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Ambiente

Nucleare vicolo cieco

Lo sfruttamento di un giacimento d’uranio rischia di devastare la val Seriana, in Lombardia. Un progetto abbandonato negli anni 80, oggi potrebbe ripartire, sull’onda delle nuove centrali Cumuli di scarti minerari radioattivi, strade intasate dal traffico dei camion, falde acquifere…

Tratto da Altreconomia 114 — Marzo 2010

Lo sfruttamento di un giacimento d’uranio rischia di devastare la val Seriana, in Lombardia. Un progetto abbandonato negli anni 80, oggi potrebbe ripartire, sull’onda delle nuove centrali

Cumuli di scarti minerari radioattivi, strade intasate dal traffico dei camion, falde acquifere contaminate, terreni senza più valore. Tutt’intorno l’aria è appesantita dalla polvere delle pietre frantumate e dalle esalazioni dei solventi. L’immagine di un luogo devastato perseguita da oltre cinquant’anni gli abitanti di Novazza e dei vicini paesi dell’alta valle Seriana, in provincia di Bergamo, ed è ricomparsa all’improvviso da quando il Governo ha deciso di tornare al nucleare. Il fantasma è arrivato con la scoperta di un piccolo “tesoro” nascosto tra le montagne: il più grande giacimento di uranio in Italia, che dal versante orobico si estende alla vicina val Vedello, in provincia di Sondrio. Circa quattro milioni di tonnellate di roccia nascosti sotto prati e boschi, che contengono minuscole parti (con un tenore medio dello 0,1 per cento) di uranio (U38), metallo radioattivo usato come combustibile per le centrali nucleari e come materia prima per le armi atomiche. I primi a trovare il “tesoro” furono gli americani, all’inizio degli anni Cinquanta. Un decennio dopo l’Agip nucleare (società dell’Eni) cominciò le prime attività esplorative. Le ricerche del materiale continuarono a fasi alterne -con un totale di 11 chilometri di gallerie scavate- fino al 1983, quando l’Eni decise di abbandonare il progetto perché poco conveniente dal punto di vista economico. Da allora nessuno ha mai più toccato il giacimento anche grazie alla strenua resistenza messa in atto dagli abitanti della zona che fin dagli anni Settanta si sono opposti allo sfruttamento del filone di uranio. L’estrazione del minerale, infatti, avrebbe conseguenze negative sull’intera area circostante. Come spiega Enrico Guazzoni, geologo della Sigea (Società italiana di geologia ambientale), data la piccola percentuale di uranio presente nelle rocce, una prima lavorazione del materiale cavato dovrebbe essere fatta necessariamente sul posto perché è impensabile portare volumi di pietra così consistenti troppo lontano. Servirebbe quindi un laboratorio vicino al giacimento dove frantumare i massi in granelli di qualche millimetro. Questa polvere fine dovrebbe poi essere “aggredita” con acido solforico: così si riuscirebbe ad estrarre il metallo utile, che poi dovrebbe essere trattato con altre sostanze per arrivare alla cosiddetta “torta gialla” (yellow cake), il materiale da inviare ai centri di arricchimento. “Inevitabilmente -sottolinea Guazzoni- l’acido impiegato finirebbe almeno in parte nell’ambiente circostante, con effetti devastanti in un’area a vocazione turistica come quella della valle Seriana”. Un altro problema, non certo secondario, è quello dei cosiddetti “inerti” trattati. Si tratta degli scarti di roccia che, pur non essendo abbastanza ricchi di uranio, contengono comunque tracce del metallo e degli altri membri della sua famiglia. Elementi come il torio, il polonio, il radio e il radon, gas inerte e radioattivo, estremamente dannoso se respirato. “Trovare un luogo dove collocare gli inerti -spiega Guazzoni-, sarebbe di per sé un problema di nocività ambientale, per la radioattività residua e per la contaminazione con acidi” (vedi box a pagina 14).
Dopo l’abbandono delle attività esplorative da parte dell’Eni, l’ipotesi di una riapertura delle gallerie esplorative sembrava sepolta per sempre. Poi, nel 2006, la Metex Resources Ltd, una società mineraria australiana, fece domanda alla Regione Lombardia per ottenere la concessione di estrazione dell’uranio sul versante bergamasco: l’azienda stimava di poter ottenere 1.500 tonnellate di materiale “pulito” dal “Novazza uranium project“ (che prende il nome del paese dove c’è l’imbocco della miniera). La Regione Lombardia, sollecitata da una forte protesta popolare, bocciò la richiesta nell’ottobre dello stesso anno. La decisione venne accompagnata anche da un decreto regionale che specificava che ulteriori istanze di permesso di ricerca o di concessione mineraria dell’uranio avrebbero ricevuto il parere negativo da parte della Regione. Soltanto due anni dopo, però, la questione venne riaperta: Corrado Fabi, ex presidente degli industriali della provincia di Sondrio, annunciò l’intenzione della Valtellina di puntare allo sfruttamento dei giacimenti di uranio in Val Vedello. Un’ipotesi che non sembrava dispiacere nemmeno all’allora presidente della Confindustria di Bergamo Alberto Barcella. Secondo Guazzoni, però, “se si pensa che la popolazione locale, che vive di turismo, è unanimemente contraria a qualsiasi idea di estrazione, al di là delle collocazioni politiche, si capisce come la strada sia economicamente impercorribile. Inoltre la quantità di materiale estraibile non risulta così interessante rispetto alle grandi miniere presenti in Australia, Canada, Kazakhstan, Niger e in altre parti del mondo”. Per il geologo, una volta entrate in funzione le centrali nucleari che il Governo vuole realizzare, “sarebbe molto più conveniente comprare il combustibile pronto all’estero, come si fa con il petrolio”. Ma c’è anche chi teme che, data la scarsa quantità di uranio esistente sulla Terra, esauribile -secondo le stime più ottimistiche- entro un secolo, l’ipotesi di uno sfruttamento della miniera non sia poi così remota, anche perché il prezzo del materiale è destinato ad aumentare.
Senza contare poi che, a causa della crisi economica che ha investito la valle Seriana e che ha portato alla chiusura di gran parte delle fabbriche tessili, una parte degli abitanti potrebbe vedere nell’apertura della miniera un’occasione per trovare un’occupazione.

