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Nike svela la lista della vergogna – Ae 63

Numero 63, Luglio/agosto 2005Più di 650 mila i  lavoratori occupati, neanche uno come dipendente della multinazionale.  In oltre la metà delle fabbriche dell’Asia l’orario di lavoro supera le 60 ore settimanali. Una prima mappa documentata Settecentotrentuno indirizzi. Li ha pubblicati Nike:…

Tratto da Altreconomia 63 — Luglio/Agosto 2005

Numero 63, Luglio/agosto 2005
Più di 650 mila i  lavoratori occupati, neanche uno come dipendente della multinazionale.  In oltre la metà delle fabbriche dell’Asia l’orario di lavoro supera le 60 ore settimanali. Una prima mappa documentata
 

Settecentotrentuno indirizzi. Li ha pubblicati Nike: è l’elenco dei suoi fornitori autorizzati, quelle imprese che in tutto il mondo producono ufficialmente per conto del gigante Usa.
È la prima volta che Nike li rivela, ed erano anni che ci chiedevamo quanti e dove fossero. Localizzati in 52 Paesi diversi, 13 anche in Italia, danno lavoro a circa 650.000 persone, la maggior parte delle quali donne tra i 19 e i 25 anni. È un piccolo passo in avanti, sul cammino della trasparenza, ma una lista ancora incompleta. Accade, infatti, che i fornitori subappaltino a loro volta parti dalla produzione a imprese “non autorizzate” da Nike. È qui che, spesso, avvengono le più gravi violazioni dei diritti dei lavoratori -diritto ad un salario degno; al riposo settimanale; alla libera rappresentanza sindacale-. Il subappalto non dovrebbe esistere, almeno secondo le regole di Nike. Ma Michele Giunco, direttore di comunicazione di Nike Europa, anche dopo la pubblicazione dei 731, ammette  che la sua azienda non è in grado di quantificare quante siano, realmente, le ditte che producono per lei. “Anche se -continua- si tratta a nostro avviso di un processo marginale, legato a lavorazioni come l’abbigliamento, più semplici, e non sicuramente al settore della calzature”.
Solo il punto di vista è diverso: per noi al centro della questione stanno i diritti dei lavoratori, per Nike è una questione di qualità. “La situazione -sottolinea infatti Giunco- rappresenta un problema anche per Nike, perché rende difficile il controllo e il mantenimento degli standard di qualità”.
Anche Nikewatch, l’osservatorio permanente sul comportamento dell’azienda dell’Oregon, coordinato da Oxfam Australia, pone l’accento sull’incompletezza delle informazioni: “La diffusione degli indirizzi delle aziende è un importante passo avanti in termini di trasparenza, e incoraggiamo altre marche a seguire l’esempio di Nike. Allo stesso tempo, però, invitiamo Nike a rendere pubblici gli indirizzi delle aziende dove vengono prodotte le altre marche di proprietà dell’impresa, tra cui Converse e l’abbigliamento sportivo a basso costo che Nike produce per i negozi della catena Wal-Mart”.
Secondo Tim Connor, direttore dell’osservatorio, il rapporto “è parte di una campagna di Nike per far credere che l’impresa stia prendendo sul serio la questione della fabbriche nel Sud del mondo”, i cosiddetti sweatshops, “e che stia migliorando. C’è differenza, però, tra riconoscere l’esistenza di problemi e agire per risolverli”.
Così, aggiunge Connor, “auspichiamo che Nike aumenti il proprio impegno per assicurare la libertà d’iscrizione e partecipazione ai sindacati per tutti i lavoratori, e un salario degno”.
Si difende l’azienda: il Nike FY 03-04 Corporate Responsability report, a cui era allegata la lista dei fornitori, rappresenta un passo importante nel cammino di trasparenza intrapreso da Nike. Si tratta infatti del terzo rapporto sulla responsabilità sociale negli ultimi 4 anni (due resi pubblici, uno realizzato solo ad uso interno), e “nasce dalla volontà di capire le problematiche legate al rapporto con la società e alle modalità produttive”. Un processo che, secondo Giunco, è frutto dell’incontro con il mondo all’esterno dell’azienda, e influenzato anche dal lavoro di lobby promosso da campagne e ong.
Di nuovo, ed è importante sottolinearlo, c’è che Nike ammette e descrive in modo dettagliato quello che le campagne di pressione sostengono da anni, e lo fa presentando i dati aggregati delle interviste realizzate in 569 dei 731 stabilimenti: scarpe, abbigliamento e attrezzature sportive marchiate col “baffo” sono prodotte a costo di gravi violazioni dei diritti dei lavoratori.
Secondo il rapporto, infatti, l’orario di lavoro in oltre la metà delle fabbriche localizzate nell’Asia del Sud, e nel 25% di quelle sparse in tutto il mondo, supera le 60 ore settimanali; in oltre il 25% delle fabbriche del Sud asiatico i lavoratori sono stati vittime di abusi verbali e fisici; in quasi la metà delle fabbriche della regione gli operai non possono bere acqua né andare in bagno durante l’orario di lavoro; in almeno un quarto delle fabbriche il salario è inferiore al minimo legale; gli straordinari non sono riconosciuti; le forme di rappresentanza sindacale sono praticamente assenti (a fine marzo, grazie a una forte campagna di pressione internazionale su Nike promossa da Clean Clothes Campaign, l’impresa ha deciso di reintegrare al proprio posto di lavoro alla MSP, in Thailandia, 2 lavoratori “colpevoli” di essere iscritti al sindacato).
Ersilia Monti, della campagna Abiti Puliti, nel commentare il rapporto sottolinea che “finché l’impresa obbligherà i fornitori a flessibilità, velocità e bassi costi non sarà possibile applicare le convenzioni internazionali relative ai diritti dei lavoratori”.
Profitti vincenti e diritti perdenti, insomma: i fornitori devono rispettare tempi di consegna sempre più rapidi, mantenere bassi i salari ed essere flessibili allo scopo di rispondere alle oscillazioni nelle richieste da parte dei grandi marchi. Perciò costringono gli operai a lavorare più velocemente e per tempi più lunghi, contraendo i salari. O subappaltano, ad aziende “fantasma”. 
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Non solo Nike si autodenuncia
Nel maggio del 2004 Gap Inc. (www.gapinc.com), colosso Usa dell’abbigliamento casual, ha diffuso il primo rapporto sulla responsabilità sociale. Dopo la pubblicazione del report,  Gap -16,3 miliardi di dollari di fatturato nel 2004, 150.000 dipendenti e 3.000 negozi in Usa, Canada, Gran Bretagna, Francia, Germania e Giappone)- ha deciso di rescindere i contratti di fornitura a 136 dei 3.010 stabilimenti sparsi in 50 Paesi, avendo ravvisato violazioni al Codice di condotta approvato nel 1996. “Dei fornitori con cui sono stati interrotti i rapporti, 42 sono in Cina, 42 nel Sud-est asiatico, 31 in India e 9 in Europa, compresa la Russia”.
 
