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Altre Economie

Noi l’avevamo detto

Le mobilitazioni cittadine in tutta Italia hanno fermato o ridimensionato opere producendo un risparmio di quasi 121 miliardi. Il tempo ha dato loro ragione —

Tratto da Altreconomia 143 — Novembre 2012

Avevano ragione loro, i tremila siciliani che il 18 maggio 1980 marciarono per protestare contro la costruzione di una strada litoranea tra Castellammare del Golfo e San Vito lo Capo, nel trapanese. Con la “marcia dello Zingaro” riuscirono a fermare il progetto, e la galleria scavata nella roccia “per dare inizio alla costruzione di una strada”, come ricorda un cartello di legno, oggi la attraversa -rigorosamente a piedi- chiunque voglia entrare nella Riserva naturale orientata dello Zingaro, la prima istituita in Sicilia nel maggio del 1981.
Avevano ragione loro, e ce ne rendiamo conto oggi. Perché lungo quei sette chilometri ogni anno passeggiano decine di migliaia di persone, che si arrampicano lungo i sentieri e cercano rifugio alla calura estiva nelle bellissime cale, all’ombra del Monte Speziale (www.riservazingaro.it).
Nessuno accusò i 3mila di essere affetti da “sindrome Nimby”, perché questo termine è stato coniato solo negli anni Duemila. Indica coloro che sarebbero contrari alla realizzazione di opere solo perché fatte nel proprio “giardino” di casa. “Nimby” sta per Not in my backyard, ed esiste anche un Nimby Forum, che ogni anno censisce gli “impianti contestati”. Giunto alla settima edizione, è un breviario che ci è utile: di fronte alla crisi economica, sociale e ambientale, possiamo utilizzarlo per disegnare la nostra spending review, diversa da quella del governo Monti, perché le spese già tagliate, o che andremo a tagliare, riguardano grandi, medie e piccole opere. Inutili. Tra il 2012 e il 2014, le manovre del governo Monti garantiranno allo Stato minori spese per 29,4 miliardi di euro. I comitati, che non fanno differenze tra pubblico e privato, hanno saputo fare molto meglio. Grazie alla loro azione negli ultimi anni sono stati cancellati spese inutili per circa 121 miliardi di euro (vedi tabella). 
Cominciamo dal Ponte sullo Stretto. La rinuncia a farlo vale 8,5 miliardi di euro.
Il saldo netto positivo è inferiore, perché le spese dovrebbero toccare i 609 milioni di euro: 300 milioni di euro di penale a favore di Eurolink, il contraente generale in virtù di un contratto firmato nel settembre del 2009, 26 milioni di euro per realizzare appena 1,1 chilometri di bretellina ferroviaria a Cannitello in Calabria. 283 milioni di euro (dichiarati al novembre 2011) per il funzionamento della Stretto di Messina spa, nata nel 1981.
Già nel 1986 Italia Nostra protestava contro l’opera, “per il metodo con cui si tenta d’imporre una decisione che privilegia un’opera ingegneristica faraonica rispetto alle prioritarie esigenze delle popolazione della Calabria e della Sicilia”. Oltre alle organizzazioni ambientaliste –Fai, Italia Nostra, Legambiente, Man e Wwf Italia– la protesta contro l’opera è stata animata dalla Rete No Ponte (www.retenoponte.it).
È passato intanto il 2 giugno 2012, data che nel 2001 l’allora candidato premier per il centro sinistra Francesco Rutelli aveva “auspicato” per l’inaugurazione dell’opera.
Il regalo più grande che i comitati hanno fatto al Paese è senz’altro il “no” al nucleare. Nel giugno del 2011, oltre 26 milioni di cittadini hanno votato il referendum che ha abrogato le norme che imponevano un ritorno all’energia nucleare in Italia.
E hanno garantito un taglio di oltre 70 miliardi di euro. Nel dettaglio: l’investimento previsto per 8 centrali, con una potenza installata complessiva da 13.000 MW, era tra i 16 e i 24 miliardi di euro. La gestione avrebbe comportato, per un arco di tempo di 60 anni, una spesa di 48-50 miliardi di euro. Per la dimissione, infine, il costo stimato nel documento “Il nucleare per l’economia, l’ambiente e lo sviluppo” -elaborato da Enel ed Edf dopo che la “Legge Sviluppo” del 2009 aveva previsto il ritorno al nucleare per l’Italia- è di 3,9-6,2 miliardi di euro.
Col senno di poi, il referendum nucleare (tra i promotori Energia Felice, www.energiafelice.it) diventa ancora più importante considerando che “i consumi elettrici non solo non crescono ma si riducono -come ha spiegato in un’intervista di fine settembre 2012 ad AgiEnergia Chicco Testa, presidente di Assoelettrica e tra gli animatori dei comitati contro il referendum-. Le ultime previsioni dicono che nel caso migliore mancano all’appello 30-40 miliardi di kWh -spiega Testa-, nel caso peggiore 70-80 miliardi di kWh. Il problema è che nel frattempo sono stati fatti investimenti importantissimi sulla base di previsioni di crescita”.  