Il segreto dei siti
I siti dove sorgeranno le nuove centrali nucleari italiane sono già stati definiti, ma il Governo li renderà noti al Paese soltanto dopo le elezioni regionali. La denuncia arriva dal presidente nazionale dei Verdi Angelo Bonelli: “Enel e Edf consegneranno la lista dei siti solo dopo le votazioni. Questa strategia è stata decisa dopo il passo falso commesso dall’amministratore delegato dell’Enel Fulvio Conti, che in una trasmissione televisiva del 5 dicembre affermò che i siti erano stati individuati ma che non li avrebbe mai detti nemmeno sotto tortura”. Enel-Edf hanno identificato come siti potenziali per i reattori -secondo Bonelli- “Monfalcone (Friuli Venezia Giulia), Chioggia (Veneto), Caorso (Emilia- Romagna), Fossano e Trino (Piemonte), Scarlino (Toscana), San Benedetto del Tronto (Marche), Montalto di Castro e Latina (Lazio), Termoli (Molise), Mola di Bari e un sito tra Nardò e Manduria (Puglia), Scanzano Ionico (Basilicata), Oristano (Sardegna), Palma (Sicilia)”. Forse a causa della campagna elettorale ancora in corso, sono molte le Regioni che non vogliono (o dicono di non volere) ospitare le centrali nucleari. Ma la loro capacità di azione sarà quasi nulla di fronte a quella del governo. Infatti, come viene specificato nel decreto approvato lo scorso 10 febbraio (titolo II, articolo 4): “La costruzione e l’esercizio di impianti nucleari sono considerate attività di preminente interesse statale e come tali soggette ad autorizzazione unica che viene rilasciata con decreto del ministero dello Sviluppo economico” con i ministeri dell’Ambiente e delle Infrastrutture”.
E, come viene puntualizzato nell’articolo 13 dello stesso decreto (al comma 15), “l’autorizzazione unica costituisce variante agli strumenti urbanistici e sostituisce ogni provvedimento amministrativo, autorizzazione, concessione, licenza, nulla osta, atto di assenso e atto amministrativo, comunque denominati, previsti dalle norme vigenti, costituendo titolo a costruire ed esercire l’impianto in conformità al progetto approvato”. Per dare maggior forza all’azione dello Stato, inoltre, il 4 febbraio scorso il Consiglio dei ministri ha deciso di impugnare davanti alla Corte costituzionale le leggi regionali di Puglia, Campania e Basilicata che impediscono l’installazione di impianti nucleari nei loro territori. La decisione è stata presa su proposta del ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, d’intesa con il ministro per gli Affari regionali, Raffaele Fitto. “Le tre leggi regionali -ha spiegato Scajola- intervengono autonomamente in una materia concorrente con lo Stato (produzione, trasporto e distribuzione di energia elettrica) e non riconoscono l’esclusiva competenza dello Stato in materia di tutela dell’ambiente, della sicurezza interna e della concorrenza (articolo 117 comma 2 della Costituzione). Non impugnare le tre leggi costituirebbe un precedente pericoloso perché si potrebbe indurre le Regioni ad adottare altre decisioni negative sulla localizzazione di infrastrutture necessarie per il Paese”. Scajola ha poi preannunciato che “il governo impugnerà tutte le eventuali leggi regionali che dovessero strumentalmente legiferare su questa materia, strategica per il Paese”.

