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Terra e cibo / Opinioni

Nutrire la Terra: la transizione ecologica parte dal cibo

Il sistema alimentare globale è la prima causa di perdita di biodiversità: è ora di sovvertire i paradigmi che ci hanno condotto al collasso e costruire una reale transizione. Si può fare, dal campo alla tavola. Il contributo di Lorenzo Berlendis (già Slow Food Italia)

© Markus Spiske - Unsplash

Transizione, ecologia. Termini associati, in tempi non sospetti, in un “conio” che allude al cambio dei paradigmi fondativi del mondo che conosciamo: quello governato dalla dea crescita che si è evoluto soprattutto dal 1493, anno primo della globalizzazione e del mercato unico mondiale. La transizione ecologica è approdo obbligato perché un intero Pianeta, fatto oggetto e strumento di produzione e accumulazione di ricchezza ineguale, ha mostrato la finitezza delle sue risorse: i limiti possibili di alterazione della composizione atmosferica e dei cicli di carbonio e azoto, di disponibilità e inquinamento delle acque insieme alla fertilità dei suoli. Ha impietosamente segnalato il raggiungimento dei confini ultimi del disequilibrio complessivo dell’ecosistema Terra. Il capolinea. 

Transizione è passaggio da una situazione a un’altra. Non c’è ambiguità possibile: occorre lasciare un modello, un sistema, e migrare, evolvere, trasferirsi in un altro. Pur con tutte le gradualità del caso, non c’è riforma o aggiustamento che tenga. Lo sviluppo sostenibile è ossimoro che surroga crescita con un suo sinonimo ingentilito da un aggettivo reso sterile.

Ecologia è cura dell’equilibrio della casa comune, del “creato” per taluni. Ecologico non è aggettivo che consenta, tanto quanto il primo termine, deroghe o interpretazioni. Tutto è relazione. Tutto è in relazione. L’ecologia non si racchiude in un ministero, per nuovo e importante che sia. L’ecologia è la lente che dovrebbe informare tutti gli atti di un governo che volesse essere credibile, coerente e concreto. Così come dovrebbe informare ogni nostro singolo atto quotidiano. Il mangiare, il muoversi, il produrre. Perché essi cessino di essere atti di consumo, di dissipazione e deterioramento delle risorse, insieme al logoramento delle chance residue per poter continuare ad abitare il Pianeta, ma atti di conservazione e rigenerazione dei beni, a partire dai commons. Beni comuni non di appannaggio di una sola specie sovrana, ma comuni a tutto il vivente.

La biodiversità, segnatamente quella agroalimentare, e l’accesso al cibo che essa garantisce, o dovrebbe garantire, sono uno di questi commons, basilari e fondamentali. “La biodiversità è la nostra assicurazione sulla vita”, anche nelle dichiarazioni dei vertici dell’Unione europea, non solo e non tanto perché si mangia tutti i giorni, più volte al giorno, almeno alle nostre latitudini. 

Bensì perché il cibo è l’esempio più eclatante e concreto della rete di connessioni che regola e rende possibile la vita sul Pianeta, cartina al tornasole del nostro ruolo dentro di esse. Il cibo è contemporaneamente nutrizione e cultura, ambiente e geografia, storia e identità. Ogni prodotto che portiamo in tavola connette semi, suolo, aria, acqua, territorio, saperi, comunità. È paradigma principe di ogni narrazione sulla sostenibilità.

Eppure il nostro sistema alimentare globale, dominato dalle commodities, è la prima causa di perdita di biodiversità, di dilapidazione della nostra assicurazione su vita e speranza di sopravvivenza. L’agricoltura da sola rappresenta la più forte minaccia per 24 delle 28mila specie a rischio di estinzione, la sesta estinzione di massa generata dall’impatto umano, la più importante degli ultimi milioni di anni.

“L’erosione della biodiversità è causata da sistemi agricoli sempre più specializzati e semplificati, che occupano terreni sempre più vasti, e dall’ampio uso di input chimici. La degradazione del suolo e perdita di nutrimenti -azoto in primis- nell’acqua e nell’atmosfera hanno raggiunto livelli allarmanti. Un cambiamento significativo delle pratiche agricole è necessario è quanto mai urgente”, riportano fonti ufficiali dell’Ue. 

