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Nuovi idoli in redazione – Ae 72

Da quando il giornalismo ha imboccato la “svolta industriale”, il mito della crescita illimitata ha contagiato anche la stampa.  E allora spazio a marketing spinto, gadget e pubblicità. Anche a scapito della buona informazione Il 5 settembre 2004 vi furono…

Tratto da Altreconomia 72 — Maggio 2006

Da quando il giornalismo ha imboccato la “svolta industriale”, il mito della crescita illimitata ha contagiato anche la stampa.  E allora spazio a marketing spinto, gadget e pubblicità.
Anche a scapito della buona informazione

Il 5 settembre 2004 vi furono tre incontri nazionali di tre realtà associative che i lettori di Altreconomia conoscono molto bene: Bilanci di Giustizia alla Mendola, Rete Lilliput a Parma, Sbilanciamoci! a Fidenza. Il giorno dopo, il “Corriere della Sera” e “la Repubblica” ignorarono completamente i tre eventi. Lo stesso giorno, le stesse due testate non mancarono di fornire resoconti dettagliati da Cernobbio, dove i loro inviati stavano seguendo il consueto meeting del gotha finanziario e imprenditoriale italiano.

Indagando per oltre un anno (dal dicembre 2003 al maggio 2005) sul prodotto informativo delle quattro maggiori testate italiane, di doppi pesi e doppie misure come questi ne ho trovati parecchi. Tutti riconducibili a quello che ho chiamato “culto degl’Idoli Gemelli”. Gli idoli sono Crescita e Sviluppo, gli idolatri sono i giornalisti.

Un anno fa l’Istat fece sapere che il Prodotto interno lordo italiano del primo trimestre 2005 era calato dello 0,5% rispetto al quarto trimestre del 2004. Il giorno dopo, le prime pagine dei due maggiori quotidiani italiani avrebbero gridato al dramma disperate: “L’Italia è in recessione”, titolarono entrambe a caratteri cubitali.

Il risultato di questa “pratica cultuale” diffusa all’interno delle redazioni è la produzione di un’informazione da cui la ragione economica esce sempre rafforzata, anche nei casi che più potrebbero comprometterla, e anche quando di questi casi si parla, e tanto.

L’esempio più significativo si è avuto col caso Parmalat. Fiumi di inchiostro sono stati versati dai due maggiori quotidiani italiani nei 30 giorni successivi allo scoppio dello scandalo (19 dicembre 2003), poi quasi più nulla.

Come nulla s’era detto prima: il crac dell’azienda di Calisto Tanzi si materializzò da un giorno all’altro nel panorama informativo italiano, come se i giornalisti non potessero prevederlo. Eppure i segnali c’erano da tempo.

Del resto, anche nel mese in cui il caso Parmalat occupò le prime pagine dei due maggiori quotidiani italiani nessun giornalista si chiese quanto denaro affidato dai piccoli risparmiatori alle banche che hanno finanziato Parmalat avrebbe evitato di volatilizzarsi se quelle stesse banche avessero deciso di non finanziare imprese dal comportamento socialmente irresponsabile come Parmalat.

Nell’indagine che ho condotto mi sono imbattuto in tanti altri esempi della stessa superficialità giornalistica in fatto di vicende “scomode” per la ragione economica.

Il 28 dicembre 2004 il ministero della Salute mise fuori legge dal 1° gennaio successivo 126 marche di acque minerali, per il superamento di soglie “critiche” nei minerali contenuti, quali quelle dell’arsenico o del manganese. Nei dieci giorni successivi, il “Corriere” ignorò completamente il provvedimento, mentre “la Repubblica” se ne occupò solo il 5 gennaio, in un breve articolo poco visibile in fondo a una pagina interna. In quel frangente, dominava la scena mediatica l’entrata in vigore della legge anti-fumo, anch’essa approvata per tutelare la salute dei cittadini: evidentemente, ci sono casi in cui quest’ultima fa notizia, e altri in cui non è così.

E che dire dell’inchiesta di Sigfrido Ranucci di “Rai news 24” sul collegamento tra la decisione di mandare i militari italiani in Iraq e l’obiettivo del governo di sfruttare i giacimenti petroliferi iracheni? L’inchiesta andò in onda il 13 maggio 2005, svelando che il governo si era servito nel febbraio 2003 della consulenza di tale professor Giuseppe Cassano, il quale aveva suggerito di prendere parte al conflitto che stava per iniziare perché questo avrebbe agevolato lo sfruttamento da parte dell’Eni dei giacimenti di Halfaya e Nassirya. Lo stesso giorno, l’inchiesta fu fatta oggetto

di interrogazioni e interpellanze da parte di parlamentari dell’opposizione.