L’atomo nelle diocesi
Il titolo è innocente: Energia per il futuro. Il contenuto, invece, ha il sapore della propaganda. Basta leggere l’introduzione di questa brochure di 52 pagine, distribuita con i settimanali diocesani di Veneto, Toscana, Trento, Rimini e Agrigento (per un totale di 200mila copie) per promuovere il ritorno dell’Italia al nucleare, per rendersene conto. “Recentemente anche Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in veritate ha fatto riferimento a questa energia del futuro, esaltando la capacità dell’uomo di progredire”. E sotto: “La Santa sede è favorevole e sostiene l’uso pacifico di energia nucleare”. L’opuscolo, realizzato da Mabq (www.mabq.com, agenzia di comunicazione “legata al mondo della Chiesa”) con la collaborazione anche di un docente del Politecnico di Milano, esalta i pregi dei reattori di terza generazione, cercando di convincere il lettore della necessità e dell’efficacia del ritorno all’atomo. “La sicurezza degli impianti -si legge – è testimoniata dal fatto che una grande centrale giapponese ha resistito due anni fa a scosse del settimo grado della scala Richter, di molto superiori al terremoto dell’Aquila”. E rassicura i fedeli anche in merito alle radiazioni subite da chi vive vicino a una centrale: secondo i devoti dell’atomo equivarrebbero a quelle subite “in un solo volo aereo continentale”. Il giornaletto intima poi di dimenticare l’incubo di Chernobyl, “caso non assimilabile alla realtà occidentale” e considerare, invece, che “le bollette dell’energia elettrica saranno più leggere e costeranno il 30% in meno di adesso”. Segue poi il gran finale: anche Obama ha scelto di rifinanziare il nucleare per la green economy. Perché l’Italia dovrebbe essere da meno? Il pamphlet non è piaciuto però a molti fedeli, che si sono ribellati, protestando con alcuni dei parroci delle diocesi in questione. Ne è nato un acceso dibattito che ha lasciato tracce anche in rete. Mabq spiega che si tratta di un “prodotto editoriale” realizzato a proprie spese per invogliare eventuali imprenditori interessati al nucleare, come Enel, oppure istituzioni, come il ministero delle Infrastrutture, a comprarlo. Le parrocchie erano solo un banco di prova.

La Francia contaminata dagli scarti
Nel febbraio dello scorso anno è stato trasmesso sulla rete France 3 il documentario dal titolo Lo scandalo della Francia contaminata (a questo link potete vederlo coi sottotitoli in italiano: www.wikio.it/video/1523025). L’inchiesta, passata sotto assoluto silenzio in Italia, racconta di come gli scarti delle miniere di uranio francesi siano stati usati, negli ultimi trent’anni, per realizzare opere infrastrutturali ed edifici. Le responsabilità dello scandalo sono da imputare secondo gli autori alle società di controllo e di gestione dei lavori di estrazione e bonifica: la Cea (Commissariato dell’energia atomica) e la Cogema (Compagnia generale delle materie radioattive), due aziende statali (Cogema, da tre anni, è diventata Areva, detenuta al 93% dallo Stato francese). Lo scandalo raccontato nel documentario era già stato reso noto nel 2007 dal Criirard (Commissione di ricerca e informazione indipendente sulla radioattività), che pubblicò un rapporto nel quale si stimava che soltanto nella cittadina di Gueugnon, in Borgogna, erano presenti, nell’area attorno allo stadio, circa 225mila tonnellate di materiali di scarto dell’industria statale Cogema. L’inchiesta televisiva racconta che di casi come questo ne esistono quasi un centinaio in Francia (nel Paese di Sarkozy, negli ultimi 50 anni, sono state sfruttate circa 210 miniere di uranio). Tra i più eclatanti ci sono quelli di Saint Pierre e di Limoges. Il primo è un piccolo paese costruito sopra un giacimento esaurito di uranio, dove sono ancora presenti 600mila tonnellate di rifiuti della lavorazione. Il secondo, invece, è un capoluogo regionale. L’acqua potabile di Limoges, dove vivono 240mila persone, arriva da tre bacini idrici. Uno di questi è contaminato dai fanghi radioattivi. Nonostante la Cogema, dopo le proteste del Comune, abbia rimosso 50mila metri cubi di fanghi radioattivi da uno degli stagni sotto accusa, l’acqua continua a restare inquinata. Secondo gli esperti, l’uranio presente nel terreno, e i suoi materiali di decadimento, prima di perdere la radioattività impiegheranno anche 4,5 miliardi di anni.