Operazione trasparenza: per marketing e per dovere
Che cosa ha convinto Nike a divulgare dati e informazioni finora gelosamente custoditi? Certamente la crescente attenzione dei consumatori ma, in questo caso specifico, anche l’azione di un attivista californiano, Marc Kasky, che, nel 2002 aveva fatto causa alla multinazionale accusandola di fornire, nel suo rapporto sulla Corporate Responsibility, comunicazioni commerciali false e ingannevoli sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche dei suoi fornitori.
La controversia, che arrivò anche davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti, si risolse nel settembre 2003 con un accordo tra le parti, in base al quale Nike decise di destinare 1,5 milioni di dollari in programmi di monitoraggio dei luoghi di lavoro nei Paesi in via di sviluppo e nella promozione di progetti informativi per i lavoratori.
La pubblicazione dei nomi dei fornitori è anche frutto di quell’azione di Kasky e della legislazione Usa.
Tra i fornitori di Nike anche 13 ditte italiane. Abbiamo provato a contattarle: alcune hanno rifiutato di rispondere alle nostre domande circa il loro rapporto con la multinazionale americana.
Chi ha voglia di raccontare è invece la ditta Fantin Denis: la fabbrica ha prodotto abbigliamento ciclistico per Nike sino all’estate scorsa, quando le commesse sono state interrotte in modo improvviso. Gli ordini giungevano alla ditta attraverso un soggetto terzo, la De Marchi Sport di San Vendemiano (Treviso). Questi ultimi hanno spiegato loro che Nike ha spostato la produzione verso Paesi dove il costo del lavoro è più basso, Romania e Cina forse, e che questo ha comportato il taglio delle loro commesse. Dalla Fantin si lamentano: hanno investito parecchio, nei 10 anni di rapporto con Nike. Lamentele anche da altri: gli ordini ci sono, ma sporadici e intermittenti. Anche loro ricevono le proprie commesse dalla De Marchi Sport. Che è solo un intermediario, e perciò un’impresa che non esiste nell’universo Nike.
 