Lo si legge ovunque. In un recente report del Chatham House britannico, redatto in collaborazione con il programma Onu per l’Ambiente (Unep) e Compassion in World Farming (CIWF), si esplicitano, senza mezzi termini, necessità e urgenza di smantellamento dell’attuale sistema agroalimentare fondando quella che deve essere una vera rivoluzione agricola su tre parallassi: conversione delle pratiche agricole in direzione di un maggiore rispetto dei cicli biologici naturali, valido sia per vegetali che animali, protezione e aumento delle aree ad alta naturalità, funzionali alla propagazione di una biodiversità funzionale sia di per sé che da supporto alle aree coltivate, transizione verso diete a forte predominanza vegetale, che riequilibrino la piramide alimentare fortemente sbilanciata sui consumi lattiero-caseari e carnei. 

Il documento della Chatham House ribadisce opportunamente la coniugazione dell’approccio agro-ecologico con l’assunzione di diete responsabili. 

Non appaia ridondante ribadire che “l’agroecologia è un modo di vivere. Non è un mero insieme di tecnologie o pratiche di produzione, ma piuttosto un sistema olistico ed inclusivo di produzione, trasformazione e distribuzione dei prodotti alimentari attraverso catene di vendita diretta, eque e autogovernate. Tali pratiche si basano su principi ecologici che riducono drasticamente la dipendenza da input esterni”, come riporta l’estratto dall’output document di Expo dei Popoli 2015, cartello che ha riunito tutte le più grandi associazioni mondiali di contadini e i movimenti ecologisti.

Dentro questa visione un’azienda agricola deve puntare a qualificarsi come un ecosistema a elevata complessità, imitativo degli ambienti naturali, capace di mantenere perciò il suolo fertile nel lungo periodo e di rendere il paesaggio, bene comune al pari del suolo, esempio di complessità, varietà e bellezza. Gli agricoltori sono veri e propri designer del paesaggio, dalle centuriazioni romane in poi. La qualità delle coltivazioni, in una visione complessa, può essere ottenuta solo in una gestione eco-sistemica dell’azienda e dell’intorno.

La gestione dei campi centrata su sistemi poli-colturali, successioni e rotazioni pluriennali lunghe, almeno di tre anni, consociazioni vegetali, colture di copertura, opportuno equilibrio tra arativo e sodivo, è la chiave di successo e di effettiva conversione delle agricolture sostenibili. Pratiche che presuppongono la presenza collaterale e contestuale di aree ad alta naturalità, funzionali alla propagazione di biodiversità e al contenimento dei patogeni. La costruzione di siepi intorno ai campi, le alberature di confine o di ripa, le bordure fiorite attorno ai frutteti o interfilare, più semplicemente il mantenimento di strisce di terreno incolto sono pratiche la cui moderna efficacia è testimoniata, tra le altre, da un’estesa ricerca internazionale coordinata da Eurac Research di Bolzano, dall’Università di Würzburg, evolutasi da uno studio originato dall’Università di Padova. 

Sono i cosiddetti servizi ecosistemici garantiti dall’approccio agro-ecologico: dalla facilitazione dell’impollinazione garantita dagli insetti selvatici, oltre che dai pronubi domesticati, come le api, al controllo biologico, cioè la capacità di un ambiente di difendersi da insetti nocivi grazie agli antagonisti presenti in natura, dalla gestione delle acque di superficie e di falda, al mantenimento dello strato humifero del terreno, perché coltivare secondo i cicli naturali sia possibile. In sintesi favorendo processi endogeni di rigenerazione e resilienza.

Questi processi vanno sostenuti e accompagnati da operazioni radicali di liberazione dei suoli da coperture, cementizie o bituminose che siano, per favorirne, attraverso la rinaturalizzazione, la decisiva capacità di assorbimento della CO2, invertendo l’inarrestabile drammatica tendenza al “consumo di suolo” con atti pubblici coraggiosi, impermeabili alle pressioni dell’armata immobiliare.

