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Cultura e scienza / Reportage

Nel deserto dell’Oman, dove si prepara il balzo verso Marte

Per l’astrofisico Stephen Hawking “è tempo di abbandonare la Terra”. C’è chi lo ha preso sul serio: il 1° febbraio 2018 inizierà la missione sperimentale “Amadee-18”, per elaborare dati utili a preparare lo sbarco sul Pianeta Rosso

Tratto da Altreconomia 198 — Novembre 2017

Con un piede in Oman e l’altro su Marte. L’Italia si appresta a compiere un passo titanico che dal deserto del Dhofar, appendice semi-arida di 310mila chilometri quadrati nella Penisola Arabica, porta direttamente ai crateri del Pianeta Rosso. Con la chiusura a novembre della fase di organizzazione logistica, un team internazionale di ricercatori darà avvio il 1° febbraio dell’anno prossimo alla missione “Amadee-18”: quattro settimane di esperimenti nel Sultanato di Qābūs bin Sa īd Āl Sa īd, per uno dei più importanti progetti di simulazione spaziale. Responsabile è l’Öesterreichisches weltraum forum (il Forum spaziale austriaco, oewf.org), pronto a coordinare un team di 15 ricercatori in collaborazione con le istituzioni scientifiche di otto diversi Paesi.

Nulla a che vedere con le numerose “colonie marziane” annunciate, o in fase d’inaugurazione, ai quattro angoli del mondo: benché gli ultimi anni sembrino aver definitivamente rispolverato l’appeal di Marte nell’immaginario ludico-ricreativo, “Amadee-18” punta a produrre dati sensibili utili alla Nasa o alle agenzie spaziali che già lavorano allo sbarco. Perché su Marte si andrà: questo è certo. Non sappiamo invece quando. Costi esorbitanti, tensioni politiche e problematiche etiche sono ancora in grado di bloccare lo slancio prometeico cui l’evoluzione tecnologica ha messo i razzi.

Giusto per chiarirsi le idee: il recente studio realizzato dall’Aerospace corporation americana, dal titolo “Mission operations cost estimation tool” (Mocet), aiuta a stimare i costi indicativi delle diverse tipologie di missioni spaziali. Sono ripartite in “micro” (inferiori ai 60 milioni di dollari), “piccole” (fra i 60 e i 120 milioni), “medie” (fra i 120 e i 400 milioni), “ampie” (fra i 400 e gli 800) e infine “di bandiera” (dagli 800 milioni ad infinitum). L’uso di quest’ultima definizione non è del tutto innocente: come ha evidenziato Mary Roach, divulgatrice scientifica statunitense e autrice del libro di fresca stampa “Come vivremo su Marte”, sino a pochi anni fa la conquista dello spazio è stata soprattutto questione d’orgoglio nazionale. “Tra i milioni di pagine di documenti e report generati dal primo sbarco sulla Luna -scrive- nessuno è più significativo, almeno per me, di un articolo di undici pagine presentato alla XXVI riunione annuale della North American Vexillological Association (Associazione vessillologica del Nord America). Si intitola: ‘Dove nessuna bandiera si era mai spinta: aspetti politici e tecnici del posizionamento di un vessillo sulla Luna’”.

Consci dei limiti fisici legati alla permanenza dell’uomo nello spazio, Stati Uniti, Unione Sovietica prima, Russia poi e, negli ultimi anni, Cina, sapevano che le ricerche condotte fuori dalla Terra sarebbero valse principalmente come “basi sperimentali per ipotesi evolutive”. È sempre esistito un anelito a conoscere di più le nostre origini e il nostro destino, ma questo è stato coltivato nella consapevolezza di non poter cambiare concretamente il corso della natura. I veri benefici dipendevano in passato dalle ricadute mediatiche, dal prestigio nazionale tributato dagli altri Paesi e, soprattutto, dai mercati che potevano essere agganciati attraverso l’impresa spaziale. Oggi, per gli esperti di astrofisica così come per gli economisti fuori dal coro, non è più così: la vita sulla Terra è minacciata da un problema di sostenibilità ormai inaggirabile. Complice l’impennata tecnologica post-internet, la colonizzazione di altri pianeti è diventata una necessità. Stephen Hawking, il noto fisico teoretico che ha elaborato la teoria dei buchi neri e del Big Bang caldo, è stato tranchant: “È tempo di abbandonare la Terra -ha dichiarato nel documentario per la BBC ‘Expedition New Earth’- perché stiamo esaurendo il nostro spazio vitale e gli unici luoghi dove andare sono ormai gli altri mondi. Entro i prossimi cento anni dobbiamo colonizzare Marte e nuovi pianeti: se non lo faremo, potremmo non sopravvivere al cambiamento climatico, alle epidemie e a tutte le altre versioni d’inferno che ci stiamo infliggendo durante questo secolo”.

