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L’etica nei consumi funziona? Se lo chiede l’Economist, a proposito di biologico, commercio equo e filiera corta, in un servizio che però lascia perplessi. Perché manca l’approfondimento Lo chiamano “cibo-attivismo”. Molto più semplicemente è l’abitudine a scegliere prodotti (in questo…

Tratto da Altreconomia 79 — Gennaio 2007

L’etica nei consumi funziona? Se lo chiede l’Economist, a proposito di biologico, commercio equo e filiera corta, in un servizio che però lascia perplessi. Perché manca l’approfondimento


Lo chiamano “cibo-attivismo”. Molto più semplicemente è l’abitudine a scegliere prodotti (in questo caso il cibo) non solo in base al portafoglio ma in base alla loro storia (chi e come li produce).

Ecco, è finito in prima pagina sull’Economist, uno dei più influenti settimanali economici del mondo. Fondato nel 1843 a Londra, di credo liberale, vende 350 mila copie in Europa e altre 500 mila nel mondo. Chiaro che la sua copertina fa rumore. Da noi è stato citato più volte per le prime pagine dedicate a Berlusconi definito nei modi più orrendi duranti i cinque anni del suo governo (e anche prima, in campagna elettorale).

Ma ultimamente non è stato tenero neppure nei confronti del governo Prodi.

Abbiamo quindi letto con interesse e apprensione il servizio che ha originato

la copertina e anche l’editoriale del numero del 9 dicembre: “Cibo buono?” Peccato, speravamo di trovarci di meglio. In realtà tutto il servizio (difficile definirlo un’inchiesta) è teso a dimostrare che è impossibile fare scelte di consumo coerenti con i valori che si affermano nella propria vita personale, e che preferendo il cibo biologico, o il commercio equo o i prodotti locali si finisce solo con l’intralciare gli inevitabili sviluppi del mercato.



L’Economist incomincia l’opera di demolizione citando Norman Borlaug, padre della “rivoluzione verde”, cioè dell’agricoltura industriale intensiva. Chiaro che non è un sostenitore del bio. È stato anche premio Nobel per la pace, ma nel 1970. Comunque, ecco che cosa dice: “L’idea che l’agricoltura biologica sia meglio per l’ambiente è ‘ridicola’. Essa produce rese più basse ed in più richiede più terra da coltivare per produrre la stessa quantità di cibo”. Ci si aspetterebbe, a questo punto, una serie di grafici, di comparazioni, di note, invece niente. Soltanto dichiarazioni  sintetiche. Un po’ poco davvero, per tentare di capire.



Così, quando si parla di commercio equo si dice che il mercato dei prodotti fairtrade è più piccolo di quello del bio ma sta crescendo molto più velocemente: nel 2005 è aumentato del 37 per cento raggiungendo 1,1 miliardi di euro.

E questo, evidentemente, fa problema. Perché se il prezzo del caffè è basso è perché c’è una sovrapproduzione. Così il prezzo più alto che viene pagato ai  contadini, il Fairtrade premium, non li aiuta a “cambiare cavallo”, non incentiva il miglioramento della qualità e la scelta do coltivazioni  più richieste dal mercato. Sotto accusa anche i ricarichi, troppo alti. “Harford calcola che solamente il 10% del prezzo pagato per il caffè del commercio equo in un bar viene realmente pagato ai produttori… Così l’obiezione più cogente al commercio equo è che è un mezzo inefficiente per dare denaro ai produttori indigenti”. Uguale stroncatura per il cibo locale, e la filiera corta (produzioni e consumi vicini). Anche in questo caso l’Economist, citando il Defra Report che analizza la filiera dei prodotti alimentari in Inghilterra, sostiene che è meglio per l’ambiente trasportare in camion pomodori dalla Spagna durante l’inverno, piuttosto che coltivarli in serre riscaldate in Gran Bretagna.

Ma non va più in là di un paio di esempi. Manca totalmente l’approfondimento, la complessità. Così copertina e servizio conservano solo il sapore di un attacco a un tema emergente, appunto quello del cibo e delle scelte di consumo.



Peccato. Anche perché l’Economist ha in mente soprattutto un certo mondo che rischia di ritirarsi nelle scelte di consumo, e non sa più trovare le ragioni di un impegno politico. Il giornale ce l’ha contro un certo attivismo che si limita al carrello della spesa. “Noi dobbiamo votare con i nostri voti così come con i nostri dollari -scrive-. L’attività politica convenzionale potrebbe non essere così divertente come fare la spesa, ma è notevolmente più ragionevole nel fare la differenza”.

C’è da credere che il tema dell’Economist sarà presto ripreso dai nostri giornali, e torneremo presto a confrontarci sul “cibo buono”. Proprio per questo diventa sempre più importante dar conto dei nostri comportamenti, delle nostre scelte. Sapere narrare. E poi far toccare con mano: forse non sapremo dimostrare che il commercio equo è più efficiente di una multinazionale, eppure è proprio questo che continua a stupirci: che una banda di idealisti, con tutte le loro inefficienze, da trent’anni a questa parte abbiano saputo mettere in piedi un sistema di commercio internazionale che tiene insieme mercato ed etica. Se se lo possono permettere alcune bande di squattrinati no global, perché, a maggior ragione, non se lo possono permettere le grandi multinazionali, che appunto potrebbero mettere in campo tutto il loro apparato di sinergie e vantaggi comparativi? È il motivo per cui riteniamo essenziale continuare a scegliere che cosa produrre e che cosa consumare.



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