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Non è un Paese per bilanci

L’utile o la perdita d’esercizio non spiegano lo stato di salute di un’azienda. Aiutano voci meno lette: ma la trasparenza si scontra con le tecnicalità

Tratto da Altreconomia 138 — Maggio 2012

I cultori dei videogame anni 80 saranno felici di sapere che l’Olivetti, oggi un’azienda del gruppo Telecom, ha in magazzino, pronti per la vendita, ben 70 milioni di euro di prodotti denominati in bilancio “terminali per il gioco”. Il magazzino di un’azienda è valutato in base alla sua possibilità di essere rivenduto sul mercato, quindi il gruppo Telecom deve tenere in grande considerazione le sue scorte di “giochi” e la possibilità di piazzarli sul mercato, se nel bilancio 2010 li ha contabilizzati 70 milioni di euro. Quello 2011 viene approvato il 5 maggio 2012, in perdita di 4,7 miliardi di euro. Non sappiamo quanto saranno valutati quest’anno i terminali per il gioco tenuti a magazzino, ma presumiamo che il loro valore continui a crescere, come tra il 2009 e il 2010, quando sono passati da 56 a 70 milioni di euro. In un’altra nota del bilancio, però, il gruppo Telecom dimostra scarsa fiducia nelle possibilità di piazzare sul mercato i prodotti nel magazzino della Olivetti, che inserisce fra le unità in liquidazione.
Guardare dentro il bilancio di un’azienda può regalare sorprese come questa, nascosta in una nota. E i mesi di aprile e maggio sono quelli giusti per andare alla ricerca di queste sorprese: la maggioranza delle aziende chiude gli esercizi e pubblica i bilanci, in attesa dell’approvazione dell’assemblea degli azionisti. Per scoprire qualcosa di interessante basta non correre subito a verificare l’utile o la perdita d’esercizio. Qualche riga più sopra ci sono i numeri che dicono qualcosa sullo stato di salute di una società. “Il bilancio è essenzialmente il riassunto di quello che è stato il passato -spiega Mara Cameran, docente di Contabilità e bilancio all’Università Bocconi di Milano-, e guardare all’ultima riga del conto economico non è sufficiente. Il problema -prosegue- è il grado di tecnicismo: fra le pieghe dei bilanci può entrare molto e uscire altrettanto”.
D’altronde le relazioni economico-finanziarie che contengono gli schemi di bilancio sono fascicoli lunghi anche trecento pagine, straripanti di dati, sigle e tabelle.
Prendiamo ad esempio il gruppo PPR (holding del settore del lusso che comprende Gucci, Bottega Veneta, Fnac e Puma): il 17 marzo ha presentato il bilancio 2011, in cui figura un patrimonio di oltre 24 miliardi di euro, di cui 14 miliardi sono iscritti alla voce asset immateriali, ovvero il valore del marchio e dell’avviamento. Le attività immateriali sono “poste” di bilancio che fanno parte del patrimonio, come crediti, macchinari, e fabbricati, ma sono intangibili. È il valore che le aziende attribuiscono (e contabilizzano) a brevetti, marchi, spese di pubblicità e avviamento. Sono beni fisicamente impalpabili, ma prendono un peso consistente quando si tratta di comporre i bilanci. Nel caso del gruppo PPR guidato da François Pinault, circa il 58% del patrimonio dipende dal giudizio espresso sul marchio e sull’avviamento, il cui valore (14 miliardi di euro) supera l’ammontare dei ricavi del gruppo, 12,23 miliardi di euro. “Le valutazioni dei marchi e degli asset intangibili sono soggettive -spiega la professoressa Cameran- e vengono effettuate confrontando l’azienda con i principali concorrenti. Più un’azienda è unica, com’è il caso dei produttori di beni di lusso, più è difficile determinare il valore del brand”.
Oltre al marchio, un altro tipo di asset intangibile è “l’avviamento” di un’azienda. L’avviamento (o goodwill) si acquisisce, secondo le definizioni del bilancio civilistisco, a titolo oneroso, cioè si iscrive nell’attivo di bilancio ogni qualvolta si acquista una società. È il frutto, quindi, degli investimenti fatti nel passato. Quando però questi investimenti si rivelano meno produttivi e il valore scritto non corrisponde più al vero, le aziende si vedono costrette a dare un sforbiciata ad attivi di bilancio gonfiati nel tempo. Le principali banche italiane si sono dedicate a questo tipo di pulizie primaverili in vista dei bilanci 2011. Unicredit, ad esempio, il 27 marzo 2012 ha approvato i risultati dell’esercizio 2011, registrando una perdita per il gruppo di 9,206 miliardi di euro, su 25,2 miliardi di euro di margine intermediato (il “fatturato” delle banche). Ad incidere sul risultato, è stata una svalutazione dell’avviamento di oltre 8,5 miliardi di euro, a un ridimensionamento degli acquisti fatti nel passato. Quando amministratore delegato era Alessandro Profumo (che ha lasciato la carica nel 2010 con una liquidazione da 38 milioni di euro) il gruppo di piazza Cordusio si lanciò in un progetto di forte espansione acquisendo banche in Est Europa. Nel 2007, Unicredit acquistò la banca kazaka ATF Bank, pagandola circa 1,62 miliardi di euro. Passata l’euforia dell’espansione, oggi quell’acquisto viene valutato molto meno: il suo valore scritto nei bilanci viene tagliato, nonostante un aumento di capitale di circa 75 milioni di euro. Anche il Monte dei Paschi di Siena (dove la presidenza di Profumo, invece, è appena iniziata) chiude con una perdita di quasi 4,7 miliardi di euro, su cui pesano svalutazioni per 4,51 miliardi. Il patrimonio di Mps nel 2010 si era molto ingrandito con l’acquisizione di Antonveneta, pagata 9 miliardi di euro a fine 2007. Da allora la banca aveva registrato una serie di risultati positivi: 1, 372 miliardi nel 2007, 953 milioni nel 2008, 985 milioni lo scorso 2010, fino al taglio netto di quest’anno e la chiusura del bilancio in rosso. Alla presentazione dei dati economici finanziari, il 29 marzo, non c’era il presidente uscente Giuseppe Mussari, che in veste di presidente dell’Associazione bancaria italiana ha pochi giorni dopo dichiarato tutta la sua preoccupazione per  il settore che “non guadagna il giusto” e rischia di essere schiacciato da perdite complessive per oltre 26 miliardi di euro. Nonostante un bilancio in rosso per 4,69 miliardi, Mps ha chiesto agli investitori due aumenti di capitale, per un totale di 7 miliardi di euro.
