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L’obsolescenza della democrazia liberale

La risposta ai totalitarismi novecenteschi è messa a dura prova dalle dinamiche della globalizzazione, della finanziarizzazione e soprattutto dalla comparsa di nuove potenze di chiaro stampo non democratico. Come costruire un futuro diverso? L’analisi del prof. Alessandro Volpi

© Brian Kyed - Unsplash

Da più parti si parla di crisi della democrazia liberale, determinata dalla sua obsolescenza rispetto alle profonde trasformazioni intervenute, con estrema rapidità, nei processi economici e sociali. Secondo alcuni osservatori tale obsolescenza è il portato di un vero e proprio cambiamento di fase storica; le democrazie liberali, nate nell’Ottocento, sono state legate al primo e al secondo decollo industriale, hanno rappresentato la risposta ai totalitarismi novecenteschi ma sono state messe duramente alla prova dalle dinamiche della globalizzazione, della finanziarizzazione e soprattutto dalla comparsa di nuove potenze di chiaro stampo non democratico, a cominciare dalla Cina.

La loro progressiva emarginazione in varie parti del mondo non è dipesa tuttavia dalla crisi economica in sé stessa perché il liberismo, l’elogio delle forze del mercato che hanno permesso l’affermazione delle stesse economie illiberali e antidemocratiche sono nati proprio in seno a grandi democrazie liberali destinate però a subire, per effetto della esplosione di nuove realtà ruggenti, una concorrenza spietata prima di tutto in termini politici. Di fronte a Paesi privi delle complessità dei meccanismi della rappresentanza politica, i tempi del dibattito e della discussione pubblica tipici degli Stati democratici e parlamentarizzati sono diventati un elemento determinante di perdita di competitività. Si è formata così l’idea che la democrazia parlamentare sia stata la responsabile della genesi di nuove aggressive potenze economiche, nate con la rivoluzione liberal-liberista, contro cui la medesima democrazia non ha saputo opporre resistenza, finendo per accettare l’impoverimento delle proprie popolazioni, causato da un imbelle parlamentarismo.

A rafforzare questa lettura ha contribuito il fatto che la risposta alla crisi economica è stata condotta in primo luogo dalla Banche centrali dei Paesi democratici, la cui azione è caratterizzata dalla sostanziale e rivendicata indipendenza dal potere politico. In una simile ottica, come accennato, si è sviluppata una polemica “controrivoluzionaria”, in nome del ripristino di forme di governo dove “il popolo”, una volta scelto il suo capo, non perda tempo in inutili e dannose disquisizioni elitistiche, alimentate da un ceto di parlamentari sensibili unicamente all’occupazione del loro seggio. All’obsolescenza della democrazia liberale non sembrano sostituirsi dunque soluzioni organizzate di democrazia diretta, come auspicato nel recente passato da varie formazioni politiche, mentre avanzano ingegnerie istituzionali più o meno grossolane dove l’apparato dello Stato, decisamente centralizzato e invasivo in chiave illiberale, è sorretto da una gridata retorica sloganistica di matrice autarchica e “protezionista”.

In tale prospettiva, un corroborante decisivo, utilizzato per rendere credibili le promesse miracolistiche di successo “patriottico”, è costituito dalle molteplici forme della paura del “nemico” e del diverso, declinato, appunto, in vari modi. Sono nemici da battere i lavoratori immigrati, le imprese estere che vogliono entrare nei mercati interni, le regole e gli accordi internazionali; il compito dello Stato diventa allora quello di chiudere le porte e i porti, di perseguire la propria autosufficienza e di costruire la propria ricchezza sulla spinta dei consumatori e dei risparmiatori nazionali. La crisi “storica” delle democrazie liberali apre la strada ad una geopolitica di potenza, dove è naturale trionfino soltanto quelle realtà statuali che hanno la dimensione e le risorse, in termini demografici ed economici, per fare da sole.

In altre parole, la crisi delle democrazie liberali diventa anche la crisi degli stessi Stati nazionali che non hanno la forza dell’autosufficienza. Non è possibile coltivare l’autarchia ed essere strutturalmente dipendenti dall’estero. Nel caso italiano perseguire simile retorica è pericolosissimo e le difficoltà del sistema politico, ingabbiato tra parlamentarismo e sovranismo, dovrebbero essere superate puntando invece ad un rinnovamento delle forme democratiche non al loro svuotamento. In questo senso occorrerebbe conservare, riformandolo in profondità, il senso intimo della democrazia rintracciabile nella sua capacità di generare e garantire un’intelligenza cognitiva collettiva, attraverso cui possa procedere l’avanzamento della conoscenza e dei suoi benefici in termini sociali, economici e culturali. Servirebbero istituzioni e processi decisionali più flessibili, in grado di misurarsi con la velocità della costruzione e della liquefazione delle visioni, partorite sulla e dalla rete, e con la smaterializzazione della produzione di beni e servizi. Dentro una simile dimensione occorre ripristinare il senso, democratico, della competenza e del merito, non surrogabili dalla mera rappresentazione popolare operata dall’interpretazione leaderistica che trasforma la democrazia in plebiscito social quotidiano. Solo sul piano della competenza le democrazie di Paesi non in grado di essere autosufficienti possono trovare un futuro, ma proprio per questa centralità la competenza deve avere un valore intrinsecamente democratico.

Università di Pisa

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