La conversione agro-ecologica è già ampiamente rodata, ancorché diffusa in aree ristrette e soggette all’assedio del vorace agrobusiness associato alle imprese di distribuzione. Perché abbia successo, anche in riferimento alla sostenibilità economica della nuova imprenditoria, deve accompagnarsi anche e soprattutto a scelte alimentari consapevoli, con assunzione di diete che siano fondate sulla salute di cittadini e ambiente, non sulle convenienze dei big player dell’agroindustria e della loro potenza comunicativa. Diete da adottare con forte impulso degli enti pubblici, primariamente rivolte e sviluppate in scuole e comunità, diete che siano primarie garanti della salute di tutto l’ecosistema e della sua capacità intrinseche di rigenerazione, oltre che del benessere dei cittadini.

Diete basate su cibi di prossimità, prodotti da agricoltori che possano decidere, connessi ai consumatori/coproduttori in patti di filiera, come e cosa coltivare. Contadini che dispongano dei semi, una ricchezza sociale collettiva che va mantenuta tale. I semi sono il risultato della continua ricerca in campo e della selezione genetica partecipata operata dalle comunità di agricoltori, storicamente consolidata e in territori definiti. Varietà ed ecotipi debbono essere conservati, caratterizzati e determinati. Lo scambio dei semi tra coltivatori e custodi è un’operazione di millenaria solidità. Certamente selezione e conservazione vanno condotte con supporto scientifico, con la primaria convinzione, tuttavia, che la ricerca vada sempre fatta in campo, insieme ai contadini custodi. Ciò per prevenire il “seed-grabbing”, ovvero preservare i semi dall’appropriazione indebita di chi ha a cuore proprietà e profitto in luogo di diritto e accesso al cibo. Le confortanti esperienze delle comunità di agricoltori che stanno propagando, dalla Sicilia alla Lombardia, dalle pianure cerealicole alle balze montane, le coltivazioni di grani evolutivi con il sapiente concorso di genetisti militanti come Salvatore Ceccarelli, sono semi di grande speranza.

Il sostegno alle produzioni sostenibili di prossimità deve accompagnarsi con una decisa de-intermediazione delle filiere che consenta di ricalibrare i meccanismi di formazione dei prezzi in favore dei produttori primari, sempre e comunque destinatari di infime percentuali del prezzo finale. Sottraendoli anche a meccanismi capestro come le aste al ribasso, praticate più o meno lecitamente dalla Grande distribuzione organizzata. Gdo che, fiutato il business del biologico, si sta imponendo come principale riferimento dell’offerta di prodotti certificati, sottraendoli progressivamente alla vendita diretta dei produttori primari, ai negozi di prossimità e ai mercati agricoli. È il trend che si va affermando contestualmente al crescente successo del bio sulle nostre tavole.

Questo diabolico ed intricato sistema alimentare si è retto “sul paradigma del cibo prodotto sempre in maggiori e uniformi quantità, più velocemente possibile, in modalità facilmente trasportabili ai quattro angoli del Pianeta, e che, infine, risulta a basso costo”, cito Susan Gardner, sempre di Unep. Peccato che nel novero dei costi siano abilmente occultati e non conteggiati i costi ambientali che paghiamo in differita. Non compaiono nello scontrino, ma vanno computati negli interventi di bonifica ambientale, depurazione e gestione delle acque, patologie di origine alimentare che la collettività sostiene nella fiscalità generale.

A contadini, allevatori e pescatori va riconosciuta e remunerata adeguatamente perciò la qualità anche ambientale dei prodotti, re-indirizzando le ingenti misure della Pac verso la premiazione e la promozione delle aziende che innovino in senso agro-ecologico, coerenti con il Green Deal e progetti come il Farm to Fork. Serve cambiare strada nell’erogazione di fondi distribuiti ancor oggi con logiche aberranti, una pioggia di contributi che è inevitabilmente destinata a confluire per l’80% nelle tasche di un ristretto 20% di soggetti. Gli stessi da sempre. Si veda qui.