La storia si è ripetuta per la Banca popolare di Milano, costretta a correggere al ribasso il valore di investimenti effettuati nel passato. Sulla perdita di 614 milioni di euro hanno inciso le svalutazioni effettuate sulle attività in bilancio per un totale di 467 milioni di euro. Nella presentazione dei risultati del gruppo, però, queste svalutazioni vengono rubricate alla voce non ricorrenti: questa classificazione permette di escluderle dal calcolo del risultato finale. Così, da un “rosso” di 614 milioni di euro si arriva a un risultato “normalizzato” (cioè alleggerito dal peso delle svalutazioni non ricorrenti) di “soli” meno 176 milioni. In certi casi è l’apparenza che conta.
Nel bilancio di Bpm compare, fra gli immobili che compongono un patrimonio di 41 miliardi di euro, anche il Centro servizi di via Bezzi, a Milano. Un complesso che occupa un intero isolato, composto da 3 blocchi rettangolari di cemento e lunghe vetrate verdi, in cui i 2mila dipendenti dispongono di 59mila metri quadrati quasi trenta a testa. Il complesso, che ospita un asilo nido e un ristorante aziendale, è costato nel corso degli anni (il cantiere iniziò nel 1996) 151 milioni di euro. Oggi il Centro servizi vale, sulla carta, 121 milioni di euro. La “carta” di cui stiamo parlando è quella del bilancio d’esercizio della Bpm approvato dall’assemblea degli azionisti sabato 28 aprile.
Oltre a vantare patrimoni immobiliari considerevoli, le banche, per presentare bilanci floridi, si dedicano al window dressing, letteralmente “abbellire le vetrine”. Una tecnica usata per aumentare la massa di denaro intermediato e chiudere l’anno con volumi maggiori: le banche si fanno prestiti vicendevoli, che si aprono e chiudono con la restituzione nell’arco di due giorni. Questi prestiti di cortesia non stanno nei bilanci, perché il prestito -una volta restituito- non porta un nome. La sola traccia che lascia quest’abbellimento è nell’andamento del tasso dei prestiti interbancari, l’Euribor, che a fine dicembre fa notare una crescita.
Dalle banche ai sistemi d’arma: anche per Finmeccanica è giunto il tempo di ripulire i bilanci, e presentare all’assemblea degli azionisti (il 14 e 15 maggio) attività ridimensionate. Il gruppo, di cui lo Stato è azionista per il 30,2%, registra per il 2011 17 miliardi di ricavi e una perdita netta di 2,306 miliardi di euro, su cui pesano quelli che i vertici definiscono fenomeni “eccezionali” per 3,2 miliardi di euro. Fra questi va conteggiata la svalutazione della DRS Technologies (azienda Usa di prodotti elettronici per la difesa), il cui valore dopo un impairment test (un test per valutare quanto davvero vale un’attività) è stato tagliato di 804 milioni di euro. Le prospettive del business della Difesa negli Stati Uniti sembrano peggiorate, e così si decide di dare una sforbiciata alla partecipazione che nel 2008 costò al gruppo guidato da Pier Francesco Guarguaglini circa 3,4 miliardi di euro, raccolti  contraendo un debito di 3,2 miliardi con Goldman Sachs e Unicredit ed effettuando anche un aumento di capitale per oltre 1,2 miliardi di euro. A seguito di quest’operazione, Finmeccanica iscrisse un aumento dell’avviamento che sfiorava i 3 miliardi di euro (2,901miliardi), e una promessa di guadagni futuri. Oggi che quelle promesse sono state ridimensionate, ciò non ha consigliato Guarguaglini, ad e presidente dal 2002 al 2011, a ridimensionare anche la liquidazione con cui ha lasciato il gruppo: 4 milioni di euro.
Accanto a chi ridimensiona il valore di acquisti passati, c’è chi nel 2011 ha fatto grandi investimenti, come il gruppo Fiat. L’esercizio 2011 si è chiuso il 4 aprile con l’approvazione del bilancio da parte dell’assemblea degli azionisti: il Lingotto registra quest’anno un utile di 1,651 miliardi di euro (un balzo di oltre  un miliardo rispetto al 2010) e un patrimonio che supera gli 80 miliardi di euro. L’avviamento è passato da poco più di un miliardo di euro a oltre 13 miliardi di euro: il 92% di questo valore è imputabile alla Chrysler, acquisita nel 2011 grazie ai prestiti dei governi statunitense e canadese. Il gruppo Fiat è fiducioso nelle possibilità di guadagno future date da quest’operazione: infatti nella relazione finanziaria di fine esercizio si presume che “un tasso ragionevole” per attualizzare (calcolare quanto valgono oggi) le future entrate sia il 9,7%. Un tasso giustificato facendo “riferimento alla curva dei tassi di rendimento dei titoli di Stato statunitensi di lungo termine”. Neanche un cenno, però, all’andamento del mercato dell’auto statunitense che nel 2011 ha registrato un calo del 3,7%. —