Il giorno dopo fu “la Repubblica” a ignorare completamente il fatto e il “Corriere” a marginalizzarlo, con un breve articolo “invisibile” all’interno del giornale.

Solo qualche mese prima aveva dominato le prime pagine dei due quotidiani l’allarme-smog, raccontato con apprensione: è davvero singolare la contraddizione esistente nel non denunciare una guerra combattuta per entrare in possesso di uno dei combustibili fossili maggiormente responsabili di quello stesso inquinamento atmosferico di cui poi si temono gli effetti. Questa è l’informazione che oggi va per la maggiore. Sarebbe però sbagliato pensare che le realtà dell’altra economia, oppure che le spiegazioni di vicende come il caso Parmalat o le narrazioni di faccende scomode come le minerali al veleno e la guerra per il petrolio, sparissero dal panorama informativo per la bieca macchinazione di qualche censore. Ad agire sembra essere qualcosa di assai più profondo della censura. Allo stesso modo, si sbaglierebbe a credere che ogni notizia venga fornita col preciso e meditato intento di esaltare la ragione economica. Sembrerebbe piuttosto che della realtà non

si sappia informare senza coglierne solo gli aspetti concilianti con quel tipo di ragione. La cattiva informazione sembra essere legata, in sostanza, a una questione di immaginario. Quello da tempo dominante, che porta più o meno inconsapevolmente a credere che la crescita sempre maggiore sia un processo naturale come il sorgere del sole. Questo tipo di immaginario permea in profondità la gran parte delle maggiori organizzazioni giornalistiche. Da quando il giornalismo

ha imboccato la strada della cosiddetta svolta industriale, esse stesse perseguono l’obiettivo della crescita illimitata, attraverso le strategie di marketing spinto e l’arricchimento attraverso il finanziamento pubblicitario. Senza che questo, si badi bene, venga percepito come contrastante rispetto al compito di informare. A non percepire un contrasto, a mio avviso invece molto netto ed evidente, sono più o meno tutti, dai proprietari ai giornalisti in redazione, passando per i direttori. 

“La ripresa della libertà di stampa passerà, probabilmente, se non per un ritorno alla povertà, per un rifiuto della ricchezza soffocante e stravolgente”. Parole scritte da Giorgio Bocca già negli anni 80, quando di decrescita, in Italia, parlavano solo Alex Langer e pochi altri. Oggi, per fortuna, sono più numerosi quelli che chiedono alla società di fermare la propria folle corsa. Vi sono fondate ragioni per credere che anche molti dei problemi dell’informazione si risolverebbero praticando

nelle redazioni la scelta di decrescere.

Notizie deformate

Il giornalismo italiano è viziato da deformazioni, contraddizioni e omissioni che puntano a manipolare l’opinione pubblica e non a un’informazione sui fatti reali. E ormai anche le testate storiche sono entrate nell’era della spettacolarizzazione delle notizie. È questa la tesi di fondo che Marco Niro, l’autore di questo articolo, affida al suo libro Verità e informazione. Critica del giornalismo contemporaneo (Edizioni Dedalo, 360 pagine, 18 euro).

I direttori e l’allegato

L’illusione di una democrazia economicista colpisce anche le grandi firme del giornalismo italiano. L’attuale direttore del “Corriere”, Paolo Mieli, e quello storico de “la Repubblica”, Eugenio Scalfari, hanno entrambi più volte sostenuto pubblicamente che la libertà di stampa è elemento fondamentale di una società democratica. Entrambi hanno al tempo stesso perseguito l’obiettivo della crescita economica nell’esercizio di tale libertà: il primo è l’inventore del cosiddetto “mielismo”, via al successo commerciale del giornalismo che vuole rimanere “autorevole”, il secondo negli anni Ottanta entrava esultante in redazione per comunicare che le vendite del giornale erano aumentate grazie alla politica dei gadget. A raccontarlo è Giorgio Bocca, nel suo Il padrone in redazione: “Dovevamo essere soddisfatti perché avevamo avuto un grande successo per ragioni estranee al giornalismo? […] chi è diventato giornalista per produrre informazioni perché dovrebbe gioire se ha successo la produzione delle lotterie?”.

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