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Non dimentichiamo lo spirito del 4 dicembre

Narciso è un dipinto a olio su tela (112x92) generalmente attribuito a Caravaggio dallo storico dell’arte Roberto Longhi. Fu dipinto all’incirca tra il 1597 e il 1599

La vittoria del “No” al referendum è la capacità di esercitare un embrionale senso critico nei confronti di chi ci governa. “Un volto che ci somiglia”, la rubrica di Tomaso Montanari

Tratto da Altreconomia 189 — Gennaio 2017

Quando mi leggerete la gioia del 4 dicembre ci sembrerà lontanissima: ci sembrerà lontanissima la fredda domenica in cui oltre 19 milioni di italiani sono usciti di casa per andare a dire solennemente che volevano continuare ad avere una Costituzione. Perché lo penso? Perché mentre scrivo si appresta a giurare un grigio governo: un governo fotocopia di quello di Renzi. Tuttavia, un dettaglio è diverso: manca Renzi. Un dettaglio che certifica ciò che era evidente da mesi: un partito, un governo, un Paese sono stati inchiodati a una questione sollevata dal delirio di un aspirante capo che cercava la consacrazione della folla. Siamo nel 2017, c’è internet, mandiamo una sonda su Marte, ma la spiegazione dello psicodramma collettivo che abbiamo vissuto è chiusa nell’unico mito che gli psicanalisti di corte delle leopolde e delle televisioni non hanno citato: quello di Narciso. Ora che Narciso è stato inghiottito dallo stagno nero in cui si specchiava, a noi rimane per l’appunto lo stagno: quello della stagnante politica italiana, in cui siamo ripiombati.

Ebbene, sfidiamo la nostra smemoratezza, la nostra apatia, la nostra sfiducia. La nostra Costituzione c’è ancora: non l’hanno stravolta, confusa, annacquata, azzoppata. E il 4 dicembre abbiamo fatto una scoperta importante: se davanti a noi c’era un singolo narciso, noi abbiamo scoperto di essere una comunità. Il “Sì” era un Si-ngolo, il “No” era un No-i.

Una comunità plurale: diversa, contraddittoria, non riducibile a unità. Un’accozzaglia: ricordate? Già, un’accozzaglia: tanto accozzata che nessun guru strapagato ha capito come fare a sedurla tutta. Una cosa ha accomunato questa accozzaglia: la capacità di dire di No. Cioè la capacità di esercitare un -embrionale, d’accordo- senso critico: nonostante i ricatti, le banche, il senso comune, le televisioni, le minacce, le fritture di pesce, le scarpe destre in attesa di ricongiunzione e molto altro. Allora, di fronte allo stagno deprimente ricordiamo lo spirito del 4 dicembre, di una comunità capace di dire di No.

In uno dei libri più alti dell’ultimo decennio (Guasto è il mondo, di Tony Judt) leggiamo: “C’è qualcosa di profondamente sbagliato nel nostro modo di vivere, oggi. Per trent’anni abbiamo trasformato in virtù il perseguimento dell’interesse materiale personale: anzi, ormai questo è l’unico scopo collettivo che ancora ci rimane. Sappiamo quanto costano le cose, ma non quanto valgono. Non ci chiediamo più, di una sentenza di tribunale o di una legge, se sia buona, se sia equa, se sia corretta, se contribuirà a rendere migliore la società, o il mondo. Erano queste un tempo le domande politiche per eccellenza, anche se non era facile dare una risposta: dobbiamo reimparare a porci queste domande. Dobbiamo sottoporre a critica radicale l’ammirazione per mercati liberi da lacci e lacciuoli, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione di una crescita senza fine”. E ancora: “Dobbiamo reimparare a criticare chi ci governa. Ma per farlo in modo credibile dobbiamo liberarci dal cerchio di conformismo in cui, noi come loro, siamo intrappolati. Non possiamo sperare di ricostruire il nostro disastrato dibattito pubblico fino a quando non saremo arrabbiati a sufficienza”.

Il 4 dicembre abbiamo capito che siamo abbastanza arrabbiati da rompere il cerchio del conformismo: non dimentichiamocelo più.

Tomaso Montanari è professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’Università di Napoli. Il suo ultimo libro è “Privati del patrimonio” (Einaudi, 2015)

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