Dopo la tragedia in Bangladesh
Piani tessili abusivi

74 operai morti e più di 100 feriti (alcuni anche in modo grave). 5.000 persone disoccupate da quasi tre mesi dopo il crollo a Dhaka, la capitale del Bangladesh, della Spectrum-Shahriyar, un maglificio che lavorava su commessa per alcuni colossi del mercato europeo -Carrefour (Francia), Karstadt Quelle (Germania), Steilmann (Germania), Scapino (Olanda), Cotton Group e B&C (Belgio) e Zara/Inditex (Spagna)-.
La struttura della Spectrum, nove piani -di cui cinque abusivi- costruiti su un terreno paludoso, ha ceduto l’11 aprile scorso. La tragedia ha portato alla luce anche le precarie condizioni dei lavoratori.
Più veloce, più a lungo e più a buon mercato: lavoro notturno (anche per le donne); salari mensili di 700 Taka (10 euro), inferiori al minimo sindacale di 930; settimane lavorative di sette giorni, senza il diritto al riposo settimanale prescritto dalla legge. Queste le condizioni di lavoro alla Spectrum, dove un operaio era morto tre giorni prima del crollo per le ustioni da contatto con il liquido fuoriuscito da un macchinario per tintura difettoso.
Il mese di maggio è stato caratterizzato dalla mobilitazione dei sindacati tessili e dei sopravvissuti della Spectrum. Magri, al momento, i risultati: solo Bmgea, l’Associazione dei produttori e degli esportatori del Bangladesh, ha accettato di corrispondere un risarcimento ad alcune delle famiglie. 79.000 taka a testa, circa 1.000 euro, cui seguiranno 21.000 taka del tribunale del lavoro. Troppo pochi, però, per garantire la sussistenza dei sopravvissuti.
Le imprese non intendono assumere responsabilità e pagare un giusto indennizzo ai familiari dei lavoratori morti nel disastro. Tanto meno pensano di corrispondere i salari arretrati dei mesi di febbraio, marzo e aprile agli operai rimasti in vita, anche se  “il loro rapporto di lavoro-scrive un rapporto della Clean Clothes Campaign- non è ufficialmente cessato […] e i lavoratori dovrebbero ricevere inoltre assistenza per essere ricollocati, visto che i proprietari della Spectrum continuano la loro attività produttiva in altre 9 imprese tutte operanti”.
La Clean Clothes Campaign lancia un appello all’azione urgente, invitando a spedire una lettera alle imprese coinvolte e alle Bsci (Business Social Compliance Iniziative, un’iniziativa volontaria per un codice di condotta delle imprese a cui partecipano molti dei marchi che si rifornivano presso la Spectrum), richiedendo: assistenza e risarcimento; indagini complete, indipendenti e trasparenti; misure concrete per la revisione della sicurezza degli edifici.
“Questa situazione avrebbe potuto essere evitata se le imprese avessero agito in tempo” sostiene la Clean Clothes Campaign; per evitare altre tragedie di questo tipo è necessario fare pressione oggi.
Per informazioni sulla campagna si veda: www.abitipuliti.org.
Per inviare alla Bsci e alle imprese la lettera elaborata da Clean Clothes Campaign:
http://www.cleanclothes.org/news/05-06-01.htm#1
 