La transizione verso diete più ecocompatibili e generatrici di benessere, nel senso più esteso del termine, sono il secondo asse portante di una vera conversione ecologica. L’agricoltura connessa con l’allevamento occupa oggi il 78% della terra utilizzata in agricoltura in tutto il mondo. Dal 1970 il peso collettivo dei mammiferi selvatici è diminuito dell’82%, mentre i polli oggi rappresentano, per massa, il 57% di tutti gli uccelli. Equilibri sconvolti dalla costante promozione di diete che insistono sui consumi carnei, omologati e diffusi a tutte le latitudini. Carni che provengono massivamente dagli allevamenti intensivi dove si è consumata la separazione tra animali e terra, si possono allevare milioni di suini, come si fa in provincia di Brescia, senza disporre di coltivi per alimentarli. A questo provvedono le ditte produttrici di mangimi, altro pilastro dell’agrobusiness, figlio della taylorizzazione dell’agricoltura.

A tal proposito non mancano le raccomandazioni dell’Oms, ancorché non sempre perentorie. vuoi contravvenendo il contraddittorio input Ue sui consumi di carni rosse, emanata in palese contrasto con politiche di rimodulazione delle agricolture nell’ambito del Green Deal

Ripristinare un sano e sensato rapporto tra animali allevati e superfici, al netto di un doveroso rispetto del benessere degli animali, viventi che vengono “sacrificati” per nutrirci, è funzionale a riequilibrare gli ecosistemi e liberarsi dalle monocolture. Adottate in funzione esclusiva della produzione di mangimi che spingono oltre i confini del lecito la negazione dell’etologia specifica animale. Quadrupedi e volatili non sono destinati a vivere confinati in gabbie per garantire il basso costo di una carne che consumiamo in quantità eccessiva procurando patologie croniche a noi, abbinate a desertificazione dei suoli, inattingibilità delle falde infestate dai nitrati, gas climalteranti nell’aria e sofferenza animale. Aumentare le superfici pro-capo, ovvero abbassare la densità dei capi per ettaro (Uba) è una misura, in primo luogo, di difesa della salute umana, quanto la stabulazione libera e pascolo sono fondamentali diritti degli animali. Per quanto riguarda la loro alimentazione serve riconvertire prati e prati pascoli seminando al posto di una singola coltura come l’erba medica o, peggio, il mais, una molteplicità di specie, associando graminacee e leguminose, stabilizzando la produzione di prati perciò polifiti ed evoluti che migliorano la biodiversità ambientale e forniscono un alimento consono e più completo agli animali.

Si tratta senza dubbio di una rivoluzione che aspetta di essere intrapresa in aree come la pianura padana. Da tempo la comunità scientifica indipendente ci dice che essa è una landa scarsamente fertile, incapace di rigenerarsi se non irrorata da overdosi di fertilizzanti di sintesi, incapace di auto-proteggersi se non massicciamente inondata di pesticidi perché destinata ad una forzosa vocazione monocolturale, intensamente sovrappopolata di animali allevati principalmente a mais ibrido, soggetto a brevetti di un pugno di multinazionali.

Un salutare divorzio dall’agricoltura su cui si basa l’imperante sistema alimentare che è, oltretutto, responsabile delle emissioni climalteranti, perché fondato su forti input energetici: rappresenta circa il 30% delle emissioni prodotte dall’uomo, connesso all’allevamento contribuisce per oltre il 16,5% delle emissioni totali dei gas serra, con punte del 44% per il metano e del 53% per l’ossido di azoto. In più l’ammoniaca emessa dagli allevamenti intensivi per il 98%, vedi anche ultimi report di Arpa Lombardia, contribuisce significativamente alla formazione del particolato atmosferico, killer responsabile nella nostra penisola, secondo l’Agenzia europea per l’Ambiente, insieme a ossidi di azoto e ozono troposferico di 50mila morti premature dovute all’esposizione eccessiva ad inquinanti. Esposizione dovuta ai continui sforamenti delle emissioni in ordine ai quali l’Italia è sotto procedura giuridica da parte della UE. 

