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La struggente bellezza della città dei pochi

© Andrea Schaffer via Flickr

Dopo il devastante terremoto in Sicilia del 1693, Noto fu ricostruita su un altopiano a 15 chilometri di distanza. Il popolo si oppose, senza successo

Tratto da Altreconomia 203 — Aprile 2018

Sicilia 1693. Dopo una serie di scosse sempre più forti, il terremoto della mattina dell’11 gennaio rase al suolo trentacinque città e ne danneggiò gravemente altre venti (tra cui Siracusa), causando la morte di circa sessantamila persone, delle quali diecimila nella sola Catania, che fu devastata anche dallo tsunami che seguì. Il Viceré spagnolo affidò a Giuseppe Lanza duca di Camastra il ruolo che oggi si definirebbe di commissario alla ricostruzione, mettendogli a disposizione mezzi e uomini e costruendo una rete di consenso che coinvolgeva in questo delicato processo l’aristocrazia delle città colpite, e la gerarchia ecclesiastica.

Il caso di Noto è particolarmente interessante. Dopo che il terremoto dimezzò quasi la sua popolazione (passata da 12.000 a 7.000 abitanti) un consiglio composto dai senatori decise che Noto si doveva ricostruire dentro ciò che rimaneva delle mura medioevali, sulla sommità del Monte Alveria. Poco più tardi in un’assemblea pubblica aperta a tutta la cittadinanza si manifestarono i primi dubbi: era davvero saggio rimanere lì, o era meglio immaginare un futuro diverso? Alla fine prevalse l’idea di spostarsi, e dopo aver considerato varie possibilità (sul mare, o in pianura) prevalse l’idea di ricostruire Noto a quindici chilometri di distanza, sull’altopiano del Meti, scelto perché facilmente difendibile, lontano dalle paludi e dalle zanzare del fondovalle, più vicino alla rete stradale principale.

Il trasferimento avvenne già a giugno, senza che le case fossero ultimate e l’acquedotto costruito: queste precarie condizioni e una terribile calura favorirono il divampare di una pestilenza che ridusse i notinesi a circa 4.000 persone. Nonostante la veloce crescita della nuova città, nel 1698 un gruppo di dissenzienti chiese e ottenne di poter celebrare un referendum sull’eventuale ritorno all’antica Noto distrutta dal sisma. Votarono tutti i cittadini maschi, indipendentemente dal censo: su 747 votanti, 266 votarono per il nuovo sito, 481 in favore del vecchio. La spaccatura era sociale: gli aristocratici, il clero e l’alta borghesia si allinearono alla volontà del governo e scelsero il Meti, mentre il popolo (e cioè chi aveva patito maggiormente le conseguenze di una migrazione malamente organizzata) provò a riportare indietro le lancette dell’orologio.

Ma le ingenti risorse ecclesiastiche già impegnate nella costruzione della nuova città non permettevano ormai cambi di rotta, e dopo altri cinque anni di polemiche, il risultato del referendum fu dimenticato e il nuovo viceré, il cardinale Francesco Del Giudice, ordinò di “mettere un perpetuo silenzio alle controversie”. Con un linguaggio solenne e perentorio, e dal tono quasi metafisico, il viceré stabiliva che l’antica Noto era la nuova Noto, in una trasmigrazione materiale e simbolica. E la nuova Noto prese, finalmente forma: tutta intagliata in una pietra “di un pallido colore giallo-oro, che al sole acquista una indescrivibile opulenza” (Anthony Blunt). La bellezza struggente di Noto non riesce a nascondere la differenza tra la città monumentale e scenografica delle classi egemoni, e l’indistinto tessuto urbano minore, quello destinato delle classi subalterne: una differenza presente in ogni città dell’antico regime (per tacere delle nostre), ma che viene esaltata dalla pianificazione contestuale e che permette di apprezzare subito l’amara differenza tra la qualità della città e della vita dei pochi che avevano voluto la nuova Noto, e quella dei molti che si erano, vanamente, opposti.

Tomaso Montanari è professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’Università di Napoli. Da marzo 2017 è presidente di Libertà e Giustizia

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