I dati forniti da Chicco Testa renderebbero plausibile anche la cancellazione di altri due progetti, per un valore complessivo di 4 miliardi di euro. Il primo è la riconversione a carbone della centrale Enel di Porto Tolle, in provincia di Rovigo, e vale 2,5 miliardi di euro. Una storia iniziata nel 2005, quando la multinazionale dell’energia propone la conversione della centrale a olio combustibile situata nell’area del Parco del Delta del Po.
Un progetto dall’enorme impatto ambientale: “Nel progetto di Enel si parla di 3mila chiatte che ogni anno porteranno il carbone attraverso i canali del Parco (da Porto Levante, attraverso la biconca di Volta Grimana, Po di Venezia e Po della Pila, oppure passando da Busa di Tramontana, e in alternativa dalla laguna di Barbamarco) fino ai giganteschi carbonili (dome) della centrale” scrivevamo nel settembre del 2009 (Ae 108). Per poter autorizzare la conversione la Regione Veneto è arrivata a modificare la legge istitutiva del Parco.
Il “caso” Porto Tolle è talmente importante che il 29 ottobre 2011 ad Adria (Ro) si è tenuta la manifestazione nazionale “Fermiamo il carbone” (nocokepolesine.blogspot.it).  
Oltre un migliaio di chilometri a Sud del basso Veneto, in Calabria, una centrale a carbone potrebbe sorgere a Saline Joniche, nell’area della ex Liquichimic. Valore: 1,5 miliardi di euro. Contro il progetto della Sei spa, società controllata dalla svizzera Repower, si batte dal 2007 il coordinamento di associazioni dell’area grecanica “No al carbone” (www.nocarbonesaline.it). Attualmente, il progetto è fermo per un ricorso al Tar del Lazio promosso dalla Regione Calabria, che chiede l’annullamento del decreto con cui il presidente del Consiglio dei ministri ha recepito il parere favorevole della commissione Via del ministero dell’Ambiente.
Tra i più importanti no che aiutano a crescere, racconta Stefano Ciafani di Legambiente, c’è quello che è riuscito a fermare, alla metà del primo decennio del 2000, la realizzazione del villaggio “Europaradiso” alle porte di Crotone, in Calabria. 7 miliardi di euro per “un mega progetto che prevede hotel extra lusso a cinque e sei stelle, e resort per complessivi 50.000 posti letto, campi da golf e tennis, parchi acquatici, piscine, un palazzetto del ghiaccio, un parco giochi, cinema, aree commerciali e uno stadio di calcio da 12mila posti per ospitare grandi eventi sportivi” si legge in un comunicato dell’associazione ambientalista. L’intervento avrebbe modificato per sempre l’area protetta che ricade all’interno del sito d’interesse comunitario “Foce del Neto”. Legambiente si era rivolta anche alla Commissione europea, affinché venisse aperta una procedura d’infrazione.
Anche le energie rinnovabili, a determinate condizioni, rappresentano un problema. Cento milioni di euro è il risparmio legato alla non costruzione della centrale idroelettrica Camolino-Busche, nel bellunese. Un progetto di Enel ed En&En, bloccato infine grazie a un parere contrario della Sovrintendenza, secondo la quale il progetto non è compatibile con l’area nella quale è inserito, in considerazione del contesto paesaggistico tutelato (le Dolomiti sono patrimonio Unesco, e la condotta attraverserebbe luoghi sensibili e fragili, zone Sic, Zps e aree affacciate sul Parco). L’opposizione del Comitato acqua bene comune di Belluno muove dalla considerazione che il bacino del fiume Piave è sovra-sfruttato.  
Con le dighe apriamo il capitolo infrastrutture. È “fondamentale” nell’ambito della nostra spending review, considerando che l’83% dei progetti che fanno riferimento al più grande piano d’investimenti della storia del Paese, la “Legge obiettivo” del 2001, sono strade e ferrovie. In totale, con gli interventi aggiunti anno dopo anno, sono ben 390 le opere censite, per un valore di 367 miliardi di euro. “Se vogliamo farne un bilancio, a dieci anni dalla legge è stato realizzato solo l’un per cento delle opere, per un valore di 4,4 miliardi di euro -spiega Stefano Lenzi del Wwf Italia-. È semplice: non era un programma di reali priorità”. Segniamo, perciò, un bel risparmio di circa 360 miliardi di euro. Ed entriamo nel dettaglio di alcuni interventi.
L’Alta velocità tra Torino e Lione, contro cui da oltre vent’anni è attivo il movimento No Tav, è arrivata a costare -a preventivo- 25 miliardi di euro. Il progetto non è mai stato cancellato, e anche il governo Monti lo reitera, ma dalla primavera scorsa il budget dell’opera è stato ricalibrato. La chiamano “Tav low-cost” e prevedono un investimento di 8,2 miliardi, più circa 300 milioni di bonifiche, espropri e spostamento di sottoservizi. Significa un bel -21,8 miliardi di euro.
