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Le accuse mosse all’Aquarius viste da un medico che ha lavorato sulle navi di soccorso

“Dichiarare che gli abiti dei migranti possano costituire vettore di patologie quali meningite, tubercolosi o HIV rivelano una scarsa conoscenza inammissibile. Gli anni della peste immortalata da Alessandro Manzoni, e la relativa caccia agli untori, dovrebbero essere noti. Ma forse è tempo di tornare sui libri di storia”. Il commento della dottoressa Giovanna Scaccabarozzi

Il processo di delegittimazione dell’intervento umanitario nel Mediterraneo entra in una nuova era. La strategia del dubbio di connivenza tra Ong e trafficanti, mai confermato dalle inchieste giudiziarie, ha aperto una voragine nell’opinione pubblica che ha infine inghiottito non solo le navi di soccorso dedicate alla ricerca e soccorso, ma anche realtà istituzionali quali la Guardia costiera Italiana, perché de facto questo è successo. Il Mediterraneo è oggi frontiera di morte che nessuno può più contrastare, e nemmeno raccontare. Ma le nuove accuse mosse alla nave Aquarius segnano un nuovo passo nella lotta a quell’azione umanitaria non allineata agli interessi della politica corrente.

Con il nuovo capitolo aperto dalla Procura di Catania si varcano i confini di etica e scienza, piuttosto che quelli della legalità. Premesso che tra tante organizzazioni governative, Medici Senza Frontiere può vantare una tra le più consolidate esperienze in tema di interventi tempestivi ed efficaci in corso di emergenze sanitarie: da decenni MSF è tra i primi attori a rispondere a epidemie di colera, meningite, morbillo, ebola, con una capacità logistica e sanitaria che in poche ore li rende operativi sulla linea del fronte.

Va detto inoltre che lo smaltimento dei rifiuti a livello portuale avviene con le stesse modalità per ogni imbarcazione e secondo direttive che sono state sempre concordate con autorità competenti. Ora, da medico, non posso tacere di fronte ad affermazioni che non trovano alcun fondamento scientifico per confermare la questione di salute pubblica che pare stia alla base delle accuse mosse.

Dichiarare che gli abiti dei migranti possano costituire vettore di patologie quali meningite, tubercolosi o HIV rivelano una leggerezza conoscitiva inammissibile in un tale contesto giudiziario. Gli anni della peste immortalata da Alessandro Manzoni, e la relativa caccia agli untori, dovrebbero essere concetti noti e assimilati da chiunque abbia concluso il corso di studi che la nostra legge prevede quale obbligatorio, ma forse è tempo di tornare sui libri di storia, anche quella più recente. Potrei indulgere sulla conoscenza della scabbia, patologia decisamente ormai poco diffusa nelle nostre latitudini e quindi poco conosciuta e riconosciuta. Dieci minuti di ricerca in Rete basterebbero però a colmare certe lacune: rinchiudere per circa 72 ore abiti o effetti personali non lavabili in sacchi di plastica (alias quelli utilizzati a bordo delle navi, in tempi di navigazione compatibili con tale processo) è pratica riconosciuta efficace per eliminare il rischio di contagio.

Per un atto di responsabilità ulteriore potremmo spingerci oltre, e confrontare i dati epidemiologici degli ultimi anni nelle aree geografiche potenzialmente minacciate da quelle pratiche che (in modo del tutto irrazionale) oggi sono sotto indagine. Non si sono avuti riscontri di criticità infettive a livello comunitario per i residenti italiani. Semplicemente perché non vi può essere correlazione tra quanto additato alla nave Aquarius e un reale rischio epidemico.

Attendiamo ora la nuova onda di indignazione ineluttabilmente suscitata dai titoli nei quotidiani. Gli abiti logori, sporchi, maleodoranti e infetti dei migranti. Indigniamoci, sì, ma non già per l’ennesima minaccia aleatoria e totalmente infondata alla nostra sicurezza. Indigniamoci per essere complici della realtà di decine di migliaia di uomini, donne e bambini condannati a indossare quegli abiti come unico bene sopravvissuto delle loro vite. Quegli abiti bruciati, con la pelle di chi li porta, dalla miscela di acqua e benzina nel fondo dei gommoni. Quei pantaloni strappati su cui i migranti scrivono a penna il loro nome, autografi di morte imminente. Indigniamoci per i mostri che ogni giorno proliferano. È tempo di ritrovare un pensiero critico, è tempo di tornare a scegliere.

Giovanna Scaccabarozzi, medico, ha lavorato a bordo delle navi umanitarie nel Mediterraneo e nei porti di sbarco

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