Il "rosso" in Serie A
428 milioni di euro. È la perdita che le società di calcio italiane hanno accumulato nell’ultima stagione 2010-2011. Fra serie A, serie B e lega Pro, su un totale di 107 società, solo 19 non presentano il bilancio in rosso, e nella sola serie A a ottenere un utile sono 8 società su 20.
Nonostante non si registrino risultati positivi, le società continuano ad indebitarsi per acquisire calciatori: i debiti complessivi superano la soglia dei due miliardi e mezzo di euro. Nel 2009 il quoziente di indebitamento (cioè il rapporto fra risorse proprie delle società e quelle richieste in prestito contraendo debiti) era di 1 a 8, oggi -con l’indebitamento cresciuto del 14%- è diventato di 1 a 20.
Il 93% del passivo è costituito da debiti contratti per l’acquisto dei cartellini dei calciatori. I giocatori sono la voce più consistente dei patrimoni delle società: i diritti sulle prestazioni (“i cartellini”) costituiscono il 53% del patrimonio, per un ammontare complessivo di 1 miliardo e 23 milioni di euro, su un fatturato aggregato di 2,5 miliardi di euro. I calciatori vengono venduti a prezzi crescenti, sempre superiori a quelli a cui erano stati acquistati. Questo è dimostrato dalle plusvalenze (i guadagni) che derivano alle società dalle operazioni di acquisto e cessione dei calciatori: nel corso di 2 anni sono passate da 374 milioni a 444 milioni di euro.

La paga del manager
I compensi degli amministratori sono costi di esercizio che rientrano nel bilancio e sono comunque sostenuti, indipendentemente dall’andamento della società. Anche i costi per il personale rientrano nel bilancio, ma con un peso differente. In Fiat, per esempio, quest’anno i ricavi superano i 56 miliardi di euro, i costi del personale sono 6,32 miliardi di euro, e incidono sui ricavi per meno del 10%. Ognuno dei 200mila dipendenti (compresi quelli Chrysler) costa alla società circa 30mila euro. Questi numeri, però, non tengono conto dei compensi corrisposti agli amministratori, che stanno all’interno di un’altra voce di bilancio, i costi di gestione, e superano i 10 milioni di euro. Quasi un quarto di questa cifra è destinato alla remunerazione e ai benefit dell’amministratore delegato Sergio Marchionne, che allo stipendio annuale di 2,4 milioni di euro aggiunge un pacchetto gratuito di azioni (stock grant) che vale più di 12 milioni di euro.
Per Eni invece il costo delle retribuzioni per amministratori, sindaci e top management arriva a 34 milioni di euro, di cui 2 milioni per il direttore generale Claudio Descalzi e oltre 4,8 milioni per l’ad Paolo Scaroni.

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