L’azione dei comitati sparsi tra Lombardia e Veneto, invece, non ha cancellato l’investimento per l’Alta velocità tra Milano e Venezia. Buona parte dei lavori, però, non sono partiti, e allora -forti dei dati del Politecnico di Milano relativi all’insostenibilità economica della rete Av esistente, tra Torino e Salerno, vedi Ae 136)- possiamo decidere di fermare. Che è inutile, perché la conformazione del territorio (con città, e quindi “nodi” o stazioni ogni cinquanta chilometri) renderebbe questi treni -né più né meno- degli Intercity un po’ accelerati. Ad oggi, son già stato realizzati gli interventi tra Milano e Treviglio, e tra Padova e Venezia. Sono ancora in fase progettuale la Brescia-Verona e la Verona-Padova; la prima tratta costa intorno ai 2 miliardi di euro, la seconda 2,7 miliardi di euro. Una possibile riduzione di 4,7 miliardi di euro.
Dai treni agli aerei: meno 236 milioni di euro per l’Aeroporto di Viterbo, che non verrà fatto. L’ha fermato il Comitato di opposizione all’aeroporto e per la riduzione del traffico aereo, come racconta Marinella Correggia nel pezzo che segue.
Altri 400 milioni di euro potrebbero arrivare dal mancato “adeguamento” dello scalo di Siena, nella piana di Ampugnano. “La società aeroportuale è sull’orlo del fallimento. E la gente che abita qua non lo vuole” spiega Helen Ampt, del Comitato contro l’ampliamento dell’aeroporto di Siena, www.comitatoampugnano.it. Il Comitato è nato nel 2007. Nel frattempo, tra gli sponsor del progetto è entrato anche il fondo Galaxy, partecipato da Cdp. Di fondi pubblici, però, neanche l’ombra: Siena, come Viterbo, non fa parte del Piano degli scali strategici del ministro dell’Economia Corrado Passera. “Non cantiamo ancora vittoria -spiega Helen-: potrebbe sempre arrivare un altro privato”.
Almeno 5,5 miliardi di euro è, infine, il risparmio legato alla bocciatura del piano del Commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Sicilia, Salvatore Cuffaro, che prevedeva la costruzione di 4 inceneritori. Sull’isola è attivo da anni uno dei nodi della Rete rifiuti zero (rifiutizerotrapani.blogspot.it). Un altro inceneritore di cui si farà a meno, definitivamente, è quello di Modugno, nel barese. Lo avrebbe costruito una società del gruppo Marcegaglia, con un investimento stimato di 45 milioni di euro. Non si tornerà indietro: c’è un processo in corso, che vede coinvolti dirigenti della società e della Regione Puglia, e da qualche mese l’assessore all’Ambiente del Comune è Agostino Di Ciaula, un medico che fa parte dell’Isde (l’Associazione dei medici per l’ambiente).
Un paragrafo lo meritano anche i caccia F35. Qui abbiamo risparmiato almeno 4,4 miliardi di euro. Una breve ricapitolazione: Francesco Vignarca scrive da anni su “Altreconomia” che l’Italia non ha nessun obbligo ad acquistare quei caccia, fino a dimostrare, con uno scoop del gennaio 2012, che il nostro Paese non avrebbe dovuto pagare alcuna penale se avesse deciso di non acquistare 131 cacciabombardieri. Il “numero magico” dato dai governi Prodi II, Berlusconi IV e Monti. Grazie alla pressione della campagna “Taglia le ali alle armi” (77milafirme di cittadini, 660 associazioni e più di 60 enti locali che hanno deliberato chiedendo di cancellare il programma, www.disarmo.org), la Difesa ha abbassato le proprie pretese. Da 131 gli F35 sono diventati 90; nel frattempo, però, il ministro della Difesa ha ammesso che costeranno di più, fino a 107 milioni di euro l’uno. Risultato: 41 caccia in meno, valgono oltre 4 miliardi di euro. 
Spazio, infine, alla categoria dei “soldi buttati”. Due esempi da manuale. Il primo è quello dell’inceneritore di Parma, di cui più volte ci siamo occupati su Ae. Iren ha speso 200 milioni di euro; e il Comune di Parma -dopo il cambio d’amministrazione- “ha emanato una richiesta di manifestazione di interesse per un impianto a freddo, la prima pietra del nuovo corso dei rifiuti” commenta Aldo Caffagnini, animatore dell’associazione gestione corretta rifiuti e risorse (gestionecorrettarifiuti.it). Da 871 giorni (al 18 ottobre 2012) hanno richiesto a Iren il Piano economico finanziario dell’impianto. Mai consegnato. Il secondo riguarda il Passante di Mestre. Pensato come by-pass di 30 chilometri intorno a Mestre, per “saltare” la città in provincia di Venezia, è costato un miliardo di euro ma “allarga molto il percorso e non è alternativo alla tangenziale di Mestre” spiega Lenzi del Wwf. Non risolve i problemi di traffico, ma ha circondato un sacco di aree agricole rendendole cementificabili. Pane per l’azione di nuovi comitati.

(Per segnalare altre opere inutili bloccate grazie all’azione di comitati potete scrivere a avevamoragionenoi@altreconomia.it)

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