Da atene a Pechino vogliamo giochi puliti
A quasi un anno dai Giochi Olimpici di Atene, Clean Clothes Campaign, Global Unions e Oxfam pubblicano un rapporto che presenta gli esiti delle campagna   “Play fair at the olympics” . Il dossier “Gioca pulito alle olimpiadi” (pubblicato in Italia da Altreconomia) analizzava le condizioni di lavoro presso i fornitori di Asics, Fila, Kappa, Lotto, Mizuno, Puma e Umbro nel Sud del mondo, denunciando le numerose violazioni dei diritti dei lavoratori, e chiamava in causa anche il Comitato olimpico internazionale, accusato di connivenza con l’industria sportiva. Tra marzo e agosto del 2004 più di 500.000 persone hanno firmato la petizione che invitava le aziende a rispondere delle condizioni di lavoro nelle fabbriche (‘sweatshops’) del Sud del mondo, e ci sono stati incontri tra i promotori della campagna e i rappresentanti delle diverse aziende, realizzati alla presenza dei sindacati e di lavoratori sulle cui testimonianza si basavano le denunce. Oggi, “Play fair at the olympics” rilancia, promovendo la campagna “From Athens to Beijing”, in vista dei Giochi Olimpici del 2008.
Per info: www.cleanclothes.org/campaign/olympics2004-eval-company-response.htm
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Finisce dopo tre anni il boicottaggio
Pomodori ingiusti, Taco Bell s’arrende
Dopo tre anni di boicottaggio (del cui inizio avevamo dato conto su Ae nel maggio del 2002), Taco Bell, il gigante americano della ristorazione specializzato in cucina messicana, lo scorso 8 marzo ha ceduto alle pressioni dei clienti (soprattutto giovani): non comprerà più pomodori da coloro che sfruttano con salari da fame la manodopera.
Taco Bell, che negli Stati Uniti conta più di 6.500 ristoranti, è tra i più grandi acquirenti di pomodori degli States (il maggiore in Florida):  l’accordo è stato raggiunto con la Coalition of Immokalee Workers (Ciw) e prevede che Taco Bell compri pomodori solo da quei fornitori che incrementeranno la paga dei braccianti di un cent per ogni libbra di pomodori raccolti.
Un aumento che equivale al raddoppio della paga attuale.
Taco Bell è una divisione di Yum! Brands Inc, che controlla anche i marchi Kfc (Kentucky Fried Chicken, dove si mangia pollo fritto), Pizza Hut (catena di pizzerie fast food) e Long John Silver’s.
Nel mondo Yum! Brands Inc controlla oltre 30 mila ristoranti fast food in 100 Paesi (nessuno in Italia), seconda solo a McDonald’s, con tre nuove aperture ogni giorno e una forte presenza in Cina.
Immokalee è invece una delle aree agricole più importanti della Florida, che rifornisce di pomodori tutti gli Usa.
 
L’accordo, che pone fine al boicottaggio, prevede un controllo congiunto di Taco Bell e Ciw: se i fornitori non rispetteranno gli aumenti per i propri braccianti, i contratti saranno interrotti.
Adesso si spera che tutto questo apra la strada per azioni simili di altre catene di fast food e di supermercati.
Le condizioni di lavoro dei braccianti agricoli, in molte zone degli Stati Uniti, sono drammatiche: si calcola che, negli ultimi 30 anni, il potere d’acquisto dei lavoratori impiegati in agricoltura (circa un milione di persone) sia diminuito del 65 per cento.
Così, mentre un tempo erano gli americani a lavorare la terra, oggi la forza lavoro delle campagne è fatta di un esercito di immigrati spesso clandestini. La retribuzione annua di un raccoglitore di pomodori (pagato a peso, cioè a bidoni di pomodori raccolti) non supera i 7.500 dollari. Una retribuzione che, secondo i dati del dipartimento Usa del Lavoro, è ben al di sotto della linea di povertà.
La maggior parte lavora più di 10 ore al giorno per sei-sette giorni la settimana, senza diritti ad organizzarsi e senza pagamento degli straordinari.
Per i lavoratori agricoli degli Stati Uniti, nella maggior parte dei casi, non è prevista la possibilità di aggregazione sindacale (a differenza di tutti gli altri comparti economici), non esistono i diritti alla malattia e alle ferie retribuite e, naturalmente, neanche alla maternità.
Difficile, in questa situazione, pensare di organizzare i braccianti: per questo la Coalition of Immokalee Workers ha chiamato, soprattutto i giovani, i maggiori clienti dei fast food, al boicottaggio di Taco Bell; l’azienda per anni si è difesa dicendo: “Che cosa c’entriamo noi con i raccoglitori di pomodoro?”. Ma è proprio questo il punto: le catene di fast food guadagnano anche tenendo bassi i prezzi delle materie agricole che acquistano. Come dicono quelli di Immokalee Workers: bisogna rendere coscienti i consumatori che acquistano prodotti a basso prezzo che dietro il loro consumo c’è lo sfruttamento di tanta mano d’opera.
Il che vale, come si racconta nelle pagine precedenti, per le scarpe sportive, gli abiti e i prodotti tessili e, appunto, i pomodori.

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