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La voce dei senza voce. La figura di Oscar Romero, quarant’anni dopo l’omicidio

© John - Fickr

Il 24 marzo 1980 l’arcivescovo di San Salvador è stato assassinato dalle squadre paramilitari comandate dall’ex maggiore dell’esercito Roberto D’Aubuisson. “La sua idea di Chiesa non era al servizio delle élites ma del popolo. Come la sua idea di giustizia”, ricorda Fredis Sandoval, parroco salvadoreño fondatore la Concertación Mons. Romero che chiede verità e giustizia per la morte del Monseñor

“Romero era la voce dei senza voce. Ha promosso un’idea di giustizia coerente con il messaggio evangelico, cui è stato sempre fedele: la solidarietà con i poveri, il sostegno dei più deboli e l’assunzione delle loro aspirazioni per un tenore di vita dignitoso”. Fredis Sandoval, prete salvadoreño, descrive così la figura di Óscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo di San Salvador assassinato il 24 marzo 1980 dagli squadroni della morte di una delle più violente dittature militari nell’America Centrale. Stava celebrando l’eucarestia nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza nella capitale, quando fu colpito dal proiettile sparato da un fucile. Dopo poco, sarebbe iniziata la guerra civile che a El Salvador causerà almeno 74mila morti. “La sua Chiesa non era al servizio delle élites ma del popolo”, spiega Sandoval che ha conosciuto Romero quando era in seminario. Un gesto radicale in un Paese controllato da un nucleo ristretto di potenti famiglie latifondiste, sostenute dai militari, che vedevano nei rappresentanti del clero un appoggio per i loro interessi.

Nei pochi anni in cui ha ricoperto il ruolo di massima carica ecclesiastica del Paese (1977-1980), Romero ha denunciato le ingiustizie compiute dai membri dell’esercito, ha parlato delle violazioni dei diritti umani che il popolo subiva e ha reso pubblico il dramma dei desaparecidos. Ha cercato di dialogare e mediare con i membri della guerrilla, di cui non condivideva i metodi ma capiva le ragioni che ispiravano la lotta, con i sindacati e le organizzazioni marxiste. “La sua formazione teologica era quella di un moderato. La radicalità del suo essere stava nel modo di intendere la giustizia come un’applicazione sociale del messaggio cristiano. Un ideale comune verso cui, diceva, serve l’azione individuale e della comunità”, spiega Sandoval che nel luglio 2009 ha fondato la Concertación Mons. Romero di cui oggi è coordinatore. L’organizzazione – di cui fanno parte anche attivisti in difesa dei diritti umani, Ong e comunità religiose – ha l’obiettivo di esigere dallo Stato salvadoregno verità e giustizia per l’assassinio dell’arcivescovo. Non ci sono ancora state condanne, anche se i responsabili sono ritenuti le squadre paramilitari comandate dall’ex maggiore dell’esercito Roberto D’Aubuisson, poi fondatore del partito nazionalista e liberale Arena che ha vinto le elezioni fino al 2004. “I nomi dei colpevoli sono indicati nel rapporto elaborato dalla Commissione per i diritti dell’uomo delle Nazioni Unite. Ma a El Salvador non c’è mai stato un processo per riconoscere gli assassini di Romero. Il primo tentativo è nel 1987 ma è stato fermato dalla legge di amnistia del 1992”, spiega Sandoval. Nel 2016 la situazione è cambiata: la Corte Costituzionale salvadoreña ha dichiarato l’inapplicabilità dell’amnistia per i casi più gravi e nel 2018 il magistrato Rigoberto Chicas ha emesso un mandato di cattura internazionale nei confronti di Álvaro Saravia, uno degli ex militari implicati nell’omicidio e oggi latitante. “Crediamo sia importante continuare a esigere la verità e un processo. Serve ad avere una giustizia riparativa”, conclude.