Nel deserto del Dhofar è possibile distinguere livelli di stratificazione salina risalenti a ere remote

A Innsbruck, dov’è stato allestito il Centro di supporto alla missione “Amadee-18”, hanno preso le sue parole molto sul serio. Le operazioni nel deserto del Dhofar saranno seguite in tempo quasi-reale (è prevista una differita “artificiale” di 10 minuti, come accadrebbe nei collegamenti da Marte) e prevedono l’emulazione di attività d’indagine su suolo roccioso. Agli ordini austriaci, un team internazionale che include cinque cosiddetti “astronauti-analoghi”. Uno dei quattro direttori di volo è la giovane italiana Laura Zanardini, vincitrice dell’AlumniPolimi Award2013, ma il nostro Paese offrirà alla missione un contributo decisivo anche in quattro dei 13 esperimenti previsti. L’Agenzia spaziale italiana (asi.it) è il referente per il progetto “HortExtreme”, basato sull’installazione di serre idroponiche mobili e gonfiabili, ideate cioè per la coltivazione fuori dal suolo, grazie a substrati inerti. Curerà inoltre il progetto “Spettrometria sul campo”, ovvero l’acquisizione degli spettri di riflessione e radianza di un ambiente analogo a Marte. La società Mars Planet seguirà invece la missione “V(R)ITAGO”, che punta al perfezionamento d’uso di un strumento di realtà virtuale, ideato per favorire le analisi geologiche del team Rss (Remote science support). Il Dipartimento di Fisica e geologia dell’Università degli Studi di Perugia, insieme all’Istituto di Astrofisica e planetologia spaziali (Iaps), si occuperà infine di “Scanmars”: la caratterizzazione del suolo sub-superficiale, grazie all’impiego dei dati ottenuti da un radar di penetrazione.

“Abbiamo bisogno di comprendere le capacità e le limitazioni dei nostri equipaggiamenti -ha evidenziato Gernot Groemer, presidente del Forum spaziale austriaco- ma anche ciò che occorre fare una volta atterrati su Marte. Il nostro Forum è infatti uno dei cinque gruppi di ricerca al mondo impegnato a sviluppare i prototipi delle tute spaziali Aouda, che saranno indossate dagli astronauti-analoghi durante la missione in Oman e, in futuro, su Marte”.

I due habitat sono fra loro molto simili, seppur non uguali. Nel deserto del Dhofar, circa mille chilometri a sud-ovest della capitale Muscat, si trovano strutture sedimentarie risalenti al Paleocene e all’Eocene, concrezioni saline, oltre ad antichi letti di fiumi quasi sempre in secca.

Ogni area geologica è poi circondata da superfici sia sabbiose sia rocciose, con inclinazioni continuamente variabili. Con una temperatura che a febbraio oscilla fra i 16 e i 27 gradi, e meno di 10 millimetri totali di pioggia, il clima del Dhofar risulta certamente più mite di quello di Marte, su cui la gravità è oltretutto un terzo rispetto all’habitat terrestre.

Sarà dunque possibile cercare tracce di Dna, rover e droni andranno in esplorazione per spazi sconfinati, verranno valutate tutte le condizioni fisiche di stress: difficile assistere però a quei fenomeni che rendono la vita nello spazio uno spettacolo spesso sorprendente. Benché le cronache ufficiali siano solite mostrare soltanto i lati sensazionali delle missioni, la quotidianità degli astronauti è fatta di esperienze che inducono a ritenere la vita sulla Terra ancora preferibile.

Capita, ad esempio, che il risucchio della toilette -in condizioni di gravità ridotta o assente- non riesca a catturare gli escrementi dei compagni di viaggio, col rischio di doverci fare poi i conti in cabina; la rotazione dei corpi causa spesso rigurgiti di vomito, mentre l’isolamento prolungato può scatenare fenomeni d’ossessione, mania o depressione. Persino il sesso, ricorda ancora Mary Roach, finirebbe per regredire a stadi animaleschi, dovendo ricorrere a morsi e prese spasmodiche per mantenere i corpi uniti. In attesa di perfezionare le condizioni di abitabilità sul Pianeta Rosso, urge dunque riadattare le nostre abitudini per proteggere l’habitat che ci ospita, ma per preservare anche tutte quelle conquiste della civiltà tanto faticosamente raggiunte nel corso dei millenni. Non sia mai che i marziani si facciano idee sbagliate e ci giudichino sgraditi “clandestini”.

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