La densa complessità dei temi connessi ad agricoltura e alimentazione, a quel che mangiamo in estrema sintesi, merita un’adeguata complessità di approcci. 

Perché non pensare finalmente ad un dicastero che riassuma o articoli in una gestione condivisa agricoltura, cura del territorio, alimentazione e salute. Un dicastero che connetta e faccia dialogare le potenzialità enormi del sistema Italia dal punto di vista della estrema ricchezza della sua geo-biodiversità con le formidabili ricadute sulla tradizione agroalimentare e gastronomica, con il patrimonio paesaggistico e ambientale -nonostante tutto- ancora ingente e variegato, con la dovizia di giacimenti storico-culturali e architettonici che il mondo ci invidia. Un progetto articolato di valorizzazione del territorio davvero capace di ripristinare quel Paese che forse non abbiamo ancora del tutto perduto. Un Paese convertito in ambita meta di un turismo dolce e responsabile, imperniato sulla mobilità lenta, un Paese che dia futuro alle giovani generazioni liberate dalle ingombranti eredità di poli chimici e siderurgici tenuti in vita con copiose iniezioni di denaro pubblico.

Purtroppo temo che, tanto per scendere nell’arena dell’attualità politica, non vi siano i presupposti perché si vada molto lontano in un siffatto governo, sulla cui consistenza si è magistralmente espresso Tomaso Montanari. La transizione ecologica avrebbe potuto e dovuto essere IL programma di governo, non il perimetro, assai incerto, di un ministero. Una lente attraverso la quale sovvertire un assetto incapace di fronteggiare la sfida delle emergenze sociali, climatiche e sanitarie con cui serve misurarsi.

Per certo non si naviga nella direzione sopra auspicata. Lo spettacolo deprimente offerto dall’abdicazione della attuale classe politica, con rare eccezioni, l’inadeguatezza cronica dei programmi che trasversalmente accomuna quasi tutti i partiti, non inducono ad adagiarsi in speranzosa attesa. Visti trascorsi e stimmate marchiate a fuoco di Super Mario, risulta arduo concedere il beneficio del dubbio anche nei suoi riguardi. La ciurma imbarcata ha perso ogni rotta, e non conosce o apprezza, opzioni ascrivibili a transizione alcuna. Fatta salva la propria autoriproduzione.

La micidiale combine di guerre per l’accaparramento delle risorse, anche agroalimentari, tumultuosa crescita delle diseguaglianze, incipiente crisi climatica ed emergenza pandemica stanno presentando un conto salato, da saldare in tempi strettissimi. Un conto che, senza un approccio sistemico, di respiro europeo e planetario, capace di rimuovere le cause strutturali che hanno portato a questa crisi epocale, sarà impossibile saldare. Gli unici ad essersene accorti, insieme a Papa Francesco, paiono essere i ragazzi dei “Fridays” e un pugno di intellettuali invisi ai sacerdoti di crescita e Pil.

Tocca a noi spettatori inebetiti alzare lo sguardo, riprendere il cammino, spingere perché si imbocchi l’unica strada che abbia senso e futuro. Se iniziamo dal cibo, dalle filiere che rispondono alle nostre necessità quotidiane, se, quali cittadini e decisori, iniziamo da lì per provare a sovvertire i paradigmi che ci hanno condotto al collasso, abbiamo la possibilità concreta di essere incisivi e costruire, passo dopo passo, giorno dopo giorno, una reale transizione possibile, dal campo alla tavola. Una transizione ecologica e solidale. Perché non siamo soli. Non siamo i soli. E vogliamo essere rispettosi e responsabili verso i nostri eredi. Verso chi deve ancora nascere.

Lorenzo Berlendis, docente in pensione, si è occupato di progetti di rigenerazione territoriale, anche come dirigente di Slow Food Italia. È socio fondatore di Generazioni Future Mi. Movimento per i Beni Comuni.

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