti collaudi: non è andato tutto bene come è stato detto, soprattutto per la turbolenza che si genera fra l’aereo e le sovrastrutture della portaerei. Ma anche la versione C (quella "navale") subirà delle modifiche perché è pesante, non ha buone doti di accelerazione, il suo gancio d’arresto ha fallito ogni ingaggio con i cavi perché mal progettato. Poi è noto che i piloti navali americani avrebbero preferito di molto un bireattore…
 
Un altro punto fortemente interrogativo del programma è legato al problema logistico, in particolare per la versione B, quella cosiddetta “expeditionary”, che si deve portare dietro un sistema di appoggio (per comunicazione, rifornimento ecc) enorme, indispensabile per restare collegata con una sorta di cordone ombelicale informatico con il sistema centrale negli USA, dislocandolo in aree magari difficilmente difendibili.
 
AE – Tutto questo cosa comporta per la partecipazione italiana al programma del Joint Strike Fighter, avendo già sottolineato come nessun acquisto sia ancora stato fatto?
 
I nostri primi aerei sono tutti esemplari appartenenti al sesto lotto di prima produzione, che è stato ridotto già rispetto alle previsioni a causa delle decisioni statunitensi. Il totale doveva essere di 62 aeroplani mentre saranno sicuramente 29, più eventualmente i 3 o 4 italiani che il Governo dovrebbe accingersi a ordinare. Inoltre avrebbe dovuto esserci anche una aliquota dei primi 14 F-35A australiani, per i quali proprio di recente Canberra ha decisio di rimandare l’acquisto di tre anni, quando l’F-35 sarà più “maturo”. Tutti i problemi nascono a Washington.
 
AE – In che senso?
 
Gli USA hanno ridotto di quasi il 50% il loro fabbisogno di JSF per i prossimi 5 anni, quindi la "learning curve" rimane piatta e lo rimarrà ancora per molto, nonostante le rassicurazioni di Lochkeed Martin.
E’ uno, in particolare, il problema per gli alleati che si trovano ad affrontare in questa fase. Si devono ordinare aeroplani “immaturi” in quanto a software e alle dinamiche di concurrency (dovranno poi essere modificati, ma dove?) o è meglio soprassedere per un po’? Da qualche giorno è stato deciso di ridurre i nostri aerei da 131 a 90, e questo cambierà molte cose nella nostra collaborazione, probabilmente riducendo il nostro “potere contrattuale” con li USA nel determinare costi, rirorni industriali eccetera. Poi, almeno una parte di questi 90 F-35 sarano comunque sempre più “incapaci” rispetto al resto della forniura, e con numeri più bassi questo diventa un handicap non da poco, da tutti i punti di vista.
Ma la pressione degli americani, che ora cercano di convincere l’Italia, l’Australia e anche altri parnter che ora si mostrano ancora più titubanti, non mancherà di portare a  nuove conflittualità nel partnerariato de programma. Anche perché Lockheed Martin coi nuiovi tagli vede allontanarsi il momento in cui l’F-35 porà produrle gli utili attesi.
 
AE – E il ritorno industriale ed occupazione per le nostre aziende?
 
Ormai è chiaro che l’impianto di Cameri lavorerà per un po’ sovradimensionato, chissà con che problemi di redditività. Le famose ali che Alenia dovrebbe produrre sono per ora solo 200 (unico contratto definito) e non le totali 1200 previsti. Totale che dopo la nostra riduzione di ordini, dovrà essere ricontrattato.
Tutto nasce dalla impostazione concorrenziale del programma (secondo il famco concetto del "best value") e dal pieno controllo statunitense di qualsiasi decisione strategica. Da Fort Worth non garantiscono niente ai partner, in special modo per la fase di produzione definitiva "full rate". Per ora sono state concesse produzioni e collaborazioni solo per piccoli lotti, commissionando prototipi senza un impegno garantito ad assegnare a quella determinata azienda, che pure ha fatto degli investimenti, la produzione in serie.
 

 

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.