Salute a rischio
Secondo molti scienziati il ciclo di produzione dell’energia atomica, dall’estrazione dell’uranio allo stoccaggio delle scorie, aumenta il livello di radiazioni presenti nell’ambiente. Come spiega Giuseppe Miserotti dell’Isde (International society of doctors for the environment, www.isde.it) e presidente dell’ordine dei medici di Piacenza, “dato che l’uranio emette radon, che è un gas radioattivo, e altri prodotti di decadimento, sempre radioattivi, l’estrazione del minerale presenta una serie di pericoli non trascurabili”. I primi a fare i conti con i danni dell’uranio sono i minatori: “Negli Stati Uniti -spiega Miserotti- molti degli indiani Navajos, che negli anni Cinquanta lavoravano come minatori dell’uranio, si sono ammalati e sono morti di cancro al polmone. Solo nel 1990 il governo ha riconosciuto ai discendenti il beneficio di una legge per il danno arrecato”. Si è poi visto che gli scarti minerari che sono stati impiegati illegalmente per la costruzione di edifici e strade (come è accaduto in Francia e in Niger) “hanno una radioattività 100 volte superiore a quella di fondo”.
Non va meglio per chi vive vicino a una centrale. “Nel settembre 2009 -spiega Miserotti- è stata pubblicata su Environemntal Health, una prestigiosa rivista di salute ambientale, un fondamentale studio di Ian Fairlie (“Childhood leukemias near nuclear power stations”) da cui si evince che nelle vicinanze di una centrale si ha un aumento delle leucemie infantili, 2,2 volte maggiore rispetto alle attese. E c’è un aumento di 1,6 volte dei tumori infantili di tipo embrionale. ‘Piccole dosi’ di radiazioni assunte dalla donna durante la gravidanza ‘condizionerebbero’  già nel feto la maggiore suscettibilità a contrarre leucemia dopo la nascita”.
Se poi accade un incidente grave, allora è meglio seguire i consigli del più famoso volantino antinucleare diffuso negli Usa: “Un bacio al bimbo, e addio”.
A Chernobyl, ad esempio, secondo il vicecapo della Radioprotezione ucraina, Nikolai Omelyanetes, i morti di cancro solo tra i soccorritori e tra chi fece le bonifiche ambientale furono 34.500. La mortalità infantile aumentò del 30%. Le zone contaminate sono quelle a più alta incidenza di cancro della tiroide del mondo. I danni al tessuto sociale ed economico sono incalcolabili: un’area di circa 6mila chilometri quadrati non potrà essere utilizzata per un secolo dall’uomo, perché troppo contaminata.

Tutto in deroga
Il Governo ha un asso nella manica per velocizzare la reintroduzione del nucleare: il suo nome è Guido Bertolaso.
Il capo della protezione civile, grazie al decreto legge “anticrisi”, quello varato dal Consiglio dei ministri il 26 giugno 2009, ha anche il compito “della gestione di interventi sulla trasmissione e distribuzione dell’energia”: è sufficiente la nomina di un “commissario delegato” per poter utilizzare “mezzi e poteri straordinari in deroga alle competenze delle altre amministrazioni locali”. A Bertolaso, dunque, basta una firma per bypassare consigli comunali e comitati di cittadini. Il capo della (super)Protezione civile, ad esempio, potrebbe velocizzare l’inizio dei lavori programmati da Terna, la società proprietaria della rete di trasmissione nazionale di energia elettrica ad alta tensione, che controlla circa 60mila chilometri di linee in tutto il Paese (per il 29,9% la società è di proprietà statale). Per il ritorno all’atomo, Terna ha stanziato investimenti per 3,4 miliardi di euro fino al 2013. I lavori di Terna, però, procedono a rilento a causa di quei “freni autorizzativi”, come spiega la stessa società, posti soprattutto dagli enti locali.

Costano 6 miliardi
Se l’obiettivo del  Governo è quello di tornare al nucleare per ridurre la dipendenza energetica da altri combustibili fossili, dovrà riuscire a costruire e a rendere funzionanti almeno 10 centrali. Agli italiani questa decisione costerà non poco. Secondo l’Enea, il costo dell’Epr (il reattore europeo di terza generazione) è di oltre 3 miliardi di euro. Una stima destinata a salire: “Una ricerca di Citigroup -dice Andrea Lepore, responsabile della campagna nucleare di Greenpeace- spiega che una centrale Epr non può costare meno di 5 miliardi di euro, e con i ritardi si arriva anche a sei. Soldi che andranno, per la maggior parte, ad imprese straniere, come la francese Areva, dato che il 60% dei lavori riguarderà la realizzazione del reattore”. Il Comune di Caorso (Pc), intanto, non ha ancora ricevuto i fondi per la dismissione dell’impianto che ha funzionato negli anni 60 e 70: circa 150 milioni di euro, come ha detto nei giorni scorsi il sindaco Fabio Callori, presidente della consulta Anci dei comuni sede di servitù nucleare.

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