Diventato un personaggio pubblico, Romero ha denunciato il sistema di oppressione, alimentato dalla logica dei blocchi contrapposti della Guerra Fredda, rifacendosi al messaggio evangelico. “La sua Chiesa ha un ruolo sociale perché deve intervenire in difesa degli oppressi. È stato ucciso per essere stato accanto a chi soffriva: è un martire e un profeta”, commenta Luca Pandolfi, professore di antropologia culturale e sociologia della religione presso l’Università Urbaniana di Roma. Quando l’arcivescovo, spiega, vede le violenze della dittatura sulla popolazione, “riflette sulle origini strutturali e programmatiche delle disuguaglianze”. Un evento tragico rafforza in lui la consapevolezza del senso dell’agire: è l’assassinio dell’amico gesuita padre Rutilio Grande nel 1977. Romero chiede al presidente Molina che sia aperta un’indagine ma di fronte all’immobilismo decide di non partecipare più agli eventi pubblici con le istituzioni. “È un’aperta sconfessione del governo. E poi parla alla radio, dove sono trasmesse le sue omelie. Ha un grande seguito. Dopo l’esegesi dei testi biblici, denuncia le violazioni dei diritti umani che avvengono in modo sistematico nel Paese. La stampa, controllata dal regime, non lo faceva”, continua. “In una dittatura che distrugge il tessuto sociale, nomina il massacro. Che continua anche dopo di lui”. Nel 1981 nel villaggio di El Mozote centinaia di campesinos sono stati trucidati dal battaglione Atlacatl, addestrato dalla Cia per fermare la guerrilla del Fronte Farabundo Martì per la liberazione nazionale (Fmln). Nel novembre del 1989, il corpo speciale ha ucciso sei gesuiti, insieme a due donne, nell’Università Centroamericana.

“Romero era un uomo che non transigeva e non accettava compromessi riguardo la giustizia sociale: quando si rende conto che i governanti sono sordi alla sue richieste, si mette contro di loro ed esige un cambio di rotta. Rompe lo schema, eredità del colonialismo spagnolo, della Chiesa intesa come colei che deve mantenere un ordine prestabilito”, commenta il professore Roberto Morozzo della Rocca, docente di Storia contemporanea presso l’Università Roma Tre e autore di “Oscar Romero. La biografia” (Edizioni San Paolo, 2015), scritto consultando documenti inediti. È stato chiamato come esperto nel processo di beatificazione dell’arcivescovo, ripreso da Joseph Ratzinger alla fine del suo magistero e portato a termine grazie a Jose Mario Bergoglio nel 2015. Un percorso durato anni perché rallentato dalle diverse posizioni che la curia romana aveva sull’arcivescovo di El Salvador. Romero, infatti, negli anni era stato isolato da molti dei suoi confratelli vescovi e da molti in Vaticano, che lo ritenevano vicino al marxismo latinoamericano. E le critiche, e le calunnie, sul suo operato sono continuate anche dopo la sua morte. “Romero è stato erroneamente identificato con la Teologia della Liberazione, cui non ha mai aderito”, spiega della Rocca. Il processo di beatificazione ha risentito della “ideologizzazione” che lo aveva legato a una parte politica quando, invece, il suo modello è sempre stato la curia romana e, in particolare, Paolo VI con cui è stato canonizzato nel 2018.
“Di fronte alla situazione tragica del Paese, Romero ha assunto su di sé la fortaleza, che è una virtù cristiana. È un dovere e ha significato difendere la Chiesa e, insieme, il suo popolo oppresso”, spiega Morozzo della Rocca. La sua ricerca sostiene come un sostegno sarebbe arrivato anche da Giovanni Paolo II. Che poi, il 6 marzo 1983 si recò in visita in Salvador in piena guerra civile e, nonostante il programma da seguire, decise di pregare sulla tomba dell’arcivescovo assassinato. Dove, inginocchiato e per ricordare il valore della vita dell’arcivescovo, esclamò più volte: “Romero è nostro”.
Oggi a El Salvador non si terranno le celebrazioni per i quarant’anni dell’omicidio di Romero a causa dell’attuale emergenza sanitaria. Ma alle 18.15, dalle finestre delle case, saranno accese luci di candela per ricordare il profeta e il martire.

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